Il saggio affronta la questione del cumulo della funzione di amministratore e dello status di dipendente (normalmente, anche se non necessariamente, con qualifica dirigenziale) nelle società di capitali. A valle di un’indagine sulla natura del rapporto di amministrazione, l'A. dà conto dei consolidati orientamenti giurisprudenziali in punto di (in)compatibilità con il vincolo di subordinazione delle posizioni dell’amministratore unico, dell’amministratore delegato e del presidente del consiglio di amministrazione dotati di ampi poteri. Pur condividendo nella sostanza gli approdi pretori, l'A. mira a sviluppare, anche attraverso l'esame della peculiare figura del direttore generale richiamata all'art. 2396 c.c., un ragionamento volto a tracciare le coordinate teoriche della distinzione tra le funzioni amministrative e le mansioni direttive, così da meglio definire le condizioni alle quali le stesse possono coesistere in capo al medesimo soggetto.
The essay copes with the debatable issue of the simultaneous role of director and employee (normally, manager) in limited companies. In the wake of an inquiry on the nature of the directorship prerogative, the Author examines the settled caselaw in the (in)compatibility between the employment bond and the positions of the solo Director, of the CEO and of the President of the Board of Directors. Despite sharing the Courts’ view, the Author aims at developing, also through the analysis of the peculiar position of the “General Manager” pursuant to art. 2396 c.c., an argument to trace the theoretic coordinates of the distinction between the directorship function and the managerial tasks, in order to better identify the conditions for their simultaneous presence in the same subject.
1. Premessa - 2. La controversa natura del rapporto di amministrazione - 3. Il cumulo tra la carica di amministratore e lo status di lavoratore dipendente nella giurisprudenza - 4. Funzioni amministrative e mansioni direttive: distinguendo - 5. Segue. Le conferme nella disciplina (della responsabilità) del direttore generale ex art. 2396 c.c. - 6. Conclusioni - NOTE
Il punto di partenza di ogni studio che veda coinvolto il lavoro dei managers è l’ormai classica monografia di Paolo Tosi [1], la quale, come ampiamente noto, è (anche) uno studio sulla subordinazione [2], sul cui crinale si colloca la figura del dirigente [3]. Lo stesso Autore ha di recente avuto modo di evidenziare come il – connesso – problema del cumulo tra il rapporto di amministrazione e lo status di dipendente (di norma, per quanto non necessariamente, con qualifica di dirigente), pur scandagliato in copiosi contributi scientifici (quasi sempre, non per nulla, in forma di nota a sentenza) [4], assuma una valenza principalmente, se non proprio eminentemente, pratica [5]. Del resto, la questione si pone, in sede giudiziaria, allorché vi sia il sospetto di un’operazione simulata [6], volta ad eludere, mediante un’assunzione fittizia, le norme tributarie e previdenziali [7], ovvero a limitare la possibile aggressione dei creditori dell’amministratore sui compensi allo stesso spettanti [8]. Meno frequenti risultano, in controtendenza con la generalità delle controversie lavoristiche e a dispetto della larga diffusione della pratica del cumulo [9], i casi in cui ad agire in giudizio è l’amministratore, il quale, attraverso l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro con la società, può avere accesso ai benefici della certezza del compenso (rectius, della retribuzione) [10] e della stabilità (convenzionale) del rapporto, oltre alle prestazioni previdenziali ed assicurative [11]. Se l’obiettivo del presente scritto è di fare chiarezza sulle condizioni alle quali un medesimo soggetto può rivestire la carica di amministratore e risultare parallelamente un lavoratore dipendente di una compagine sociale, è opportuno premettere che, come emerge dal titolo, l’indagine non può che concentrarsi sulle società di capitali, nel cui ambito il potere di amministrare non si lega naturalmente, come nelle società di persone, alla qualità di socio [12]. Proprio per questo, sarà necessario prendere le mosse da una riflessione sul rapporto tra l’amministratore e la società di capitali, nella misura in cui l’adesione alla lettura che vede il primo organicamente inserito all’interno della [continua ..]
Come noto, la natura, oltre alla genesi [15], del rapporto di amministrazione è da tempo al centro di un intenso dibattito [16], che vede contrapposti due (tendenziali) orientamenti, l’uno riconducibile alla c.d. teoria organica e l’altro alla c.d. teoria contrattuale. La prima si fonda sull’idea secondo cui, essendo la società tenuta per legge a nominare gli amministratori, costoro non hanno la necessità di stipulare un apposito accordo per essere investiti dei relativi poteri [17]. La seconda contempla, invece, un rapporto di matrice contrattuale tra la società e l’amministratore, i quali risulterebbero singolarmente portatori di un distinto interesse; peraltro, attorno alla tesi contrattualist(ic)a si agglutinano una molteplicità di eterogenee vedute, non potendosi non tenere distinte le posizioni di chi ha ricondotto il vincolo negoziale di amministrazione, alternativamente, entro lo schema del lavoro subordinato [18], del mandato [19], del lavoro parasubordinato [20], o, ancora, del contratto di amministrazione (tipico o sui generis) [21]. L’accoglimento dell’una piuttosto che dell’altra delle due principali vedute risulta gravido di conseguenze [22], che spaziano dall’individuazione della competenza – del tribunale delle imprese, in alternativa al giudice del lavoro – in caso di controversie tra l’amministratore e la società, all’(in)ammissibilità della gratuità dell’incarico, sino alla pignorabilità (parziale o integrale) del compenso [23]. Un primo snodo cruciale può essere individuato nelle sezioni unite n. 10680/1994 [24], che, in riferimento alla disciplina della società per azioni, hanno operato una scissione tra il profilo esterno della relazione tra l’amministratore e l’ente, il quale verrebbe impersonato dal primo nel rapporto con i terzi, ed il profilo interno, caratterizzato da un vincolo negoziale di coordinamento – inteso come “inserimento nell’organizzazione economica, o almeno nelle finalità, della controparte”, pur “privo di ogni sottoposizione a poteri organizzativi o disciplinari” – tra le parti [25]: così argomentando, il Supremo Collegio è giunto nell’occasione ad affermare la competenza del giudice del lavoro, ai sensi dell’art. [continua ..]
Come rilevato in apertura, la dottrina e la giurisprudenza del lavoro si interrogano da tempo, nel silenzio della legge, sulla compatibilità tra l’assunzione della carica di amministratore di una società e l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della stessa [43]. Un risalente orientamento giurisprudenziale tendeva a negare la cumulabilità delle due posizioni, sulla scorta della coincidenza di interessi tra la società e colui che la rappresenta [44] e della conseguente impossibilità di ammettere lo svolgimento di una prestazione subordinata del secondo a favore della prima [45]. Il cambio di rotta si deve alla notissima pronuncia di legittimità n. 845/1956, che, argomentando a partire da un’asserita collaborazione sempre “più stretta e proficua” tra i rappresentanti del capitale e quelli del lavoro”, ha affermato che, in determinate ipotesi, si può escludere la sussistenza di un conflitto di interesse tra la società e l’amministratore/dipendente e, di conseguenza, ritenere compatibile la funzione amministrativa con un rapporto di lavoro [46]. La giurisprudenza successiva si è consolidata attorno al precedente del 1956 [47], ammettendo il cumulo al ricorrere dei seguenti presupposti: i) la chiara distinzione tra la volontà imprenditoriale (espressa, nelle società di capitali, dal consiglio di amministrazione) e quella del lavoratore [48]; ii) la sussistenza in concreto (e non sulla base del solo statuto), in capo al consiglio di amministrazione, del potere direttivo ed organizzativo nei confronti dell’amministratore/dipendente [49]; iii) lo svolgimento, da parte dell’amministratore/dipendente, anche di mansioni diverse da quelle inerenti alla carica di amministratore o alle deleghe all’uopo conferite [50]. Sulla scia di tale impostazione, si tende attualmente a negare la compatibilità con un rapporto di lavoro subordinato nelle ipotesi dell’Amministratore Unico [51] o del Presidente del Consiglio di Amministrazione [52], salvo che il potere non sia di fatto esercitato – e ciò vale anche per l’Amministratore Unico – da un altro soggetto [53] o che, nel caso del Presidente, si tratti di una carica onorifica [54] o, comunque, priva di poteri deliberativi [55]. Ancora, non si [continua ..]
Come già rilevato, la giurisprudenza sul cumulo appare ormai consolidata [66] e consente agli operatori di prevedere con un buon grado di probabilità l’esito di una controversia che veda in particolare coinvolta una delle figure “tipiche”, quali l’amministratore unico, il presidente del consiglio di amministrazione o l’amministratore delegato. Al contempo, però, non può sottacersi che l’approccio empirico che segna la cifra dell’orientamento pretorio non consente di isolare ed enucleare un criterio generale ed astratto di riferimento [67]. In un’ottica di una sistematizzazione, potrebbe venire in rilievo la distinzione, proposta da un’attenta dottrina, tra il rapporto che deriva dalla preposizione all’ufficio e quello che discende dall’assunzione del servizio da parte dell’amministratore: segnatamente, con la preposizione, si acquisterebbe la capacità di esercitare i poteri e le funzioni spettanti sulla scorta della legge e del contratto sociale, mentre con l’assunzione (rapporto di servizio), di matrice contrattuale, si instaurerebbe il rapporto tra amministratori e società [68]. D’altro canto, al diritto del lavoro non è certo estraneo il dualismo tra il momento genetico del rapporto (negoziale), da un lato, e quello del conferimento dell’incarico dirigenziale e della conseguente attribuzione dei poteri direttivi, dall’altro lato. Tale iato, tuttavia, riguarda la sola figura del dirigente pubblico [69] e non sembra mutuabile per il dirigente privato, che assume di regola i compiti direttivi già a partire dall’instaurazione del rapporto di lavoro [70]. Piuttosto, pare potersi affermare che, per il dirigente privato, ciò che rileva, anche ai fini della cumulabilità della posizione di amministratore e di dipendente/dirigente nella società di capitali, è il discrimine tra amministrazione e direzione, il quale investe il piano funzionale e non genetico. A questo riguardo, assume una peculiare pregnanza il rafforzamento, ad opera della riforma societaria del 2003, dell’autonomia degli amministratori dall’assemblea [71]: tale intervento, nel segnare un’ulteriore tappa del processo di separazione tra la proprietà ed il controllo delle società di capitali [72], non farebbe che confermare come [continua ..]
Sempre in riferimento ai confini tra l’attività di gestione e di direzione dell’impresa, va dato conto di come, nella dottrina commercialistica, si tengano separate l’alta direzione (c.d. policy making: pianificazione e indirizzo strategico) e la conduzione aziendale operativa (c.d. day-to-day management) [82]. Tale distinzione è emersa in particolare dall’analisi della figura del direttore generale, il quale viene individuato in “colui che ha il compito di mettere in esecuzione le decisioni del consiglio di amministrazione, interpretandole, operando le opportune scelte tattiche, trasmettendole agli organi subordinati e controllandone la puntuale esecuzione… il tutto sotto la direzione e la vigilanza del consiglio stesso” [83]. Al riguardo, mette conto evidenziare che la vigente formulazione dell’art. 2396 c.c., così come modificato dal d.lgs. n. 6/2003, assoggetta il direttore generale alla responsabilità degli amministratori, fatte “salve le azioni esercitabili in base al rapporto di lavoro con la società” [84]. Se il legislatore ha esteso al direttore generale la responsabilità degli amministratori mantenendo al contempo ferma la responsabilità derivante dal rapporto di lavoro [85], pare logico concludere, da un lato, che il primo non può essere in quanto tale un amministratore [86], e, dall’altro lato, che egli può, se non proprio deve [87], risultare un dipendente della compagine sociale [88], come del resto avviene normalmente [89]. Inoltre, vista la peculiare responsabilità cui è assoggettato, la posizione ricoperta dal direttore generale non potrà che essere di livello dirigenziale [90], in quanto tale concettualmente distinta da quella del vertice dell’impresa, cui il prestatore di lavoro è chiamato a rispondere [91]. In questo senso, risultano senz’altro perspicue ed attuali le considerazioni racchiuse in una risalente pronuncia della Cassazione, ove si era osservato che “le funzioni e le responsabilità di amministratore di una società per azioni e quelle di un direttore generale, anche se affidate alla stessa persona, sono concettualmente diverse, l’una consistendo nella gestione dell’impresa, l’altra nell’esecuzione, seppure al più elevato livello, delle disposizioni [continua ..]
La questione della compatibilità tra le posizioni di amministratore e di dipendente di una medesima società di capitali si colloca nell’intersezione tra il diritto commerciale e il diritto del lavoro e si presenta oltremodo complessa in ragione dei dubbi che circondano, a seconda del punto di osservazione, la natura del rapporto di amministrazione e la riconducibilità della relativa attività ad una funzione, piuttosto che ad un lavoro [104]. Dalla specola giuscommercialistica, ai fini del cumulo è sufficiente che, come da ultimo riconosciuto dalla Cassazione, il rapporto di amministrazione, per quanto di natura organica, non precluda alle parti (la società e l’amministratore) di addivenire ad un accordo che inerisca al “segmento di corrispettività” entro il quale si possono eventualmente collocare tanto i directorship agreements, quanto, su un diverso piano, il rapporto di lavoro (non solo subordinato, ma anche autonomo) tra l’amministratore e la compagine sociale. Viceversa, l’indagine lavoristica, che si colloca inevitabilmente a valle di tale ragionamento e che vede implicata una posizione di lavoro dipendente, impone una riflessione sull’assetto dei compiti e dei poteri attribuiti (o, meglio, attribuibili) allo stesso soggetto in qualità di amministratore e di prestatore di lavoro. Nel presente contributo si è proposto, a scopi ricostruttivi, di valorizzare l’acquisito carattere imprenditoriale dell’attività svolta dagli amministratori al fine di tracciarne i confini con le mansioni direttive espletate dal manager operante in regime di subordinazione, per quanto attenuata (art. 2095 c.c.). Resta comunque vero che ogni tentativo di sistematizzazione è destinato a scontrarsi con le valutazioni di carattere fattuale richieste nei singoli giudizi [105], nei quali permane un significativo ed inevitabile margine di discrezionalità [106]. Verrebbe allora da domandarsi se sia auspicabile un intervento del legislatore [107], che ammetta espressamente la cumulabilità dei rapporti di amministrazione e di lavoro e che, eventualmente, ne definisca una volta per tutte i presupposti. A tale proposito, sembra potersi affermare che la soluzione adottata per i soci/lavoratori di cooperative non sia mutuabile nel caso in esame, dal momento che la posizione del socio (di cooperativa e non) non [continua ..]