Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Le Global Supply Chains negli strumenti dell'OIL. Testo, contesto e prospettive evolutive (di Alessandro Boscati, Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano – Alessandra Sartori, Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano)


Il saggio esamina le catene globali di fornitura (o catene globali del valore – Global Supply Chains, GSC) dall’angolo prospettico dell'Organizzazione internazionale del lavoro. Il contributo, dopo aver illustrato il fenomeno e le lacune di tutela che esso palesa per i lavoratori coinvolti, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, procede ad analizzare il rapporto discusso alla 105a sessione della Conferenza dell’OIL del 2016 dedicata, per l’appunto, alle GSC. Prima di addentrarsi nell'esame della risoluzione OIL adottata nella medesima Conferenza, gli autori approfondiscono gli strumenti di diritto internazionale che ne costituiscono il contesto di riferimento: i Principi guida dell'ONU su impresa e diritti umani e le Linee guida dell’OCSE sulle multinazionali, entrambi del 2011. Il contributo prosegue, quindi, approfondendo le modifiche apportate nel 2017 alla Dichiarazione tripartita dell’OIL sulle multinazionali, per tener contro della summenzionata risoluzione. Dopo aver soppesato pregi e difetti dell’approccio soft dell'OIL alla tutela dei diritti dei lavoratori nelle GSC, gli autori si soffermano sulle più recenti evoluzioni verso lo hard law in relazione alla due diligence nelle GSC, che si stanno verificando in Europa. Nelle conclusioni, gli autori suggeriscono che l'OIL accompagni questo importante trend, elaborando e portando all’approvazione della Conferenza una convenzione sulla due diligence nelle GSC.

The Global Supply Chains in ILO's Provisions. Text, Context and Perspectives of Evolution

The essay deals with Global Supply Chains (or Global Value Chains – hereafter GSC) from the perspective of International Labour Organisation. The contribution, after describing the phenomenon and the lack of protection it brings about for workers involved, especially in the less developed Countries, goes on by analysing the report discussed at the 105th ILO Conference of 2016, namely devoted to GSC. Before examining the ILO resolution adopted by that Conference, the two authors deepen the instruments of international law which represent its context: the UN Principles on business and human rights and OECD Guidelines on multinational companies, both dating back to 2011. The contribution goes on by deepening the changes carried out in 2017 with regard to the ILO tripartite declaration on the multinational companies, to take into account the aforementioned resolution. After weighing the pros and cons of the soft ILO’s approach to the protection of workers’rights in GSC, the two authors analyse the most recent evolutions towards hard law in relation to due diligence on social and environmental issues in GSC, which are taking place in Europe. The two authors conclude the essay by suggesting that ILO work out and make the Conference approve a convention on the due diligence in GSC.

SOMMARIO:

1. Evoluzione e tipologia delle Global Supply Chains - 2. Rischi e opportunità per i lavoratori - 3. Il crescente interesse dell’OIL per il fenomeno: il rapporto Decent Work in Global Supply Chains della 105a sessione della Conferenza OIL (2016) - 4. La soft law dell’OIL e i suoi antefatti: i Principi guida dell’ONU su impresa e diritti umani e le Linee guida dell’OCSE sulle multinazionali - 5. La risoluzione dell’OIL sul lavoro dignitoso nelle Global Supply Chains del 10 giugno 2016 - 6. La Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale, rivista da ultimo nel marzo 2017 - 7. Dagli strumenti soft a quelli hard? I dilemmi dell’OIL e le prime leggi domestiche sui doveri di due diligence - 8. La proposta di direttiva sul dovere di diligenza - 9. Verso una convenzione OIL sulla due diligence nelle Global Supply Chains? - NOTE


1. Evoluzione e tipologia delle Global Supply Chains

Le catene globali di fornitura (di seguito identificate con l’acronimo inglese: Global Supply Chains, GSC), più conosciute a livello internazionale e nel nostro Paese come catene globali del valore, non costituiscono un aliquid novi nell’ambito del commercio internazionale [1]. Il fenomeno delle multinazionali, imprese che possiedono controllate in Paesi diversi da quello di stabilimento, è piuttosto antico. L’obiettivo originariamente perseguito mediante la creazione di imprese multinazionali era duplice: per un verso, accedere ai mercati del lavoro dei Paesi in via di sviluppo per sfruttare il minor costo della manodopera, e quindi riesportare i prodotti nei Paesi più sviluppati; per altro verso, raggiungere i consumatori degli Stati del Sud del mondo in un’epoca nella quale le barriere tariffarie e normative erano quasi insormontabili [2]. Nei decenni successivi la crescita e lo sviluppo delle imprese multinazionali riceve una spinta importante grazie alla diffusione, in molte economie emergenti del­l’America latina e dell’Asia orientale, di strategie volte a potenziare l’export [3]. È, però, in tempi relativamente recenti che, accanto alle GSC costituite da gruppi di imprese globali, si affermano GSC nelle quali i rapporti tra l’impresa leader e quelle da essa dipendenti non sono basati sul controllo societario, bensì determinati tramite contratti di appalto e fornitura di specifici beni, prodotti semilavorati o servizi, e, talora, perfino mediante accordi taciti [4]. Le ragioni della crescita esponenziale delle GSC [5] e, in particolare, di questa seconda tipologia, che tende oggi a diventare dominante, sono molteplici [6]. Spiccano, anzitutto, i fattori di carattere tecnico: lo sviluppo delle telecomunicazioni, dei servizi finanziari e delle tecnologie informatiche, nonché il progresso nel campo delle infrastrutture e dei trasporti, consentono il coordinamento in tempo reale della produzione e la rapida movimentazione delle merci a costi contenuti nelle varie parti del mondo. Ma non va trascurato nemmeno il contesto regolativo: gli accordi commerciali (GATT, WTO, regional and bilateral free trade agreements), riducendo gli ostacoli tariffari e armonizzando numerose regole che integrano barriere non tariffarie, hanno favorito l’allocazione a livello globale della produzione di beni e servizi. Sotto il profilo [continua ..]


2. Rischi e opportunità per i lavoratori

La crescente diffusione delle GSC non ha avuto un impatto univoco sulle condizioni di lavoro [9]. Per un verso, vi è stato senz’altro un incremento del­l’occupazione nei Paesi in via di sviluppo, e ciò ha spesso riguardato fasce della popolazione che incontrano maggiori difficoltà a trovare lavoro, come le donne: queste ultime costituiscono addirittura la maggioranza dei lavoratori impiegati in determinati segmenti delle GSC dell’abbigliamento, della trasformazione di prodotti agricoli, della produzione di smartphone e del turismo [10]. Inoltre, gli investimenti realizzati dalle imprese dei Paesi del Nord del mondo hanno sovente comportato l’introduzione di nuove e più avanzate tecnologie di produzione, con conseguente aumento dei salari dei lavoratori specializzati [11]. Per altro verso, non sempre le condizioni di lavoro rispettano gli international labour standards [12], e talvolta sono perfino inferiori a quelle di cui godono in media i lavoratori impiegati da imprese locali. Inoltre, sebbene, come anticipato supra, la quota di donne sia maggioritaria in taluni settori di attività delle GSC, le lavoratrici tendono a rimanere confinate nelle mansioni più elementari e meno retribuite, e intrappolate in impieghi precari [13]. Queste criticità si realizzano, con maggior frequenza, quando la GSC sia integrata contrattualmente e buyer-driven, specialmente là dove sia piuttosto semplice e poco costoso per la leading firm rimpiazzare le aziende subfornitrici, e di conseguenza sussistano notevoli asimmetrie di potere tra la prima e le seconde [14]. In tale contesto, le peggiori vicende di sfruttamento si verificano negli anelli della catena più lontani dall’impresa leader, che, per conservare i propri margini di operatività, sono costretti a ricorrere persino a lavoro informale o a intermediari di manodopera. È dimostrato che soprattutto in questo tipo di GSC si verificano pressioni competitive tra i subfornitori che spingono a comprimere i salari [15], a intensificare i ritmi di lavoro e a prolungare gli orari, a trascurare le regole di salute e sicurezza sul lavoro, a ricorrere a lavoratori a termine, part-time, interinali e a chiamata [16], quando non al vero e proprio lavoro nero [17]. In tal modo, le GSC finiscono per incrementare la quota di lavoro informale che nei Paesi del Sud del mondo è [continua ..]


3. Il crescente interesse dell’OIL per il fenomeno: il rapporto Decent Work in Global Supply Chains della 105a sessione della Conferenza OIL (2016)

Le criticità appena segnalate, unitamente a eclatanti fatti di cronaca [31], hanno attirato l’attenzione dell’OIL, che peraltro già negli anni ’70 si era occupato delle multinazionali in una dichiarazione tripartita adottata dal Consiglio di amministrazione durante la sua 204a sessione (1977) (v. infra il par. 6). Il tema del Decent work in global supply chains domina, dunque, la 105a conferenza internazionale del lavoro del 2016: il rapporto presentato in quella sede è assai interessante per l’accurata e aggiornata analisi delle GSC e del loro impatto sulle condizioni dei lavoratori dei Paesi in via di sviluppo [32]. Il documento dischiude la prospettiva dell’evoluzione economica e sociale delle GSC come via per conseguire all’interno di esse condizioni di lavoro dignitose [33]. Tale evoluzione implicherebbe che le imprese coinvolte nelle GSC e i loro dipendenti si muovano verso attività a più elevato valore aggiunto, perseguendo al contempo i quattro obiettivi strategici dell’agenda dell’OIL sul lavoro dignitoso: occupazione, protezione sociale, dialogo sociale e diritti sul luogo di lavoro, insieme alla parità di genere e al divieto di discriminazione come obiettivi trasversali [34]. Mentre l’evoluzione economica è spesso attivamente ricercata dalle imprese coinvolte nelle GSC, non altrettanto avviene per quella sociale: per far sì che i due aspetti si rafforzino vicendevolmente, il rapporto sottolinea l’importanza cruciale di una governance multilivello, che coinvolga, anzitutto, gli Stati, come attore essenziale della regolazione, ma si estenda anche alle stesse imprese multinazionali, alle parti sociali e alle organizzazioni internazionali (OIL in primis, ma anche ONU e OCSE), che pure rivestono importanza decisiva per venire a capo di un fenomeno che non si lascia ingabbiare dai confini nazionali [35]. Alcuni pilastri del nuovo ordine sono stati già posti. Con riferimento all’azione degli Stati, il rapporto menziona tra le buone prassi: le prime leggi che impongono alle imprese leader di vigilare sull’utilizzo del lavoro forzato e il rispetto dei diritti umani lungo tutta la filiera [36]; la costituzione di terminali di supporto e informazione per favorire il rispetto della legislazione lavoristica degli Stati ospitanti da parte delle imprese straniere che investono nelle zone [continua ..]


4. La soft law dell’OIL e i suoi antefatti: i Principi guida dell’ONU su impresa e diritti umani e le Linee guida dell’OCSE sulle multinazionali

Sino ad ora l’OIL non ha utilizzato lo strumento convenzionale per affrontare le problematiche legate alla diffusione e allo sviluppo delle GSC: l’orga­nizzazione ha piuttosto fatto ricorso al soft law, adottando una «Risoluzione sul lavoro dignitoso nelle Global Supply Chains», a margine della conferenza generale del 2016 dedicata al tema, e modificando di conseguenza la «Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale», adottata nel lontano 1977 e più volte novellata. Sullo sfondo di questi due interventi si stagliano le iniziative di altre organizzazioni internazionali (v. retro anche il par. 3), che si erano già mosse per inglobare all’interno della loro area di azione le nuove problematiche emergenti con riferimento al rispetto dei diritti dei lavoratori nelle GSC: come si desume anche dal rapporto esaminato al paragrafo precedente, tali iniziative hanno influenzato sensibilmente l’attività dell’OIL in subiecta materia. Viene, anzitutto, in risalto il Global Compact dell’ONU, varato dal Segretario generale dell’organizzazione nel 2000 con la finalità di radicare a livello mondiale un modello di impresa socialmente responsabile [46]. Le imprese, pertanto, sono chiamate a rispettare in via volontaria dieci principi in materia di diritti umani, del lavoro, ambientali e di contrasto alla corruzione: in particolare, mentre per i diritti umani si fa riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, i quattro principi sul lavoro sono ripresi dalla Dichiarazione dell’OIL sui diritti e principi fondamentali del lavoro del 1998, e coincidono con i core labour standards. Nel 2010, per tener conto delle particolari criticità riscontrabili nelle GSC, è stato costituito un apposito gruppo consultivo volto ad adattare l’applicazione dei dieci principi all’interno della governance di queste realtà [47]. Come già accennato, trattandosi di un meccanismo di carattere non vincolante, non sono previste sanzioni, se non di carattere reputazionale. Le imprese aderenti rendono conto annualmente dei progressi sull’attuazione dei summenzionati principi e, in caso di inottemperanza, vengono prima segnalate e successivamente cancellate dalla lista [48]. Dopo alcuni tentativi abortiti [49], il 16 giugno 2011 il Consiglio per i diritti umani delle [continua ..]


5. La risoluzione dell’OIL sul lavoro dignitoso nelle Global Supply Chains del 10 giugno 2016

Tracciato così sinteticamente il quadro di riferimento nel quale si inserisce l’attività dell’OIL, conviene ora affrontare l’esame della Risoluzione sul lavoro dignitoso nelle GSC [55]. Il documento, dopo aver rilevato gli aspetti positivi e negativi del fenomeno (parr. 1-7) e le iniziative già avviate dagli Stati e dai vari stakeholder per affrontarne le principali criticità (parr. 8-12), sottolinea orgogliosamente il ruolo centrale dell’OIL nella promozione di misure di carattere globale per migliorare le condizioni dei lavoratori nelle GSC (par. 14: «The ILO […] is best placed to lead global action for decent work in global supply chains»). La risoluzione invita, quindi, gli attori globali (Stati, parti sociali e imprese) a una serie di azioni, adottando un approccio multi-stakeholder già caratteristico dei Principi Guida dell’ONU, che tiene conto dell’insufficienza delle regolazioni meramente domestiche per un fenomeno che travalica i confini nazionali (par. 6) [56]. Più precisamente, gli Stati dovrebbero (parr. 15-16): garantire un funzionamento efficace dei servizi ispettivi del lavoro; incentivare il dialogo sociale; inserire clausole sociali negli appalti pubblici; incentivare e, se del caso, imporre alle imprese leader o capogruppo l’adozione di meccanismi di sorveglianza (due diligence) sul rispetto dei diritti fondamentali del lavoro all’in­terno della GSC; includere i diritti fondamentali del lavoro negli accordi bilaterali e multilaterali di libero scambio; imporre il rispetto di tali diritti a tutte le imprese che operano nelle loro giurisdizioni; favorire il miglioramento delle condizioni di lavoro di tutti i lavoratori, compresi quelli delle GSC; combattere il lavoro informale e lo sfruttamento del lavoro; armonizzare, ove possibile, a livello regionale le tutele del lavoro, onde facilitare l’applicazione di standard uniformi all’interno delle GSC. Quanto agli attori sociali, sono incoraggiati a promuovere il lavoro dignitoso e i diritti fondamentali dei lavoratori (anche) all’interno delle GSC, tramite iniziative settoriali, contratti collettivi, dialogo sociale transnazionale e accordi collettivi quadro internazionali (international framework agreements) (par. 17). Sono, inoltre, invitati a prestare particolare attenzione ai diritti di libertà sindacale e di contrattazione collettiva, che [continua ..]


6. La Dichiarazione tripartita di principi sulle imprese multinazionali e la politica sociale, rivista da ultimo nel marzo 2017

Nella risoluzione la Conferenza identifica la dichiarazione tripartita sulle multinazionali come il quadro regolativo (soft) con il quale l’OIL può contribuire a fronteggiare le criticità legate alle condizioni di lavoro nelle GSC (par. 24) [58]. Questo strumento, varato nel 1977 in una temperie politica e sociale del tutto diversa, costituisce il punto di compromesso rispetto alle rivendicazioni iniziali dei rappresentanti dei lavoratori e dei Paesi in via di sviluppo, che pretendevano l’approvazione di un convenzione OIL sull’attività delle multinazionali, all’epoca al centro di critiche assai vibranti: a fronte della fiera opposizione del fronte imprenditoriale e dei Paesi industrializzati, si optò per lo strumento giuridico della dichiarazione non vincolante [59], i cui meccanismi di follow-up, peraltro, sono configurati ancora più debolmente rispetto a quelli delle Linee guida dell’OCSE [60], dalle quali, peraltro, la dichiarazione tripartita è stata fortemente influenzata [61]. Il documento ha subito sinora tre sole modifiche, nel 2000, nel 2006 e nel 2017, tutte di portata limitata. Nel 2000 si è inserito il riferimento ai core labour standards di cui alla dichiarazione OIL del 1998; nel 2006 vi sono stati altri piccoli aggiornamenti. La modifica del 2017 si è posta il compito di adeguare la dichiarazione tripartita ai Principi guida dell’ONU e al fenomeno delle GSC, sulla scorta del mandato espresso della risoluzione sopra commentata [62]. Il documento in questione, per la verità, anche a seguito delle modifiche intervenute nel 2017 [63], contiene soltanto qualche cenno fuggevole alle GSC organizzate mediante accordi contrattuali tra imprese indipendenti (v. retro il par. 1). Il primo al par. 10, lett. e), ove, sulla scorta dei Principi guida del­l’ONU, si invitano le imprese a «valutare eventuali impatti sui diritti umani, effettivi o potenziali, che potrebbero riguardarle, […] come conseguenza dei propri rapporti commerciali» [64]. Il secondo al par. 20, là dove si incoraggiano le multinazionali ad appaltare a realtà locali fasi del ciclo produttivo, ma si precisa che il ricorso a «siffatte transazioni» non deve essere utilizzato per «eludere le responsabilità stabilite nei principi della […] dichiarazione». Il terzo al par. 65, ove [continua ..]


7. Dagli strumenti soft a quelli hard? I dilemmi dell’OIL e le prime leggi domestiche sui doveri di due diligence

Il fenomeno delle GSC è complesso e sfaccettato: l’approccio prudente dell’OIL è probabilmente l’unico realistico, poiché non va dimenticato che pure con riguardo al più tradizionale fenomeno delle multinazionali l’organiz­zazione non è riuscita ad andare oltre una semplice dichiarazione tripartita. D’altro canto, l’atteggiamento operativo e collaborativo sinora mostrato dal­l’OIL ha permesso di raggiungere risultati tutt’altro che trascurabili, come dimostra il programma Better Work, che l’organizzazione ha sviluppato insieme all’International Finance Corporation (un’agenzia del gruppo della Banca mondiale): nato nel 2001 per migliorare le condizioni di lavoro nella filiera dell’abbigliamento in Cambogia, il programma è ormai rodato e contribuisce in modo sensibile allo sviluppo economico e sociale delle GSC. Il coinvolgimento dell’OIL, infatti, garantisce verifiche in loco e assistenza per le aziende subfornitrici che difficilmente possono essere realizzate quando l’iniziativa proviene dalle imprese leader o da altri soggetti [70]. Scartata, dunque, l’ipotesi di una convenzione generale sulle GSC, potrebbe, però, essere utilmente percorsa la via di uno strumento regolativo vincolante sull’obbligo per le imprese leader o capogruppo di effettuare la sorveglianza sul rispetto dei diritti fondamentali del lavoro nelle aziende subfornitrici (due diligence). Del resto, sulla scorta della novità rappresentata dai Principi guida dell’ONU su impresa e diritti umani del 2011, diversi Paesi si sono mossi in questa direzione: per primo il Regno Unito, con il Modern Slavery Act del 2015, che, però, si limita a imporre alle imprese obblighi di trasparenza in relazione all’utilizzo di lavoro forzato e al traffico di esseri umani all’interno delle proprie GSC, peraltro senza prevedere un adeguato apparato sanzionatorio [71]. Si presenta più ambiziosa, benché con un ambito di tutela altrettanto circoscritto, la legge olandese sulla due diligence in relazione al lavoro minorile (Wet zorgplicht kinderarbeid) del 2019 [72]. Essa impone a tutte le imprese che offrono beni o servizi ai consumatori dei Paesi Bassi, a prescindere dallo Stato in cui sono stabilite, di adottare tutte le misure possibili per prevenire l’uti­lizzo di lavoro minorile nella [continua ..]


8. La proposta di direttiva sul dovere di diligenza

L’ultimo tassello del mosaico degli obblighi di due diligence che si vanno diffondendo a livello continentale è costituito dalla proposta di direttiva UE relativa al dovere di diligenza delle imprese, presentata dalla Commissione il 23 febbraio dello scorso anno [94]. Questa iniziativa, sollecitata dal Parlamento europeo addirittura con un proprio progetto [95], è stata preceduta dall’approva­zione di due regolamenti settoriali, relativi all’approvvigionamento di legname (reg. UE n. 995/2010) e di minerali provenienti dalle zone di conflitto (reg. UE n. 891/2017): tali strumenti normativi impongono obblighi di due diligence all’interno delle GSC alle imprese che utilizzano tali materiali, onde assicurare che non vi siano state gravi violazioni di diritti umani o sfruttamento del­l’ambiente [96]. Spiana la strada per interventi hard più ambiziosi anche la direttiva 2014/95/UE, che impone alle imprese di maggiori dimensioni (almeno 500 dipendenti) di includere nella relazione sulla gestione una dichiarazione di carattere non finanziario contenente informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva [97]. La direttiva non prevede un vero e proprio obbligo di due diligence assistito da sanzioni, ma punta piuttosto sugli effetti reputazionali presso gli investitori e i consumatori, che potrebbero, con le loro scelte, recare un pregiudizio non indifferente alle imprese socialmente poco responsabili. L’approvazione di uno strumento di carattere generale e vincolante sui doveri di due diligence a livello dell’Unione rappresenterebbe chiaramente un salto di qualità nella diffusione degli obblighi di vigilanza delle imprese leader sul rispetto dei diritti sociali nelle GSC, anche perché la quota di imprese multinazionali radicata sul continente europeo è assai rilevante. Il progetto di direttiva della Commissione, che si discosta da quello del Parlamento europeo soprattutto per il minor ruolo riservato agli stakeholder, e segnatamente ai sindacati [98], è tributario delle esperienze francese e tedesca, e risponde espressamente alle sollecitazioni delle organizzazioni internazionali via via esaminate in questo contributo, come si può leggere nei considerando 5 e 6, che menzionano, nell’ordine, i Principi guida delle Nazioni unite, le linee guida [continua ..]


9. Verso una convenzione OIL sulla due diligence nelle Global Supply Chains?

Questa lunga digressione sugli sviluppi attuali e potenziali dello hard law sui doveri di due diligence nel continente europeo appare necessaria per apprezzare compiutamente le prospettive di iniziative analoghe a livello del­l’OIL. Come già accennato, soprattutto se la proposta di direttiva andrà in porto, l’estensione di obblighi di vigilanza in tutte le GSC nelle quali la leading firm abbia un forte radicamento nell’UE potrebbe favorire la stipulazione di una convenzione sulla due diligence in seno all’OIL, stante il rilevante numero di multinazionali europee. Tuttavia, non vanno trascurati gli ostacoli che una tale iniziativa normativa potrebbe incontrare in seno alla Conferenza dell’OIL. Se appare scontata la contrarietà delle imprese, non è detto che sia entusiastica l’accoglienza dei Paesi in via di sviluppo: gli effetti extraterritoriali dell’imposizione dei doveri di due diligence possono facilmente suscitare l’ostilità degli Stati economicamente meno fortunati, timorosi di subire una sorta di colonialismo giuridico occidentale e di perdere leve preziose di competitività con riguardo al costo del lavoro. D’altro canto, la previsione di obblighi di vigilanza giuridicamente vincolanti in capo alle leading firms appare, al momento, lo strumento più efficace per contrastare le strategie di regime shopping attivate dalle multinazionali, grazie al radicamento territoriale del diritto del lavoro e alla separatezza dei soggetti giuridici operanti all’interno della GSC. Una convenzione OIL sugli obblighi di due diligence nelle GSC appare, dunque, un ottimo viatico per puntellare ed estendere l’applicazione degli international labour standards a livello mondiale, e per questa via perseguire efficacemente la strategia dell’OIL sul decent work. Occorre, dunque, che l’OIL si incammini lungo questa via, coordinando con l’UE l’approvazione di un articolato normativo e favorendone la più ampia ratifica.


NOTE