Il contributo analizza le ipotesi in cui l'età assume rilievo nella disciplina del recesso datoriale, nella prospettiva del diritto antidiscriminatorio di matrice Ue. Nello specifico, la riflessione si concentra sui termini di applicazione delle cause di giustificazione previste per le disparità basate sull'età, muovendo dall'elaborazione sviluppata al riguardo dalla Corte di giustizia con riferimento a licenziamenti o cessazioni automatiche ipso iure del rapporto fondati sul raggiungimento di un determinato limite di età anagrafica e/o sul possesso o prossimità dei requisiti pensionistici.
The essay analyses the age-related cases of employer dismissal from the perspective of EU anti-discrimination law. In particular, the reflection focuses on the terms of application of the justifications provided for age-based differences of treatment, starting from the case-law developed in this regard by the Court of Justice with reference to dismissals or automatic ipso iure terminations of employment based on the employee's reaching a certain age limit and/or meeting or approaching retirement requirements.
1. Premessa. La rilevanza del diritto antidiscriminatorio Ue - 2. La disciplina speciale delle scriminanti in caso di disparità di trattamento fondate sull’età - 3. Giustificazione di disparità di trattamento per età e condizioni di licenziamento, nella giurisprudenza della Corte di giustizia - 3.1. Licenziamenti su criterio “age”: il caso dei venticinquenni a chiamata - 3.2. Licenziamenti individuali e collettivi su criterio “age-plus” - 4. Riflessioni conclusive - NOTE
L’età, quale dato anagrafico considerato in sé ovvero in combinazione con l’anzianità contributiva e la maturazione dei requisiti per accedere al trattamento pensionistico, costituisce un criterio che fonti legali e convenzionali consentono di porre a fondamento di un atto di recesso datoriale: dal licenziamento dei venticinquenni a chiamata previsto dal d.lgs. n. 81/2015 a quello dei lavoratori pensionabili, ai sensi dell’art. 4, comma 2, legge n. 108/1990, dell’art. 72 del d.l. n. 112/2008 per il pubblico impiego ovvero anche in applicazione di accordi collettivi sottoscritti nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo in forza dell’art. 5, legge n. 223/1991. Essendo l’età uno specifico fattore di rischio tutelato dal diritto antidiscriminatorio di matrice Ue e rientrando le condizioni di licenziamento nell’ambito di operatività di tale sistema, le regole summenzionate interrogano sulla loro compatibilità con il principio paritario. L’indagine non può che muovere dall’analisi delle speciali cause di giustificazione previste per le disparità di trattamento basate sull’età dalle fonti Ue, come interpretate nelle numerose pronunce della Corte di giustizia in materia. La riflessione così sviluppata sarà, quindi, calata nel contesto normativo e giurisprudenziale interno, al fine di individuare i presupposti e il perimetro di legittimità di trattamenti che determinano oggettivamente – peraltro con un’espulsione dal rapporto lavorativo – uno svantaggio in ragione dell’età, considerata nel suo carattere “fluido” [1], quindi, a seconda dei casi, quale età non più sufficientemente giovane ovvero età sufficientemente avanzata.
Una condotta che ha a suo fondamento, in via diretta o mediata da un criterio “neutro” [2], un fattore di rischio può essere ciò nondimeno legittima laddove sussista una causale scriminante. La discriminazione indiretta (se non relativa, a parere di chi scrive, a un requisito di idoneità al lavoro) può essere scriminata, in particolare, laddove il datore provi che la disposizione, il criterio o la prassi in apparenza neutri «siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» (così le direttive Ue). Ben più stringente, invece, l’ambito di operatività dell’eccezione al principio di parità in caso di discriminazione diretta. In tal caso, anzitutto, il trattamento meno favorevole può al più fondarsi su una caratteristica connessa al fattore di rischio, non sul fattore stesso, e detta caratteristica deve costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento della prestazione lavorativa, nonché proporzionato per il raggiungimento di una legittima finalità. Trattasi di un’eccezione, non di una giustificazione [3], da interpretare pertanto in modo restrittivo e da circoscrivere a «casi strettamente limitati» (così ai sensi del 23° considerando delle dir. 2000/43 e 2000/78) [4]. Se queste sono le regole generali in tema di fatti impeditivi della discriminazione, nel caso del fattore di rischio “età” si riscontra una specialità di disciplina, sia perché la disparità di trattamento scriminabile può fondarsi direttamente sul fattore di rischio [5] sia perché è previsto un modello di giustificazione della discriminazione, anche diretta, ad hoc, che ha un ambito di operatività ben più ampio della suddetta eccezione del requisito essenziale e si avvicina piuttosto a quello stabilito, in via generale, per la discriminazione indiretta. L’art. 6 dir. 2000/78/CE dispone, nello specifico, che fatto salvo l’art. 2, par. 2, ossia le definizioni di discriminazione diretta e indiretta nonché, rispetto a quest’ultima, il regime generale di possibile giustificazione, «gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano [continua ..]
Rispetto al recesso datoriale, la riflessione sui termini di applicazione delle scriminanti previste per le disparità basate sull’età ha riguardato principalmente, nella giurisprudenza europea e interna, l’ipotesi di licenziamenti o cessazioni automatiche ipso iure del rapporto fondati sul raggiungimento di un determinato limite di età anagrafica e/o sul possesso o prossimità dei requisiti pensionistici [8]. Prima di approfondire partitamente queste fattispecie, è significativo evidenziare due profili. Anzitutto, proprio il tema dell’incidenza del divieto di discriminazione per età sulle condizioni del licenziamento ha fornito l’occasione per la Corte di giustizia per chiarire questioni di ordine generale in merito all’operatività del principio di non discriminazione stabilito dal diritto Ue. Da Kücükdeveci a Dansk Industri ad Abercrombie, la Corte ha potuto consolidare, nel contesto post Trattato di Lisbona, l’argomento introdotto con Mangold a suffragio di un effetto diretto, pure orizzontale, del divieto di discriminazione per età, così come sancito anche dall’art. 21 della Carta di Nizza, e superare con esso i limiti posti agli effetti diretti delle direttive, ivi considerate mera «espressione concreta» del principio generale [9]. In secondo luogo, si può osservare come la Corte di giustizia abbia adottato e mantenuto nel tempo una linea di self-restraint nei confronti delle soluzioni interne applicative delle scriminanti alle cessazioni del rapporto legate all’età. Questo si rileva soprattutto nella tendenza ad assecondare gli enunciati presentati a difesa delle regole nazionali e a considerare valida per antonomasia «la semplicistica idea» [10], la «rozza teoria che lega le chances occupazionali dei giovani all’espulsione degli anziani» [11] o a un turn-over tra i giovani stessi, nonostante evidenze scientifiche e riscontri empirici tutt’altro che solidi e incontestati. All’«atteggiamento quasi astensionistico» adottato rispetto al controllo sulle finalità legittime segue, nelle pronunce della Corte, un controllo sulla proporzionalità delle misure che è sì più stringente ma comunque «morbido» e, come si segnalerà oltre nella trattazione, non privo di ambiguità e [continua ..]
Un primo caso che è importante analizzare e che consente da subito di rilevare l’impatto della giurisprudenza della Corte di giustizia sull’ordinamento italiano, direttamente coinvolto, concerne un’ipotesi di licenziamento ritenuto legittimo nonostante fondato esclusivamente sul criterio dell’età anagrafica. Posto che, ai sensi dell’art. 13, comma 2, d.lgs. n. 81/2015, «il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno», la normativa italiana legittima il licenziamento del lavoratore venticinquenne, in quanto al superamento di tale soglia d’età non risulta più integrata l’ipotesi soggettiva che consente e ha consentito la sottoscrizione del contratto a chiamata [23]. La disciplina riportata ha interrogato le corti nazionali e la Corte di giustizia sulla sua compatibilità con il principio di non discriminazione per età. La vicenda che ha fornito il contesto per una risposta sul punto è stato il caso Abercrombie. La Corte di giustizia, adita dalla Cassazione, con pronuncia del 19 luglio 2017, rileva sì, nella disciplina in esame, la presenza di una disparità di trattamento fondata sull’età [24], ma ritiene cionondimeno che la stessa non integri una discriminazione, essendo legittimata dalla sussistenza di cause di giustificazione [25]. Legittimo l’obiettivo: «favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro», fornirgli «un trampolino verso nuove possibilità d’impiego» (punto 33), «una prima possibilità di accesso», «una prima esperienza che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale». La disposizione che consente il licenziamento dei venticinquenni a chiamata sarebbe, pertanto, «relativa ad uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro» (punto 34). Si rivolgerebbe «ai giovani alla ricerca di un primo impiego, vale a dire ad una delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale» (punto 35). Appropriati e necessari i mezzi: è «immaginabile» che le aziende siano «sollecitate dall’esistenza di uno strumento poco vincolante e meno [continua ..]
Si è già potuto anticipare che, al di fuori del contesto di giovane età caratterizzante la vicenda Abercrombie, la Corte di giustizia ha riconosciuto la legittimità di ipotesi di licenziamenti o cessazioni automatiche ipso iure del rapporto fondate sull’età anagrafica e l’applicabilità al riguardo delle specifiche scriminanti disposte dalla direttiva solo laddove il criterio determinante lo svantaggio fosse “age-plus”, ossia collegato a una garanzia di accesso al trattamento pensionistico. L’argomentazione della Corte muove da un generale accoglimento delle finalità sottese alle misure interne. A essere considerato «legittimo per antonomasia» [32] è, in particolare, l’obiettivo di promuovere e favorire le assunzioni e l’accesso dei giovani nel mercato del lavoro attraverso il turn-over intergenerazionale. Per quanto attiene allo scrutinio sul carattere appropriato e necessario della misura, la Corte è ferma nel ribadire che gli interessi dei lavoratori anziani devono essere sufficientemente tutelati e, pertanto, la misura adottata non deve basarsi unicamente sul raggiungimento di un’età determinata, ma deve altresì prendere in considerazione «la circostanza che gli interessati beneficino di una compensazione economica per mezzo di un reddito sostitutivo sotto forma di una pensione» [33]. La dottrina ha, d’altra parte, osservato l’ambiguità della Corte nell’individuazione del punto di “giusto equilibrio”. Ora si pone l’attenzione sul fatto che la «compensazione economica» riconosciuta «per mezzo della concessione di una pensione di vecchiaia», ha un «livello [che] non può essere ritenuto irragionevole» [34]. Ora si colloca la valutazione in una più ampia prospettiva di contesto: da un lato, si riconosce che nel settore (delle pulizie) in cui opera il lavoratore (lavoratrice), «caratterizzato da lavori scarsamente retribuiti e a tempo parziale, le pensioni del regime previdenziale legale non consentirebbero ai lavoratori di far fronte alle loro necessità vitali»; dall’altro, si evidenzia che «alla persona che ha raggiunto un’età che le consente di ottenere la liquidazione dei suoi diritti pensionistici», nel caso di specie 65 anni, non è [continua ..]
Il diritto antidiscriminatorio di matrice Ue ha spostato sul piano del confronto multilivello delle fonti il tema del collegamento tra le condizioni del licenziamento e il dato anagrafico. Non erano mancati, anche prima, a livello interno, significativi interventi giurisprudenziali sulla questione. Si pensi alla risalente sentenza della Corte costituzionale del 1971, con cui la Consulta, confrontando la situazione dei lavoratori con i requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia e quelli comunque over 65, ha affermato che solo per i primi la previsione di un trattamento diverso «risponde a ragioni […] concretamente coerenti ed adeguate», posto che «la loro licenziabilità […] non ha riscontro nell’eventualità che essi possano rimanere senza retribuzione e senza trattamento di quiescenza per vecchiaia». La disparità, che si concreta in una «mancata piena tutela del diritto al lavoro», viene definita come «il riflesso giuridico di una necessità pratica, autonomamente valutabile dal legislatore», tenuto conto del contesto fornito da «una società, come quella attuale, in cui si hanno disoccupazione e sottooccupazione» [64]. Non sono nemmeno mancate attente analisi dottrinali: per tutti, si può qui richiamare una riflessione di Del Punta di fine anni Novanta, in cui si evidenzia come il tema evochi interrogativi «che concernono l’approccio da assumere nei confronti di quelle politiche di svecchiamento e di “flessibilizzazione” del personale che un mondo delle imprese sempre più condizionato dalle ansie della globalizzazione (acuite, per noi italiani, dall’avvento dell’Euro), adotta con assoluta sistematicità. Siamo forse di fronte ad un’ennesima riproposizione di quel conflitto sociale fra padri e figli […] o piuttosto di fronte a nuovi fenomeni di emarginazione sociale?» [65]. L’approccio del diritto antidiscriminatorio Ue, così come declinato dalla lettura del giudice europeo, ha evidenziato il carattere di fluidità non solo del fattore di rischio in questione, potenziale fonte di svantaggi tanto per chi ha un’età sufficientemente avanzata, quanto per chi non è più sufficientemente giovane. Ha evidenziato la fluidità anche delle variabili che, più o meno esplicitamente, condizionano il vaglio [continua ..]