Nel saggio si prospetta una rilettura delle categorie contenute nel codice civile alla luce del principio di sostenibilità ambientale nonché delle prospettive di tutela dell'ambiente ad opera della contrattazione collettiva. Nell'ultima parte ci si sofferma anche sul possibile ruolo da assegnare alle certificazioni ISO per la qualità ambientale.
The essay proposes a re-reading of the categories contained in the civil code in the light of the principle of environmental sustainability as well as the prospects for environmental protection through collective bargaining. The last part also focuses on the possible role to be assigned to ISO certifications for environmental quality.
1. La tutela ambientale all’«interno» e all’«esterno» delle mura aziendali - 2. L’integrazione della «questione ambientale» nel sistema delle fonti - 3. La rilettura delle categorie civilistiche alla luce del principio di sostenibilità ambientale - 4. La tutela dell’ambiente nell’ambito delle relazioni industriali - 5. Il grande sviluppo delle certificazioni ISO di «qualità ambientale» - 6. Considerazioni conclusive - NOTE
La lettura separata e dicotomica tra lavoro e ambiente è storicamente favorita da una normativa che vede il proprio campo di applicazione fattuale delimitato dai confini fisici dell’impresa, anzi – come direbbe il legislatore del codice civile – dell’azienda; ragione per cui nell’ordinamento nazionale la relazione tra lavoro e ambiente si è tradizionalmente esplicata nella tutela della sicurezza dell’ambiente di lavoro [1], in ossequio alla genesi della materia giuslavoristica, nata per salvaguardare la salute delle fasce più deboli dei lavoratori [2]. La configurazione dell’obbligo di sicurezza e tutela della salute nei luoghi di lavoro di cui all’art. 2087 del codice civile [3], pensato e scritto magistralmente negli anni ’40, nella sua proiezione finalistica, ha poi tratto legittimazione dal combinato disposto degli artt. 32 e 41 della Costituzione, spostando i meccanismi di tutela in ottica prevenzionistica [4], fino ad estendere la sua portata nella categoria della responsabilità sociale dell’impresa [5]. Questa in estrema sintesi l’acquis a cui ci si è sommariamente aggrappati per tutto il secondo ’900 e direi fino a pochissimi anni fa [6], per cui se è vero che l’adozione della direttiva 89/391/CEE è stata fondamentale nel determinare l’evoluzione della normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, innescando il passaggio da una prospettiva meramente penalistica e contrattualistica ad un modello integrato incentrato sulla professionalizzazione della prevenzione e sulla partecipazione corale di tutte le parti coinvolte [7]; d’altro canto, la connessione tra la tutela dell’ambiente di lavoro e la tutela dell’ambiente tout court è rimasta, più da un punto di vista culturale che da un punto di vista normativo (come vedremo), molto debole. Dunque, se la prevenzione è espressamente contenuta ad esempio nel Testo Unico sulla sicurezza del lavoro occorre chiedersi se tra prevenzione e precauzione sia rinvenibile una comune radice. È evidente che la prima risulta orientata alla eliminazione o riduzione dei rischi noti e dagli effetti «prevenibili in quanto prevedibili», mentre la seconda avrebbe ad oggetto rischi ignoti che, «allo stato delle conoscenze» scientifico-nomologiche, non si [continua ..]
In materia di sostenibilità ambientale la sensibilità del legislatore italiano ha iniziato a mutare in maniera significativa a seguito di mutamenti normativi in altri paesi [10] e di input sopraggiunti dal livello sovranazionale tanto che, significativamente, il principio di precauzione è citato nell’art. 191 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) con lo scopo di garantire un alto livello di protezione dell’ambiente ed abbracciando un approccio prevenzionistico in caso di rischio. Tuttavia, tale disposizione è stata letta in un’ottica di politica dei consumatori, con effetti principalmente sulla legislazione europea sugli alimenti, sulla salute umana, animale e vegetale. Dunque, volendo meglio indagare le fonti, possiamo dire che il legame di interdipendenza e reciprocità tra lavoro e ambiente [11] trova un primo reale ancoraggio politico e giuridico nel panorama europeo e internazionale [12], seppur in termini programmatici, soltanto nel 2007 nell’International Labour Organization e nel Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente con il dossier Labour and Environment: a natural synergy. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2015 ha poi inserito nell’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile il lavoro dignitoso, unitamente ai quattro pilastri della Decent Work Agenda dell’International Labour Organization quali la creazione di occupazione, la protezione sociale, i diritti del lavoro ed il dialogo sociale. In particolare, l’obiettivo 8 dell’Agenda auspica la promozione di una crescita economica «inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti» da realizzare scollegando la crescita economica stessa dalla degradazione ambientale. Ancora, in chiave di policy setting, il rapporto tra lavoro e ambiente viene affrontato dall’International Labour Organization nei due report del 2017 e del 2018: Work in a changing climate: the Green Initiative e World Employment and Social Outlook: greening with jobs. Ciò malgrado, non possiamo usare toni trionfalistici e considerare la tutela dell’ambiente di lavoro quale parte consolidata del macro-tema della tutela ambientale: l’industrializzazione, così come sviluppatasi, ha “accettato” come “corollario” una notevole mole di rischi collegati a fattori nocivi, [continua ..]
Le argomentazioni a supporto dell’introduzione della “questione ambientale [17]” nel diritto del lavoro si articoleranno sia su linee direttrici classiche che inedite, dal momento che le relazioni tra ambiente, impresa e lavoro si apprezzano tanto sul piano giuridico stricto sensu quanto su quello eminentemente fattuale. La prima linea direttrice riguarda una possibile reinterpretazione o estensione delle norme contenute nel codice civile. Ad esempio, pensando alla “causa” del contratto di lavoro, siamo indotti a interrogarci sull’incidenza che l’interesse ambientale possa riversare su detto elemento essenziale, ossia se l’utilizzo razionale e responsabile delle risorse naturali – in attuazione del principio dello sviluppo sostenibile – possa enfatizzare non solo la convergenza degli interessi dei contraenti all’utilità ambientale, ma anche costituire il fondamento della “funzione economico-sociale” (oggi potremmo dire “funzione economico-ambientale”) del contratto di lavoro [18]. È stato affermato infatti che la sostenibilità, come principio etico, può ben essere ascritta – in attuazione delle norme costituzionali e nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto europeo – all’«ordine pubblico ecologico», con la fondamentale conseguenza che la sua violazione da parte dei contraenti potrebbe finanche determinare la nullità del contratto rilevabile d’ufficio dal giudice secondo l’art. 1418 c.c. [19] Si imporrebbe in tal senso una limitazione «ecologica» inderogabile all’esercizio dell’autonomia negoziale privata, la quale indurrebbe a riconoscere che il rilievo che l’ordinamento italo-europeo attualmente attribuisce alla tutela ambientale tende a “funzionalizzare” il rapporto tra contratto e sviluppo sostenibile con conseguenze rilevanti anche sul piano dell’interpretazione e dell’integrazione del regolamento contrattuale [20]. Di talché, finanche la valutazione della meritevolezza dell’interesse, posta alla base del contratto ai sensi dell’art. 1322 c.c., dovrebbe porre in relazione l’atto con l’interesse ambientale e con le esigenze delle generazioni future con la conseguenza che un contratto di lavoro pur presentando una causa lecita, potrebbe non essere meritevole di tutela [continua ..]
La seconda linea direttrice che ci consentirebbe di individuare nel diritto del lavoro il vero pilastro di un modello di organizzazione perfettamente orientato alla crescita qualitativa e sostenibile dell’intera società è quella del “dialogo sociale [28]”. Per l’attuazione delle nuove politiche, infatti, le relazioni industriali costituiscono uno strumento essenziale dal momento che la consultazione adeguata, informata, continuativa e partecipata dei lavoratori e dei loro rappresentanti può contribuire alla realizzazione di una rinnovata società green e democratica [29]. Si pensi a tal proposito ad alcuni arresti legislativi già presenti in altri Paesi europei che hanno articolato un vero e proprio principio della partecipazione democratica dei lavoratori alla governance ambientale. A titolo di esempio, nell’ordinamento francese, a seguito della nomina di Jean Auroux come Ministro del lavoro nel maggio del 1981, vennero promulgate quattro leggi dalle quali emergeva la nuova e singolare forma di partecipazione dei lavoratori in azienda attraverso i c.d. “gruppi di espressione”, ai cui partecipanti veniva riconosciuto il diritto di esprimere o comunicare i propri punti di vista su temi afferenti all’attività aziendale ed il relativo impatto sull’ambiente (“droit à l’expression”), in tal modo prendendo parte alla “voce” della responsabilità sociale dell’impresa [30]. In seguito, l’approvazione della legge Bachelot (loi 30 juillet 2003, n. 2003-699) ha imposto il rafforzamento della connessione tra sicurezza sul luogo di lavoro e salvaguardia ambientale, promuovendo una gestione comune dei c.d. rischi misti e potenziando il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori all’interno di quelle imprese la cui attività fosse potenzialmente pericolosa per l’ambiente. Più recentemente invece la legge Grenelle (loi 3 août 2009, n. 2009-967) ha determinato una convergenza tra le norme del diritto ambientale e quelle del diritto del lavoro, introducendo l’obbligo in capo all’impresa di informare e rendere partecipi i rappresentanti dei lavoratori di tutto ciò che possa implicare un rischio per l’am-biente circostante. In Italia, invece, la produzione normativa non ricalca quella francese e la contrattazione collettiva è rimasta veramente molto [continua ..]
La nuova transizione ecologica incide anche sul sistema di gestione aziendale e sulle procedure operative che le imprese devono adottare al fine di soddisfare le richieste e le aspettative dei “consumatori” ed essere maggiormente competitive sul mercato. Ad oggi, infatti, per un miglioramento dell’immagine aziendale, in termini di credibilità e di affidabilità, oltre che per garantire l’efficienza e l’efficacia nella realizzazione del prodotto e nell’erogazione del servizio, le imprese devono munirsi di specifiche certificazioni ISO che, sottoposte a verifica da parte di un Ente terzo accreditato, sono utili a dimostrare l’impegno profuso nel limitare gli impatti ambientali “diretti”, che potrebbero generarsi con l’esercizio di specifiche attività produttive, ed “indiretti”, nel caso in cui invece siano i risultati ultimi delle lavorazioni aziendali ad incidere su alcuni aspetti dell’ambiente. In sostanza, soltanto le imprese munite di specifiche certificazioni “ambientali” assicurano alla sfera dei consumatori di conciliarsi con le ragioni dell’ecosistema, di prender parte ad un’economia circolare, di utilizzare sapientemente le risorse naturali anche attraverso sistemi di riciclo e riuso dei materiali e di adottare misure antinquinamento per la rigenerazione urbana. La delicata questione si interseca a pieno titolo con la crescente rilevanza che attualmente l’economia di mercato assegna al concetto di “qualità” ambientale. Infatti, le aziende che soddisfano gli standard eco-sostenibili hanno maggiori possibilità di accedere ai mercati internazionali e di ampliare il proprio bacino di reti e di utenti commerciali, dato che l’utilizzo di un sistema di gestione “certificato” è, come da ultimo dimostrano le riforme in materia di appalti [34], un requisito talvolta necessario per la prestazione di servizi. Oltre al non irrilevante dato che le imprese “eco-friendly” hanno la possibilità di coniugare il minor impatto socio-ambientale con un congruo ritorno economico, visto che le politiche pubbliche degli ultimi anni si preoccupano di supportare a livello finanziario, attraverso semplificazioni ed agevolazioni, soltanto le aziende che s’impegnano a migliorare le proprie performance mediante investimenti green [35]. Da qui, la patologia del [continua ..]
Nel panorama normativo e sociopolitico fin qui tratteggiato risulta evidente la necessità di delineare una “nuova geografia” del diritto del lavoro che si intersechi con la questione ambientale, le cui sorti sono inscindibili da quelle del resto della società civile. Nei tempi dell’Antropocene, la funzione del diritto del lavoro potrebbe essere allora ripensata non solo in termini di ricerca del punto di equilibrio tra le istanze di efficienza delle imprese e il diritto dei lavoratori ad una esistenza sicura, libera e dignitosa, ma anche in relazione alla sostenibilità intesa in senso ampio e quindi comprensiva della salvaguardia dell’ambiente, quale obiettivo e valore dell’ordinamento giuridico direttamente ascrivibile alla categoria dell’interesse pubblico generale. Soltanto nella prospettiva di un meccanismo di check and balance tra il principio di libera iniziativa economica e di promozione dei diritti sociali si può allora pensare di “etero-arricchire” il concetto di obbligazione di lavoro, rendendolo maggiormente sensibile ai nuovi valori riconosciuti dal nostro ordinamento anche grazie all’opportuna mediazione del sindacato che è l’unica a poter favorire una convergenza tra le dinamiche della produttività con quelle della sostenibilità, così da accompagnare la “transizione verde” con una transizione giusta.