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Lavoro povero e politiche per le famiglie in Italia: riforme, criticità e prospettive future
Nicola De Luigi, Professore ordinario di Sociologia Generale, Università degli Studi di Bologna – Giovanni Amerigo Giuliani, Assegnista di ricerca in Sociologia, Università degli Studi di Bologna
L’ articolo fornisce un’analisi del fenomeno del lavoro povero in Italia – in-work poverty (IWP) – attraverso la lente delle politiche familiari. Adottando una prospettiva evolutiva, il lavoro si sofferma sullo studio analitico di tre specifici programmi: a) i trasferimenti monetari, con particolare attenzione agli assegni familiari e al recente Assegno Unico Universale (AUU); 2) il sistema dei congedi; e 3) il sistema integrato dei servizi per l’infanzia. A livello teorico, la ricerca mostra che le politiche per le famiglie possono essere strumenti utili per contrastare il lavoro povero, sia direttamente che indirettamente. Da un lato forniscono un sostegno diretto al reddito delle famiglie più svantaggiate, dall’altro promuovono l’occupazione femminile, incentivando così il passaggio ad un modello di famiglia dual-earner. L’analisi del caso italiano evidenza, tuttavia, che gli effetti positivi nel contrastare la IWP sono potenziali, e non automatici. L’efficacia delle politiche della famiglia dipende dal design della policy e da quanto tale design sia coerente con l’obiettivo di diminuire le diseguaglianze.
Parole chiave: lavoro povero – politiche per la famiglia – congedi – assegno unico – servizi per l’infanzia.
The article provides an analysis of in-work poverty (IWP) in Italy through the lens of family policies. Adopting an evolutionary perspective, the work focuses on the analytical study of three specific programs: a) cash transfers, with particular attention to family allowances and the recent “Assegno Unico Universale” (AUU); 2) leaves; and 3) the early childhood education and care system (ECEC). From a theoretical perspective, the paper shows that family policies can be a useful tool to tackle in-work poverty, both directly and indirectly. On the one hand, they provide direct income support for the most disadvantaged families, on the other they increase the female employment rate, thus encouraging the transition to a dual-earner family model. However, the analysis of the Italian case showcases that the positive effects in countering IWP are only potential, and not automatic. The effectiveness of family policies depends on the design of the policy and on the extent to which this design is consistent with the goal of decreasing inequalities.
Keywords: in-work poverty – family policy – leave system – family allowances – ECEC.
Sommario:
1. Introduzione - 2. Politiche per la famiglia e IWP: una riflessione teorica - 3. IWP e categorie familiari maggiormente a rischio in Italia - 4. Le politiche per la famiglia in Italia e la IWP: un’analisi evolutiva - 5. Conclusioni - NOTE
1. Introduzione
Vi è una stretta connessione concettuale tra il fenomeno della in-work poverty (IWP) – lavoro povero, in italiano – da un lato, e le politiche per la famiglia, dall’altro [1]. Tale connessione deriva direttamente dalla definizione di lavoratore povero fornita dalla letteratura specializzata [2]: un soggetto occupato almeno 7 mesi nell’anno di riferimento che vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. La nozione di IWP, dunque, si riferisce a singoli individui che condividono risorse economiche all’interno del nucleo familiare. La prospettiva analitica individuale – in cui viene considerato lo status occupazionale del lavoratore, il suo salario percepito e la durata e stabilità del suo impiego – si combina con una dimensione familiare – basata sulla cosiddetta pooling assumption per cui i membri del nucleo familiare gestiscono e condividono in maniera paritaria le risorse individuali [3].
La famiglia diventa quindi l’unità di misura della IWP. Le risorse materiali di cui il nucleo familiare dispone giocano un ruolo cruciale per garantire la copertura di bisogni e rischi. Di conseguenza, la struttura familiare – ovvero, il numero dei suoi componenti e il loro status occupazionale – risulta essere un fattore chiave nel determinare il rischio di essere un lavoratore povero.
Nei cosiddetti Trenta Gloriosi [4] (1945-1975), la famiglia, soprattutto nei paesi con tradizione Bismarckiana, ha assunto il ruolo di shock-absorber, garantendo ampiamente la copertura di determinati bisogni – in primis, quelli di cura. Il modello di famiglia cosiddetto male-breadwinner – in cui gli uomini sono gli unici percettori di reddito e le donne sono impiegate esclusivamente in attività di cura – ha funzionato in maniera – più o meno – efficace nel contesto di una economia fordista che garantiva la (quasi) piena occupazione [5]. Tuttavia, con l’avvio del processo di de-industrializzazione, terziarizzazione e il conseguente passaggio ad una società post-Fordista – caratterizzata inoltre da una sempre più ampia diffusione di valori post-materiali di tipo liberal – il modello male-breadwinner è iniziato a vacillare [6]. Nell’epoca post-Fordista, questo tipo di modello non è più in grado di garantire una soddisfacente copertura dei bisogni all’interno del nucleo familiare, né tantomeno di proteggere i suoi componenti dal rischio di diventare un lavoratore povero. Le strutture familiari sono inoltre cambiate, e in tutti i paesi si è registrato un aumento di nuclei composti da genitori soli con figli a carico (lone parents) [7]. Come ampiamente mostrato dalla letteratura comparata, ad oggi le famiglie maggiormente a rischio povertà sono quelle con figli in cui un solo genitore è impiegato – e, più nello specifico, l’impiego è nel settore secondario del mercato del lavoro in cui i salari sono più bassi e le tutele più deboli. Mentre le famiglie monoreddito – in particolare quelle dei lavoratori a bassa qualifica – sono più esposte al fenomeno della IWP, le famiglie con figli in cui entrambi i genitori lavorano a tempo pieno – dual-earner family model – o in cui un genitore – quasi sempre il padre – lavora full-time e l’altro è impiegato part-time – modified single earner family model – mostrano un rischio inferiore di cadere nella povertà lavorativa [8].
È quindi chiaro che nell’epoca post-Fordista le politiche per la famiglia – sia in termini di trasferimenti monetari che di servizi – sono uno strumento essenziale per il contrasto alla IWP. Da un lato – tramite una funzione familializzante – possono aiutare a sostenere direttamente il reddito delle famiglie più svantaggiate attraverso trasferimenti monetari volti a coprire i costi di mantenimento e cura dei figli. Dall’altro lato, de-familializzando la funzione di cura – attraverso l’espansione dei servizi per l’infanzia e un sistema coerente di congedi – possono incentivare l’aumento del tasso occupazionale [9]femminile, sostenendo così il passaggio al modello di famiglia dual-earner (o modified single earner). Rispetto agli strumenti di policy tradizionalmente utilizzati nel contrasto alla IWP – ad esempio, il reddito minimo garantito – le politiche familiari non hanno quindi un effetto esclusivamente diretto sui nuclei familiari – sostenendo il loro potere d’acquisto tramite misure passive, come gli assegni familiari – ma possono intervenire anche indirettamente, tramite i servizi o i tempi ci conciliazione, al fine di promuovere un modello di famiglia a doppio reddito, che ad oggi risulta – almeno nella maggior parte dei paesi – la migliore protezione dal lavoro povero.
Tuttavia la mera presenza di politiche per la famiglia – sia che promuovano la familizzazione o la de-familizzazione – non è una condizione sufficiente perché tali politiche siano un utile meccanismo di contrasto alla IWP. È lo specifico design dei vari strumenti di policy [10] – e la coerenza generale della politica familiare – che determina la loro efficacia contro il lavoro povero. Un design frammentario e incoerente tende a non avere effetto o, addirittura, a cristallizzare degli effetti distorsivi che contribuiscono a rinforzare la IWP in un determinato paese [11]. L’Italia è un caso studio interessante per valutare se e in che modo le politiche per la famiglia si sono dimostrate nel tempo degli strumenti efficaci per contrastare il lavoro povero. L’Italia è usualmente considerata “un caso avverso” per lo sviluppo delle politiche familiari [12]. Il tradizionale familismo italiano e un sistema (distorto) di welfare storicamente concentrato sulle pensioni ha relegato le politiche per la famiglia ad un ruolo residuale [13]. Dagli anni Novanta, tuttavia, è possibile individuare un processo di riforma che si è ulteriormente rafforzato tra la fine degli anni Dieci e l’inizio del nuovo decennio, in risposta alle crisi economiche e pandemiche che hanno segnato questi ultimi anni.
Il presente articolo vuole quindi fornire un’analisi della IWP attraverso la lente delle politiche familiari. Adottando una prospettiva evolutiva, il lavoro, più nel dettaglio, si soffermerà sullo studio analitico di tre programmi: a) i trasferimenti monetari, con particolare attenzione allo strumento degli assegni familiari e al recente Assegno Unico Universale (AUU); 2) il sistema dei congedi; e 3) il sistema dei servizi per l’infanzia 0-3. L’obiettivo del contributo è quello di capire se, nel tempo, le politiche familiari in Italia possono essere considerate degli strumenti efficaci per contrastare il lavoro povero o se il loro design è risultato incoerente tanto da non portare dei benefici sostanziali. Allo stesso tempo, il lavoro vuole valutare le ultime riforme implementate al fine di comprendere se, rispetto al passato, è possibile individuare un segnale di cambiamento negli obiettivi, più o meno espliciti, delle politiche per la famiglia.
L’articolo è strutturato come segue: nel successivo paragrafo discuteremo più nel dettaglio, sulla base dell’ampia letteratura sociologica in materia, a quali condizioni le politiche della famiglia possono realmente incidere sulla IWP. Forniremo in seguito una breve analisi empirica della IWP in Italia e di quali nuclei familiari sono maggiormente a rischio. Nel terzo paragrafo analizzeremo dettagliatamente i tre programmi di policy – trasferimenti monetari, congedi e servizi per l’infanzia – e le più recenti trasformazioni. L’ultima parte dell’articolo è dedicata alle nostre conclusioni.
2. Politiche per la famiglia e IWP: una riflessione teorica
Per poter comprendere come le politiche per la famiglia possano contrastare la IWP è necessario fornire una definizione chiara di cosa si intenda per “politiche per la famiglia”, la loro funzione, il loro perimetro d’azione e i loro obiettivi. Ci limitiamo in questa sede a fornire una concettualizzazione di massima, dato che un’analisi approfondita esula lo scopo di questo lavoro.
Le politiche per la famiglia sono un insieme variegato di strumenti di policy che includono sia politiche esplicite che implicite [14]. In generale, la letteratura sociologica tende a focalizzarsi maggiormente sugli strumenti espliciti, ovvero quei programmi che sono deliberatamente disegnati per raggiungere degli obiettivi specifici a favore degli individui che compongono il nucleo familiare o la famiglia nella sua complessità [15]. Di conseguenza, l’analisi delle politiche per la famiglia si concentra su tre specifici programmi o strumenti di policy: a) i trasferimenti monetari – gli assegni familiari o le misure di welfare fiscale come le detrazioni per familiare a carico; b) il sistema dei congedi parentali, che hanno una funzione di conciliazione vita-lavoro; e c) il sistema dei servizi per l’infanzia 0-3 – il cosiddetto Early Childcare Education and Care, ECEC.
Questi tre strumenti hanno funzioni e obiettivi diversi. Se è vero che ad oggi trasferimenti monetari, congedi e servizi per l’infanzia sono presenti in tutte le economie avanzate, il loro grado di sviluppo e, soprattutto, la loro combinazione, varia sostanzialmente [16]. I trasferimenti monetari hanno una funzione che la letteratura – in particolar modo quella sulla cosiddetta varieties of familialism e sull’investimento sociale [17] – tende a definire familializzante, ovvero sostengono la famiglia – e più nello specifico le madri – nella sua funzione di cura. In questa prospettiva, i trasferimenti monetari non mettono in discussione i ruoli di genere all’interno del nucleo familiare e di conseguenza non alterano il modello di famiglia male-breadwinner. I servizi per l’infanzia invece hanno una funzione de-familializzante, offrendo un’opportunità al di fuori della famiglia per la copertura dei bisogni di cura, promuovendo così l’occupazione femminile ed, ergo, il passaggio ad un modello familiare dual-earner. I congedi invece hanno una funzione più ambigua, ma in alcuni casi, soprattutto quelli di paternità e le quote di congedo parentale riservato ai padri, possono contribuire ad aumentare il tasso di occupazione femminile [18].
Avendo fornito una breve concettualizzazione delle politiche per la famiglia, possiamo procedere a spiegare a livello teorico in quali circostanze queste politiche possono contrastare il lavoro povero.
Partendo dai trasferimenti monetari, queste misure, come già accennato, sostengono direttamente le famiglie, soprattutto quelle più svantaggiate, coprendo – parzialmente – i costi di mantenimento e cura dei figli. Il loro obiettivo è quindi quello di diminuire la distanza in termini economici tra coloro che non hanno figli e quelle famiglie con figli. Se è vero che gli assegni familiari rispondono generalmente ad una logica redistributiva, considerando quindi della situazione economica delle famiglie, il criterio di accesso può non essere universale ma categoriale, escludendo così alcuni gruppi di lavoratori, anche poveri [19]. Ne consegue che l’universalità – almeno quella verticale – risulta essere un criterio cruciale affinché gli assegni possano essere uno strumento efficace contro la IWP. Dall’altro lato, le misure di welfare fiscale (ad esempio gli sgravi fiscali per i figli) se non sono previsti programmi di imposta negativa (il cosiddetto tax credit), possono avere un effetto addirittura regressivo, dal momento in cui il benefit non può essere utilizzato dalle famiglie più povere [20]. Inoltre, è importante ricordare che i trasferimenti monetari non hanno alcun effetto sull’aumento del tasso di occupazione femminile [21]. Al contrario, possono scoraggiare il lavoro delle madri delle famiglie a basso reddito nel momento in cui l’entrata delle donne nel mercato del lavoro – incrementando il reddito lordo familiare – riduce automaticamente il sussidio [22]. Si può introdurre quindi una aliquota marginale altissima per il secondo reddito –la cosiddetta “tassazione sul secondo percettore” – che disincentiva il lavoro, anche quello part-time [23]. Chiaramente il disincentivo non è automatico, ma è collegato al tipo di offerta di lavoro. Impeghi durevoli e con un salario sufficientemente alto controbilanciano la riduzione dei benefits, ma nel caso dei lavoratori a bassa qualifica gli impieghi offerti sono in larga misura atipici e con bassi salari [24]. In questo caso i trasferimenti monetari, impedendo il passaggio ad un modello familiare dual-earner, non sono efficaci per contrastare la IWP.
Per quanto riguarda i congedi, la letteratura – seppur riconoscendo che non sempre questi strumenti hanno un effetto positivo sulla distribuzione dei compiti di cura all’interno della famiglia e quindi sulla parità di genere [25] – mostra che possono risultare utili per i lavoratori – specialmente per le donne – delle fasce più basse, nella misura in cui proteggono l’occupazione e il reddito delle lavoratrici madri. I congedi di maternità e, più in generale, i congedi parentali, permettendo una riconciliazione tra attività lavorativa e compiti di cura, favoriscono l’entrata nel mercato del lavoro dei gruppi (di donne) più svantaggiate – pur avendo effetti distortivi per le categorie di donne economicamente più avvantaggiate [26]. Allo stesso tempo, i congedi di paternità e le quote dei congedi parentali dedicate ai padri possono incentivare il lavoro femminile – e quindi il passaggio al modello dueal-earner – nel momento in cui permettono una più equa ridistribuzione del lavoro pagato e non pagato all’interno del nucleo familiare. Tuttavia, affinché i padri siano realmente motivati ad usufruirne, il tasso di sostituzione dei congedi deve essere elevato – almeno al 60% del salario [27]. Congedi parentali pagati poco non hanno alcun effetto sulla occupazione femminile, perché porterebbero ad una diminuzione del reddito familiare troppo oneroso da sostenere – dato che solitamente il padre è il lavoratore che percepisce il salario più alto.
Infine, i servizi per l’infanzia 0-3 sono unanimemente riconosciuti come lo strumento più efficace a sostegno del de-familismo, dell’occupazione femminile e del passaggio al dual-earner family model [28]. Tuttavia, affinché la Early Childcare Education and Care (ECEC) possa avere un impatto positivo per i lavoratori poveri, il suo design deve rispondere a determinati criteri. Un sistema universalistico, gratuito o con rette calmierate a seconda della fascia del reddito, permetterebbe a tutte le famiglie di accedere al servizio. L’universalismo dovrebbe però essere anche unito ad una disponibilità capillare in tutto il suolo nazionale, evitando fratture territoriali. Al contrario, una ECEC il cui criterio di accesso predilige lo status occupazionale dei genitori, dando priorità alle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, tende a produrre un “effetto Matteo”, per cui i lavoratori che utilizzeranno maggiormente tali servizi saranno quelli delle famiglie dual-earner – a medio-alto reddito [29]. Allo stesso tempo, rette eccessivamente alte e una diffusione frammentata a livello geografico possono scoraggiare ulteriormente l’utilizzo del servizio da parte delle fasce più svantaggiate. In questi casi, la ECEC non risulta efficace nell’allievare il rischio di IWP. Un approccio di natura categoriale piuttosto che universale si registra soprattutto quando i servizi per l’infanzia vengono declinati meramente in termine di conciliazione vita-lavoro e non di investimento sociale ai fini dello sviluppo cognitivo dei bambini fin dai primi anni di vita. In altre parole, se la ECEC viene proposto come un diritto individuale di ogni bambino, ai fini della sua formazione, a prescindere dallo status occupazionale dei genitori, le famiglie più svantaggiate hanno maggiori possibilità di potervi accedere. Di conseguenza, il tasso di occupazione femminile potrà aumentare, facilitando il passaggio ad un sistema familiare bi-reddito. Inoltre, una prospettiva di investimento sociale per quanto concerne i servizi all’infanzia permette anche una prevenzione ex ante – e non solo ex post – della IWP [30]. Considerata l’alta trasmissione inter-generazionale della povertà e il fatto che i lavoratori poveri spesso hanno basse qualifiche, l’accesso ad un sistema di istruzione fin dai primi mesi di vita permette ai bambini delle classi sociali più fragili – e provvisti di un capitale economico e sociale inferiore – uno sviluppo egualitario delle conoscenze [31].
3. IWP e categorie familiari maggiormente a rischio in Italia
Secondo i dati Eurostat-SILC, nel periodo precedente la crisi pandemica [32], è possibile notare un trend in aumento del rischio di IWP in Italia, il quale è cresciuto tra il 2012 e il 2017 dell’1.2% (da 11.1% a 12.3%). Inoltre, il tasso di IWP è ben al di sopra della media UE-27 (9.4%) ed è uno dei più alti tra gli Stati membri dell’UE.
Sebbene i drivers della IWP siano molteplici, dato che il focus della nostra analisi sono le politiche per la famiglia come strumento per contrastare il lavoro povero, ci interessiamo a due dimensioni che la letteratura specialistica considera come cruciali: lo status occupazionale e la composizione del nucleo familiare.
Lo status occupazionale
Il rischio di IWP tra i lavoratori autonomi rimane molto più alto che tra i dipendenti (rispettivamente, 19.5% vs. 10.1% nel 2017), confermando un trend già osservato in letteratura [33]. Questo valore non sorprende se si considera che il dataset Eurostat-SILC include all’interno della categoria “lavoratori autonomi” anche i lavoratori parasubordinati (le cosiddette, collaborazioni coordinate e continuative, co.co.co) [34]. Questi tipi di contratti ibridi, che non configurano né un rapporto di lavoro subordinato né da lavoratore autonomo, sono ampiamente diffusi in Italia e sono comunemente sottopagati. Nonostante che nel 2017 il rischio di IWP per i lavoratori autonomi sia stato più alto nel resto dell’Unione Europea (22.2%), il valore rimane problematico, poiché in Italia la percentuale di lavoratori autonomi occupati è molto più alto che nel resto degli stati membri dell’UE. Il Jobs Act ha introdotto alcune misure per rendere più difficoltosa la fruizione dei contratti parasubordinati da parte dei datori di lavoro, nonché per limitare i falsi rapporti di lavoro autonomo (le cosiddette false partite iva) [35].
Per quanto riguarda i lavoratori subordinati, i lavoratori atipici – che di solito percepiscono salari annui inferiori – tendono ad essere più a rischio povertà rispetto ai lavoratori con un contratto standard. Ciò vale sia per i lavoratori dipendenti a tempo determinato (22.5% nel 2017) che per quelli part-time (18.6% nel 2017). Al contrario, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato o a tempo pieno presentano un rischio inferiore alla media nazionale (7.8% e 11.1% nel 2017). Come evidenziato dalla letteratura, il lavoro atipico in Italia è in aumento, in particolare il part-time involontario [36]. Se questa tendenza non verrà invertita in futuro, si prevede che l’IWP aumenterà ulteriormente.
Infine, il tipo di impiego svolto sembra essere associato al rischio di IWP. In particolare, i lavoratori del settore manifatturiero (soprattutto le giovani generazioni) e gli addetti ai servizi a bassa qualifica hanno un maggior rischio di IWP rispetto ad altri gruppi sociali [37]. È importante ricordare che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro degli ultimi due decenni è stata creata nel settore dei cosiddetti servizi food and fun, dove i salari sono bassi e i contratti di lavoro precari [38]. Mentre il numero dei colletti blu sembra essere destinato a ridursi ulteriormente come conseguenza del processo di de-industrializzazione, è molto probabile che quello dei lavoratori nei settori dei servizi a bassa qualifica sia destinato ad aumentare nel tempo e, di conseguenza, anche l’incidenza di lavoratori poveri.
Composizione del nucleo familiare
La struttura del nucleo familiare influisce sul rischio IWP sotto diverse prospettive. In primo luogo, l’intensità del lavoro gioca un ruolo significativo. Come osservato negli ultimi decenni dalla letteratura specialistica [39], il rischio di IWP sono molto più elevati nelle famiglie con intensità di lavoro media o bassa (25.3% e 38.8%, rispettivamente) rispetto a quelle con intensità di lavoro molto alta o alta (7.1% e 11.6% nel 2017). Tuttavia, va notato che anche in questi ultimi casi il valore di IWP è superiore alla media dell’UE-27.
Infine viene confermata una forte associazione tra IWP, da un lato, e numero di percettori/presenza di figli, dall’altro [40]. Tale associazione è evidente quando si classifica la famiglia in quattro gruppi: single (senza figli), monoparentale, male-breadwinner (con figli) e dual-earner (con figli) [41]. L’IWP è più elevato tra le famiglie monoparentali e male-breadwinner, ovvero dove un solo genitore è impiegato e guadagna tutto il reddito della famiglia (rispettivamente 46% e 52%). Al contrario, i lavoratori single senza figli sono in una posizione più avvantaggiata (solo il 18% è a rischio di povertà) insieme alle famiglie dual-earner, in cui almeno due adulti sono occupati e percepiscono un reddito (12%). Una condizione per diminuire il rischio di IWP nelle famiglie con figli sembra essere la presenza di due percettori di reddito, e quindi il passaggio dal modello male-breadwinner a quello dual-earner.
4. Le politiche per la famiglia in Italia e la IWP: un’analisi evolutiva
La famiglia in Italia: considerazioni generali
Durante l’età dell’oro dell’Welfare State (1945-1975), l’Italia ha sviluppato un modello di famiglia basato sul male-breadwinner [42]. Di conseguenza, le politiche familiari hanno seguito un approccio familistico, ovvero non hanno alleggerito le famiglie (e, più specificamente, le donne) dai loro compiti di cura [43]. Allo stesso tempo, contrariamente ad altri paesi, come la Germania, in Italia, le politiche familiari non hanno rafforzato le famiglie nella loro capacità di cura attraverso un generoso sistema di trasferimenti di denaro. In altre parole, l’Italia è stata caratterizzata per molto tempo da una familizzazione di de fault: le famiglie sono state costrette a fare affidamento sulle proprie risorse materiali – in termini di reddito disponibile – e immateriali – in termini di tempi di cura – per fornire assistenza ai propri membri [44].
A seguito del processo di modernizzazione della società e dei cambiamenti della struttura economica delle democrazie occidentali, anche la famiglia italiana è stata coinvolta in quella che Esping-Andersen ha chiamato una “rivoluzione” [45]. Come evidenziato dall’Istat [46], il numero dei matrimoni è diminuito sensibilmente: da 185.749 nel 2008 a 123.509 nel 2019 (-33,5%). I matrimoni civili sono cresciuti notevolmente e rappresentano il 52.6% del totale dei matrimoni nel 2019, a dimostrazione di un’accelerazione del processo di secolarizzazione. Il numero di divorzi tra il 2015 e il 2016 è notevolmente aumentato (+57.5%) a seguito dell’entrata in vigore di due leggi che hanno semplificato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio. Allo stesso tempo, la struttura del nucleo familiare sta cambiando o, più precisamente, ha avviato un processo di semplificazione. Il numero medio dei componenti della famiglia è passato dai 2.7 alla fine anni ’90 agli attuali 2.3. I nuclei familiari single sono notevolmente aumentati (dal 21.5% del totale nel 1997 al 33% nel 2017), mentre sono diminuiti i nuclei familiari numerosi (dal 7.7% al 5.3%). Inoltre, anche le famiglie monoparentali sono cresciute e alla fine degli anni Dieci rappresentano l’8.1% del totale.
Tuttavia, a questo cambiamento sociale non è seguita una trasformazione radicale delle policy. La diffusione del modello di famiglia a doppio reddito continua a riscontrare diversi ostacoli, soprattutto nelle regioni del Sud. Il tasso di occupazione femminile resta inferiore alla media UE-27, con le regioni meridionali in forte ritardo rispetto a quelle settentrionali. Inoltre, un numero crescente di donne lavoratrici ha un contratto a tempo parziale. A questo proposito è interessante notare che l’aumento del numero dei figli è correlato all’aumento del part-time femminile, situazione diametralmente opposta a quella degli uomini. Ad esempio, nel 2018, il 71.2% delle donne senza figli risultava avere un lavoro a tempo pieno (il valore è pari al 90.2% per gli uomini). Al contrario, solo il 52.9% delle donne con tre figli aveva un contratto a tempo pieno, mentre il 47.1% lavora a tempo parziale. Inoltre, una percentuale più alta di donne (15.9% nel 2018) rispetto agli uomini (0.68%) ha dichiarato di aver interrotto la propria carriera dopo la nascita dei figli.
Trasferimenti monetari e IWP
In linea generale, il sistema dei trasferimenti monetari non ha cambiato radicalmente le sue caratteristiche storicamente frammentate. Il sostegno al costo dei figli in Italia è stato essenzialmente garantito fino al marzo 2022 dagli assegni al nucleo familiare e dalle detrazioni per i figli a carico.
Gli assegni familiari sono legati al reddito familiare, commisurato all’ampiezza della famiglia, e perciò hanno un effetto redistributivo di tipo verticale [47]. Tuttavia, essendo finanziati tramite contributi sociali e non dal gettito fiscale, non sono strumenti universali, ma bensì categoriali. Di conseguenza, ne hanno avuto diritto solo i lavoratori dipendenti, mentre i lavoratori autonomi ne sono rimasti esclusi. L’assegno per il terzo figlio, al contrario, ha seguito la logica dell’universalismo selettivo. Il criterio di accesso si è basato esclusivamente sulla presenza di (almeno) tre figli minori e sulla condizione economica della famiglia, a prescindere dal status occupazionale dei genitori [48]. Da ricordare, tuttavia, che in questo caso, a differenza dell’assegno familiare, l’accertamento della condizione economica non si è basata sul reddito, ma sull’ISEE – che considera anche la ricchezza complessiva della famiglia.
Un ruolo importante è stato svolto dalle detrazioni per i figli e il coniuge a carico, e per le conseguenti spese familiari. Questa misura di welfare fiscale è accessibile ad ogni lavoratore e l’entità della detrazione diminuisce con l’innalzarsi dal reddito imponibile. Non essendoci un meccanismo di tassazione negativa, chi ha redditi bassi – i cosiddetti incapienti – può non essere in grado di usufruire in tutto o in parte di queste specifiche tipologie di detrazioni [49]. Gli effetti redistributivi di questa misura – che almeno formalmente risponde ad una logica di universalismo selettivo – sono, quindi, molto discutibili.
Infine, nel corso degli anni, sono stati introdotte misure non strutturali – nella forma di bonus – per il sostegno al costo dei figli. Tra le ultime misure, ricordiamo il bonus bebè, a cui potevano accedere fino al 2019 tutte le famiglie più svantaggiate (ovvero con un ISEE inferiore a 25.000 euro) e, successivamente, dal 2020, tutte le famiglie a prescindere dal reddito.
In generale la letteratura concorda che, se comparato con altri paesi europei, il sistema dei trasferimenti monetari che si è configurato in Italia fino a marzo del 2022 mostrava criteri d’accesso estremamente rigidi e offriva benefits poco generosi e frammentari [50]. Il fatto che i lavoratori autonomi siano rimasti esclusi dal sistema degli assegni mette fortemente in discussione l’efficacia di questa misura nel contrasto del lavoro povero, visto che questa categoria di lavoratori, come abbiamo discusso, ha maggiori possibilità di cadere in povertà. Allo stesso modo le detrazioni fiscali sembrano avere un effetto regressivo, in quanto gli incapienti non ne possono usufruire. Anche in questo caso, la possibilità di contrastare la IWP sembra essere particolarmente limitata. Solo l’assegno universale al terzo figlio sembra essere una misura più coerente con gli obiettivi di contrasto alla IWP, ma esclude tutte le famiglie con uno o due figli – che rappresentano la maggioranza delle famiglie italiane con figli. In generale, la letteratura mostra che l’efficacia dei trasferimenti monetari in Italia nel diminuire i rischi associati ai figli rimane scarsa [51].
Lo scenario qui descritto sembra cambiare a partire da marzo 2022, quando è entrato in vigore l’assegno unico universale (AUU). L’assegno riordina il frammentato sistema di trasferimenti monetari, sostituendo tutte le misure di sostegno ai figli – dall’assegno familiare alle detrazioni per i figli – e assorbendone i finanziamenti (circa 13 miliardi). L’AUU segue un criterio di universalismo sia verticale, che, in parte, orizzontale [52]. Il vincolo categoriale è infatti eliminato, e il benefit spetta a tutti coloro che hanno figli minorenni – in alcuni casi, fino a 21 anni – a prescindere dallo status occupazionale dei genitori. L’importo viene legato alla condizione economica familiare (ISEE), e quindi ha un approccio progressivo, diminuendo con l’aumentare della situazione economica familiare (universalismo verticale). Tuttavia, anche le famiglie più abbienti (con un ISEE oltre i 40.000 euro) possono ricevere l’assegno base di 50 euro mensili per ciascun figlio minorenne (universalismo orizzontale). Sono previste delle maggiorazioni per alcune fattispecie (per il terzo figlio e successivi, per figli con disabilità e anche ne caso di madre molto giovane). Al fine di coprire coloro che erano stati esclusi dal sistema degli assegni precedentemente in vigore, sono stati stanziati circa 6 miliardi addizionali, per un totale di 18 miliardi di euro, una cifra sicuramente importante se paragonata alla spesa dedicata ai trasferimenti monetari in Italia nei decenni precedenti [53].
L’AUU, almeno nella sua attuale forma, sembra rappresentare uno strumento efficace di contrasto alla povertà lavorativa, soprattutto dato che allarga la platea dei beneficiari a quelle categorie di lavoratori a maggior rischio di IWP precedentemente escluse, come gli autonomi. Un recente studio mostra che, in generale, l’introduzione dell’assegno universale migliorerà la situazione di circa il 25% delle famiglie rispetto al precedente sistema di trasferimenti[54]. Più nel dettaglio, il vantaggio riguarderebbe il 37% delle famiglie [55] tra i nuclei familiari più svantaggiati, ovvero quelli nel primo decile di reddito.
L’elemento più critico ai fini della lotta alla IWP rimane la decisione di legare il suo importo alla situazione economica familiare che può impattare negativamente sull’offerta di lavoro del secondo percettore di reddito, nella maggior parte dei casi, la donna. In altre parole, per le famiglie a basso reddito si potrebbe verificare il problema della tassazione del secondo percettore, precedentemente discussa, che disincentiverebbe l’occupazione femminile e quindi il passaggio ad un modello dual-earner [56]. Il legislatore sembra aver affrontato il problema, includendo una maggiorazione del benefit nel caso in cui entrambi i genitori siano occupati. Tuttavia, la maggiorazione rimane molto modesta – circa 30 euro mensili – e non è ancora chiaro se può realmente controbilanciare i disincentivi legati alla scelta di commisurare l’importo del benefit al valore dell’ISEE [57]. La proposta – non attuata – di non calcolare il reddito aggiuntivo nella determinazione dell’ISEE per le regioni in cui il tasso di occupazione femminile è particolarmente basso – e il fenomeno della IWP alto – avrebbe avuto un effetto più incisivo [58].
Congedi e IWP
Anche per quanto riguarda il sistema complessivo dei congedi, il caso italiano mostra degli elementi di frammentazione, a svantaggio di alcune fasce di lavoratori che, paradossalmente, hanno un rischio maggiore di IWP.
Il congedo di maternità è relativamente generoso, sia per quanto riguarda la durata temporale che per l’indennizzo previsto, ed è garantito a tutte le lavoratrici, ma in maniera differenziata. Le lavoratrici parasubordinate (CO.CO.CO) hanno diritto al congedo di maternità e alla relativa indennità, ma il diritto al congedo parentale è valido fino al compimento dei tre anni del figlio, mentre, per le lavoratrici dipendenti, è valido fino al 12° anno di età del figlio. Il recente decreto legge n. 105/2022 ha sanato questa disparità di trattamento, garantendo alle lavoratrici e lavoratori parasubordinati il diritto di usufruire del congedo parentale fino 12° anno di età del figlio. Per le lavoratrici autonome, il diritto all’assegno è subordinato ad aver versato dei contributi. Infine, i dipendenti con contratto a tempo determinato sono tutelati solo se hanno un contratto attivo all’inizio del congedo. Coloro che hanno un lavoro precario sono spesso esclusi dall’indennità. Le varie forme di lavoro a tempo determinato possono quindi rendere rischioso non solo il congedo parentale ma lo stesso congedo di maternità in termini di continuità lavorativa [59].
Per quanto riguarda il congedo di paternità obbligatorio (indennizzato al 100%), la riforma del Jobs Act varata nel 2014 dal governo Renzi ha aumentato la sua durata da 2 a 4 giorni e, poi, nel 2019, a 5 giorni. Nel 2020 il congedo è stato ulteriormente incrementato a 7 giorni e nel 2021 a 10 giorni. Tuttavia, i lavoratori autonomi rimangono esclusi.
Infine per quanto riguarda il congedo parentale (10 mesi complessivi a disposizione), sempre la riforma del Jobs Act ha introdotto alcuni cambiamenti per migliorarne l’utilizzo, soprattutto in termini di una più equa redistribuzione dei tempi di cura all’interno del nucleo familiare. La legge infatti riserva una quota implicita ai padri, nella misura in cui ognuno dei genitori può utilizzare al massimo sei dei dieci mesi a disposizione. Viene anche riconosciuto un mese addizionale se il padre usufruisce di almeno tre mesi di congedo. Nonostante queste (minori) modifiche, il tasso di sostituzione molto contenuto (30% della retribuzione media) non è stato modificato. Come sottolineato dalla letteratura femminista, bassi tassi di sostituzione scoraggiano gli uomini da usufruire del congedo parentale [60]. In effetti, l’utilizzo del congedo da parte del padre, il cosiddetto take-up rate, rimane modesto. In altre parole, il design dei congedi parentali non è coerente con l’obiettivo di aumentare il tasso di occupazione femminile e quindi non incide nel passaggio ad un modello familiare dual-earner. Inoltre, per le lavoratrici autonome, l’accesso al congedo è più restrittivo rispetto alle lavoratrici dipendenti.
Per riassumere, il design complessivo del sistema dei congedi non sembra essere particolarmente efficace nel contrastare la IWP, nella misura in cui i benefits sono inferiori o assenti per i lavoratori più a rischio (parasubordinati e autonomi, ma anche per coloro che hanno un contratto a tempo determinato) e non viene incentivata una più equa redistribuzione dei compiti di cura non viene realmente sostenuta.
Servizi per l’infanzia (ECEC) e IWP
Storicamente, i servizi per l’infanzia (ECEC) in Italia non hanno rappresentato una priorità all’interno delle agende di welfare dei vari governi degli ultimi decenni [61]. La spesa per la ECEC è infatti una delle più basse tra i paesi dell’Europa occidentale. Nel 2017, l’offerta complessiva pubblica e privata dei servizi per l’infanzia 0-3 si attesta al 24.7%, ovvero sotto il parametro del 33% fissato dall’Unione Europea (target di Barcellona), seppur in aumento rispetto al 2013 (22.5% [62]).
Il dato nazionale cela delle differenze geografiche estremamente elevate – in linea con la ben nota distorsione geografica del welfare italiano [63]. Mentre diverse regioni del Centro-Nord hanno ampiamente superato il target di Barcellona (ad esempio, Toscana, Emilia-Romagna, Valle d’Aosta) o comunque registrano valori sopra la media nazionale, nelle regioni del Mezzogiorno (con l’eccezione della Sardegna) non solo il target del 33% è lontano, ma i valori sono ampiamente sotto la media nazionale [64].
La distorsione geografica non si configura solo come una frattura (cleavage) tra Nord e Sud, ma anche tra centro e periferia. I comuni capoluogo di provincia hanno una dotazione media di 32.8 posti per 100 bambini, a fronte dei 21.8 dei comuni dell’hinterland (+11) [65]. Solo in Emilia-Romagna, Umbria e Valle d’Aosta, anche i comuni non capoluogo riescono a superare il target di Barcellona.
Queste distorsioni geografiche, oltre a generare una diseguaglianza in termini di cittadinanza sociale, impattano negativamente anche sulla capacità di servizi per l’infanzia di contrastare la IWP in quei luoghi dove il fenomeno è maggiormente diffuso – ovvero il Mezzogiorno, ma anche le zone meno urbanizzate e periferiche del paese, colpite dal processo di deindustrializzazione. Si è innescato un circolo vizioso per cui la ECEC è maggiormente diffusa dove l’occupazione femminile è più alta e dove il modello familiare dual-earner è prevalente, mentre scarseggia dove il tasso di occupazione femminile è limitato e la struttura familiare è basata sul modello male-breadwinner. In altre parole, la disponibilità dei servizi per l’infanzia è limitata proprio nei luoghi dove sarebbero più utili come strumento contro la IWP [66].
Non sono solo le distorsioni geografiche a influenzare negativamente la capacità della ECEC nel contrastare il lavoro povero. I costi che le famiglie devono sostenere ogni anno per la retta di iscrizione all’asilo nido contribuiscono a selezionare i bambini che possono accedere al servizio dal punto di vista del reddito familiare [67]. Nel 2017, solo il 13% del primo quinto di reddito – quindi il 20% delle famiglie con il reddito più basso – ha utilizzato il servizio, contro il 31.2% dell’ultimo quinto – quindi il 20% delle famiglie con il reddito più alto. La percentuale più bassa di utilizzo si registra tra le famiglie con grave deprivazione materiale (13.7%), quelle a rischio di povertà (14.2%) e quelle a bassa intensità lavorativa (15.5%) [68]. In generale i nidi vengono utilizzati prevalentemente dalle famiglie dual-earner (70%), mentre il dato è sostanzialmente più basso tra le famiglie male-breadwinner (30%). Queste percentuali non sono radicalmente cambiate nel corso degli ultimi decenni. In altre parole, i servizi per l’infanzia sono utilizzati maggiormente dalle famiglie a doppio reddito (e con redditi medio-alti), mentre sono scarsamente utilizzate dalle famiglie a basso reddito e monoreddito. Si configura così un “effetto Matteo”, per cui il ruolo redistributivo della ECEC è limitato.
I motivi dello scarso utilizzo del servizio da parte delle famiglie sono molteplici [69]. Da una parte vi è un problema nei criteri di accesso agli asili – decisi a livello comunale – che tendono a darà la priorità alle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano. In un contesto di scarsa disponibilità del servizio – soprattutto nel Mezzogiorno – questo criterio porta ad una sorta di auto-selezione che premia le famiglie a doppio reddito, escludendo quelle monoreddito. Dall’altra – anche se per la maggior parte delle famiglie la decisione di non fruire del servizio è una scelta personale – per diversi nuclei familiari (16%), le cause sono da trovarsi nel costo eccessivo delle rette (11%), nella lontananza del servizio e dagli orari scomodi. Per quanto riguarda le spese sostenute dalle famiglie, il bonus asilo nido introdotto nel 2017, volto a coprire (parzialmente) le rette e i vari costi associati al servizio, non ha risolto le varie distorsioni – geografiche e di reddito. Il Bonus è stato infatti maggiormente utilizzato dove i servizi per l’infanzia sono capillarmente diffusi, ovvero nelle regioni del Nord e del Centro, mentre la sua richiesta è stata bassa al Sud. Inoltre, le famiglie che vivono nei comuni dove il servizio non è presente – in particolar modo nel Mezzogiorno o nei contesti più periferici – non hanno potuto automaticamente accedere al bonus.
Il problema è quindi di “sistema”: i servizi di ECEC hanno una ampia copertura al Centro-Nord e tra le famiglie a doppio-reddito della classe medio-alta. I servizi per l’infanzia hanno quindi un effetto di lock-in [70] del modello dual-eraner. Al contrario, non riescono a svilupparsi nelle regioni meridionali, e sono generalmente meno diffusi tra le famiglie mono-reddito. La ECEC, quindi, non produce un effetto lock-out del modello male-breadwinner e quindi la sua funzione di contrasto alla IWP risulta indebolito.
Alla luce di questi dati poco incoraggianti, è importante ricordare che nell’ultimo decennio alcuni passai avanti sono stati fatti. Il governo Gentiloni, infatti, ha introdotto – all’interno della legge Buona Scuola – un sistema educativo integrato che riconosce l’assistenza all’infanzia 0-3 anni non come un servizio assistenziale ma come un diritto individuale all’interno del sistema educativo pubblico. L’assistenza all’infanzia, quindi, almeno sulla carta, diventa un diritto sociale per ogni bambino. Questo passaggio – che mette in evidenza il valore educativo e formativo dei servizi per l’infanzia – è estremamente importante affinché la ECEC possa essere un efficace strumento contro la IWP. Da una parte, infatti, focalizzandosi sullo sviluppo cognitivo dei bambini fin dai primi anni d’età, permette di affrontare il lavoro povero tramite una strategia ex-ante [71]. Dall’altra, se la funzione dei servizi per l’infanzia non è solo di conciliazione ma è anche educativa, i criteri di accesso che danno la priorità alle famiglie a doppio reddito non sarebbero più giustificabili. Questo faciliterebbe la fruizione del servizio anche alle famiglie monoreddito, e potrebbe incidere sui tassi occupazionali femminili e quindi incentivare il passaggio ad un modello dual-earner. Un approccio alla ECEC che enfatizzi la sua funzione educativa, piuttosto che quella di conciliazione, potrebbe portare risultati migliori al contrasto della IWP.
Tuttavia, il sistema educativo integrato 0-6 mostra diverse criticità. Come detto, a fronte di risorse importanti ma non sufficienti, il numero degli asili nido pubblici non è aumentato e la copertura è rimasta molto bassa [72]. La Buona Scuola, inoltre, non ha eliminato la co-partecipazione delle famiglie al pagamento delle rette. Il costo dei servizi rimane alto e spesso chi non ha diritto alla tariffa agevolata dei servizi pubblici non ha le risorse per pagare le rette degli asili privati non convenzionati – che seguono una logica di mercato [73].
Una possibile rivoluzione del sistema dei servizi per l’infanzia – e quindi del suo impatto sulla IWP – potrebbe derivare dalla corretta implementazione del PNRR, che stanzia 4.6 miliardi per il sistema integrato 0-6, di cui 2.4 per i servizi all’infanzia 0-3. L’elevato ammontare di risorse destinate per la prima volta ai servizi per l’infanzia in Italia è un’occasione per risolvere quelle distorsioni – in primis, geografiche – che caratterizzano il sistema e ne minano la sua efficacia come strumento di contrasto alla IWP. Dato che saranno i comuni ad accedere alla procedura selettive a condurre la realizzazione e gestione delle opere, sarà necessario rafforzare le capacità territoriali di sviluppare e implementare la progettazione, soprattutto nel Mezzogiorno [74]. Come suggerisce Stefania Sabatinelli, sarà anche necessario una operazione culturale a sostegno della poliedrica valenza dei servizi per l’infanzia, in particolar modo della loro funzione di “investimento sociale” per i bambini [75]. Infine, le risorse a disposizione dei comuni dovranno essere ripartite in maniera equilibrata tra gli investimenti strutturali e le spese necessarie per garantire la gestione dei servizi e la loro esternalizzazione o internalizzazione, da cui dipenderà una diminuzione o aumento dei costi per la famiglie – e quindi impatterà sulla decisione di fruire del servizio [76].
5. Conclusioni
In questo articolo abbiamo mostrato come il lavoro povero e le politiche per la famiglia siano concettualmente interconnessi. Nonostante che ad oggi la letteratura comparata sulla IWP si sia concentrata maggiormente sull’analisi di misure come il reddito minimo, le politiche per la famiglia possono essere strumenti utili per contrastare il lavoro povero, sia direttamente che indirettamente.
La loro funzione di device contro la IWP si configura nella misura in cui forniscono un sostegno al reddito delle famiglie più svantaggiate e promuovono l’occupazione femminile, incentivando così il passaggio ad un modello di famiglia dual-earner.
Tuttavia, nella nostra discussione abbiamo evidenziato che gli effetti positivi nel contrastare la IWP sono potenziali, e non automatici. L’efficacia delle politiche della famiglia dipende dal design della policy e da quanto tale design sia coerente con l’obiettivo di diminuire le diseguaglianze.
L’analisi del caso italiano mostra uno scenario ambivalente. Da una prospettiva longitudinale, l’efficacia delle politiche per la famiglia nel contrastare il lavoro povero appare limitata.
Storicamente, in Italia, i trasferimenti monetari a sostegno delle famiglie sono risultati frammentati e hanno escluso una fetta importante di lavoratori che rientrano nelle categorie più a rischio di IWP.
I congedi parentali proteggono il lavoro delle madri, ma le spettanze sono differenti a seconda dello status occupazionale. Le lavoratrici parasubordinate e autonome sono sfavorite. Inoltre, il design attuale dei congedi parentali – che prevede un tasso di sostituzione molto ridotto – non incentiva i padri a usufruirne, e, di conseguenza, hanno uno scarso effetto sull’occupazione femminile.
Il sistema dei servizi all’infanzia soffre della tradizionale distorsione geografica del welfare all’italiana. Nel Sud, dove i servizi potrebbero ricoprire una funzione marcatamente anti-IWP, la loro diffusione è scarsa. Oltre a questo bias geografico, si è configurata una situazione per cui sono le famiglie dual-earner a medio-alto reddito piuttosto che quelle male-breadwinner ad usufruire dei servizio, generando una sorta di “effetto Matteo”.
Nonostante queste problematiche strutturali, è possibile identificare negli ultimi anni un pattern di riforma che potrebbe incidere positivamente sull’efficacia delle politiche per la famiglia nel contrastare la IWP.
L’AUU ha adottato un criterio universalistico, ampliando la platea di beneficiari, inclusi quei gruppi di lavoratori a maggior rischio di IWP. Tuttavia non è chiaro se l’attuale maggiorazione per le famiglie dual-earner possa controbilanciare gli effetti distorsivi della tassazione del secondo percettore.
Il recente decreto legge 105/2022 ha parzialmente sanato le disparità di trattamento tra lavoratori parasubordinati e lavoratori dipendenti in termini di congedo parentale. Tuttavia, le differenze non sono state completamente eliminate e i lavoratori autonomi continuano ad essere complessivamente svantaggiati nell’attuale sistema dei congedi.
La Buona Scuola ha introdotto una prospettiva di investimento sociale nel design della ECEC, che può aiutare ad incrementare il tasso di utilizzo dei servizi 0-3, soprattutto tra le famiglie male-breadwinner a basso reddito. Inoltre, le risorse messe a disposizione dal PNRR potrebbero favorire un forte sviluppo dei servizi per l’infanzia nelle regioni meridionali, consentendo loro di colmare il divario con quelle settentrionali. Tuttavia, un possibile risultato positivo dipenderà principalmente dalla capacità amministrativa delle istituzioni (governo centrale, regioni e comuni) di spendere adeguatamente le risorse.
Sebbene l’analisi di un singolo studio di caso non permetta generalizzazioni teoriche, il lavoro qui presentato suggerisce alcune riflessioni rispetto alle strategie di contrasto alla IWP.
In primo luogo, le misure categoriali non sembrano essere efficienti nella lotta al lavoro povero, mentre i programmi di universalismo selettivo sono più coerenti con tale obiettivo. Secondariamente, i trasferimenti monetari risultano essere utili contro la IWP solo se non creano un disincentivo al lavoro femminile per le famiglie a basso reddito. In caso contrario, si crea una trappola della familizzazione che cristallizza il modello di famiglia male-breadwinner – il più esposto al rischio di IWP.
In terzo luogo, i congedi non dovrebbero differenziare per categoria di lavoratrici e lavoratori. Inoltre, per incentivare l’occupazione femminile, dovrebbero avere un obiettivo di gender equality, garantendo una più equa redistribuzione dei compiti di cura all’interno del nucleo familiare, incentivando i padri di fruire del congedo e le madri a tornare (o re-inserirsi) nel mercato del lavoro.
In quarto luogo, il sistema dei servizi per l’infanzia dovrebbe basarsi sul concetto di cittadinanza sociale evitando situazione disomogenee sul suolo nazionale. L’universalismo (selettivo) in termini di eliminazione dei costi per le famiglie può essere utile per aumentare il take-up rate ma non è sufficiente: se non ci fossero servizi disponibili per soddisfare la domanda, le famiglie più svantaggiate potrebbero continuare ad avere problemi nell’accesso. A questo proposito, per incentivare l’utilizzo dei nidi tra le fasce di lavoratori a basso reddito, è importante anche un cambio di paradigma culturale, passando da una visione dei servizi per l’infanzia come mero strumento di “conciliazione” ad una in cui si associa la valenza di “investimento sociale” per il bambino. Questo passaggio aiuterebbe a costruire una strategia ex-ante contro la IWP – andando ad incidere sullo sviluppo cognitivo dei bambini fino dalla prima infanzia – ma, sulla base dell’esperienza dei paesi nordici, permetterebbe anche di contrastare il lavoro povero ex-post in maniera più efficace.
Infine, in alcune nazioni, come l’Italia, il modello dual-earner non è sufficiente a togliere le famiglie dalla povertà. Se entrambi i genitori sono occupati in impieghi atipici, il rischio permane. Al fine di una strategia efficace contro le IWP, le politiche della famiglia e del lavoro dovrebbero quindi essere inserite in un pacchetto coerente di riforme di policy più ampio.
Le riflessioni suggerite dal caso italiano possono essere empiricamente investigate in futuri lavori comparativi, al fine di comprendere se più efficaci designs delle politiche per la famiglia adottati in altre economie avanzate abbiano positivamente inciso sulla lotta alla IWP e in quale misura. Inoltre, le future ricerche potrebbero domandarsi se la crisi pandemica abbia rappresentato una giuntura critica nell’utilizzo delle politiche per le famiglie all’interno di una strategia generale di contrasto al lavoro povero.
NOTE
[1] Per un’analisi multidimensionale del concetto di In-Work Poverty e della sua connessione con le politiche per la famiglia si veda: H. LOHMANN, I. MARX (a cura di), Handbook on In-Work Poverty, Edward Elgar, Cheltenham, 2018; H.J ANDRESS, H. LOHMAN (a cura di), The Working Poor in Europe. Employment, Poverty and Globalization, Edward Elgar, Cheltenham, 2008; N. FRASER, R. GUTIÉRREZ, R. PEÑA-CASAS (a cura di), Working Poverty in Europe. A Comparative Approach, Palgrave, London, 2011; B. CANTILLON, F. VANDENBROUCKE (a cura di), Reconciling Work and Poverty Reduction. How Successful are European Welfare States? Oxford University Press, Oxford, 2014.
[2] Nella letteratura comparata è comunamente utilizzata la definizione fornita da Eurostat. Tale definizione è stata oggetto di alcune critiche, in particolar modo perché l’effetto è di sottostimare il numero di lavoratrici povere (il cosiddetto, gender paradox. A tal proposito, si veda, H. LOHMANN, The concept and measurement of in-work poverty, in H. LOHMANN, I. MARX (a cura di), op. cit., 7-25). Per ovviare a tali criticità, è stato suggerito di affiancare al reddito familiare anche il “individual earned income” per una corretta misurazione della IWP (S. PONTHIEUX, Gender and in-work poverty, in H. LOHMANN E I. MARX (a cura di), op. cit., 70-88).
[3] Per una critica del pooling asumption si veda: S. JENKINS, Poverty measurement and the within-household distribution: Agenda for action, in Journal of Social Policy, 1991, 20(4), 457–483; S. PONTHIEUX, Income pooling and equal sharing within the household – What can we learn from the 2010 EU-SILC module? Eurostat Methodologies and Working Papers, 2013.
[4] P. FLORA (a cura di), Growth to limits, Growth to Limits: The Western European Welfare States Since World War II, De Gruyter, Berlino, 1986.
[5] J. LEWIS, Gender and the Development of Welfare Regimes, in Journal of European Social Policy, 1992, 2, 3159-73; G. ESPING-ANDERSEN, The incomplete revolution: Adapting to women’s new roles, Polity Press, Cambridge, UK, 2009.
[6] J. LEWIS, The decline of the male-breadwinner model. The implications for work and care, in Social Politics, 2001, 8(2), 152-70; K. ARMINGEON E BONOLI (a cura di), The politics of post-industrial welfare states: Adapting post-war social policies to new social risks, Routledge, New York, 2006; M. MÄTZKE E I. OSTNER, Introduction: change and continuity in recent family policies, in Journal of European Social Policy, 2010, 20(5), 387-398.
[7] G. ESPING-ANDERSEN, The incomplete revolution, cit.
[8] H. LOHMANN, E. CRETTAZ, Explaining cross-country differences in in-work poverty, in H. LOHMANN, I. MARX (a cura di), Handbook on In-Work Poverty, cit., 50-69; S. PONTHIEUX, Gender and in-work poverty, ivi, 70-88; W. VAN LANCKER E J. HOREMANS, Childcare policies and in-work poverty, ivi, 261-276.
[9] Come notato da S. LEITNER (Varieties of familialism: The caring function of the family in comparative perspective, in European Societies, 2003, 5(4): 353-375) e successivamente da C. SARACENO (Le politiche della famiglia in Europa: tra convergenza e diversificazione in Stato e Mercato, 2009, 85(1), 25 ss.) lungo il continuum familizzazione-defamilizzazione si possono identificare quattro varianti: la familizzazione di de fault o familizzazione implicita, quando i bisogni di cura e i costi associati sono totalmente a carico delle famiglie e lo stato non offre alcun sostegno; la familizzazione sostenuta finanziariamente o familizzazione esplicita, quando il lavoro di cura è sostenuto da trasferimenti monetari; la defamilizzazione, quando la famiglia viene (parzialmente) sollevata dai compiti di cura, di cui fa carico il bilancio pubblico; il familismo opzionale, quando alle famiglie viene offerta la possibilità di scegliere tra defamilizzazione e familizzazione.
[10] Il policy design implica lo sforzo di sviluppare, più o meno sistematicamente, delle politiche pubbliche efficienti ed efficaci attraverso la conoscenza degli strumenti di policy acquisita dall’esperienza pregressa e dalla ragione, al fine di sviluppare e adottare delle linee d’azione che meglio potrebbero raggiungere gli obiettivi desiderati all’interno di specifici contesti politici (M. HOWLETT, Policy Design: What, Who, How and Why?, in C. HALPERN, P. LASCOUMES, P.LE GALÈS (a cura di), L’instrumentation et ses effets, Presses de Sciences Po, Paris, 2014, 281-315.
[11] Per una analisi dettagliata del caso italiano in merito scarso impatto delle politiche per la famiglia sul fenomeno della povertà si veda C. SARACENO, E. MORLICCHIO, D. BENASSI, La povertà in Italia. Soggetti, meccanismi, politiche, Bologna, Il Mulino, 2022.
[12] C. KAZEPOV, C. RANCI, Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case, in Journal of European Social Policy, 2017, 27(1), 90-104.
[13] V. FARGION, Disoccupazione e assegni familiari: uno sviluppo frenato in M. FERRERA, V. FARGION, M. JESSOULA, Alle radici del Welfare all’Italiana, Marsilio, Padova, 155-206, 2012.
[14] S.B. KAMERMAN, A.J. KAHN (a cura di), Family Policy: Government and Families in Fourteen Countries, Columbia University Press, New York, 1978.
[15]E. FERRAGINA, Does Family Policy Influence Women’s Employment? Reviewing the Evidence in the Field, in Political Studies Review, 2019, 17, 65-80; G.B. EYDAL, T. ROSTGAARD (a cura di), Handbook of Family Policy, Edward Elgar, Cheltenham, 2018.
[16] Per un’analisi comparata si veda, G.B. EYDAL, T. ROSTGAARD (a cura di), Handbook of Family Policy, cit.; C. SARACENO, An Advanced Introduction to family policy, Edward Elgar, Cheltenham, 2022.
[17] S. LEITNER, Varieties of familialism, cit.; A. HEMERIJCK, Changing Welfare States, Oxford University Press, Oxford, 2012; S. HÄUSERMANN, The multidimensional politics of social investment in conservative welfare regimes: family policy reform between social transfers and social investment, in Journal of European Public Policy, 2018, 25(6), 862-877. C. SARACENO, An Advanced Introduction to family policy, cit.
[18] E. FERRAGINA, Does Family Policy Influence Women’s Employment?, cit.; L. BOECKMANN, J. MISRA, M. BUDIG, Cultural and Institutional factors shaping mothers’employment and working hours in postindustrial countries, in Social Forces, 93, 2015, 1301-1333.
[19] Per un’analisi sugli assegni in chiave comparata si veda C. SARACENO, Politiche per le famiglie e disuguaglianze, in Politiche Sociali, 2020, 1, 103-124; C. SARACENO, Politiche per le famiglie, in Parolechiave, 2020, 2, 71-83.
[20] Per il caso italiano facciamo riferimento ai cosiddetti incapienti, ovvero i soggetti che hanno un reddito che non supera gli 8.000 euro e sul quale non viene applicata l’IRPEF. Poiché il fisco italiano restituisce ciò che prima ha trattenuto in materia di IRPEF, coloro a cui non viene applicata l’IRPEF, non potranno godere – o solo in parte – delle detrazioni per i figli a carico. Si veda: C. SARACENO, Politiche per le famiglie e disuguaglianze, cit; C. SARACENO, An Advanced Introduction to family policy, cit.
[21] C. SARACENO, L’assegno unico universale: che cosa cambia nel sostegno economico alle famiglie con figli, in Politiche Sociali, 2022, 1, 135-140.
[22] W. VAN LANCKER, J. HOREMANS, Childcare policies and in-work poverty, cit.
[23] C. SARACENO, Politiche del lavoro e politiche della famiglia: un’alleanza lunga e problematica, in Lavoro e diritto, 2001, 15(1), 37-54; F. COLONNA, S. MARCASSA, Se il fisco scoraggia il lavoro delle donne, in inGenere.com., 2012.
[24] Ibidem; P. BARBIERI, G. CUTULI, M. TOSI, Famiglie, mercato del lavoro e rischi sociali. Nascita di un figlio e rischi di transizione alla povertà tra le famiglie italiane, in Stato e Mercato, 2012, 96(3), 391-428; A. OCCHINO, Povertà e lavoro atipico, in Lav. dir., 2019, 33(1), 103-127; W. VAN LANCKER, J. HOREMANS, Childcare policies and in-work poverty, cit.
[25] Per una discussione sull’effetto dei congedi parentali sul tasso di occupazione femminile si veda E. FERRAGINA, Does Family Policy Influence Women’s Employment?: Reviewing the Evidence in the Field, in Political Studies Review, 17(1), 2019, 65-8.
[26] H. MANDEL, Rethinking the paradox: tradeoffs in work-family policy and patterns of gender inequality, in Community, Work & Family, 14(2), 2011, 159-176.
[27] C. SARACENO, Politiche per le famiglie, cit.
[28] S. HÄUSERMANN, The multidimensional politics of social investment in conservative welfare regimes, cit.
[29] Dipartimento per le politiche della famiglia, Nidi e servizi educativi per l’infanzia. Stato dell’arte, criticità e sviluppi del sistema educativo integrato 0-6, giugno 2020.
[30] S. HÄUSERMANN, The politics of old and new social policies, in G. BONOLI AND, D. NATALI (a cura di), The New Welfare State in Europe (111-132), Oxford University Press, Oxford, 2012.
[31] K.J. MORGAN, Promoting social investment through work–family policies: which nations do it and why?, in N. MOREL, B. PALIER, J. PALME (a cura di), Toward a social Investment Welfare State?, The Policy Press, Bristol, 2012, 153-180.
[32] Ci concentriamo sul periodo pre-pandemia, poiché per il periodo successivo alla crisi pandemica i dati non sono ancora disponibili su Eurostat-SILC.
[33] Si veda ad esempio: A. OCCHINO, Povertà e lavoro atipico, in Lav. dir., cit.; V. FERRARIS, Una lettura economica del lavoro povero, in Lav. dir., 2019, 33(1), 51-61.
[34] M. RAITANO, M. JESSOULA, E. PAVOLINI, M. NATILI (2019), ESPN Thematic Report on In work poverty – Italy, European Social Policy Network (ESPN), Bruxelles.
[35] F. PETRACCI, A. MARIN, Lavoro autonomo, lavoro subordinato, lavoro agile. Le novità introdotte dal Jobs Act e dal disegno di legge 2233/2016, Key Editore, Vicalvi, 2016.
[36] Si veda ad esempio: A. OCCHINO, Povertà e lavoro atipico, cit.; V. FERRARIS, Una lettura economica del lavoro povero, in Lav. dir., cit.; P. BARBIERI, G. CUTULI, M. TOSI, Famiglie, mercato del lavoro e rischi sociali, cit.
[37] ISTAT, Occupati e disoccupati – dicembre 2020, in ISTAT.it; S. HÄUSERMANN, T. KURER, H. SCHWANDER, High-skilled outsiders? Labor market vulnerability, education and welfare state preference, in Socio-Economic Review, 2015, 13:2, 235 ff.
[38] C. KAZEPOV, C. RANCI, Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case, cit.
[39] Si veda: S. PONTHIEUX, Gender and in-work poverty, cit.; V. FERRARIS, Una lettura economica del lavoro povero, cit.
[40] M. CARANNANTE, E. MORLICCHIO, G. SCEPI, Il modello italiano di povertà nei quarant’anni di vita della Rivista, in Autonomie locali e servizi sociali, 2017, 3, 581-591.
[41] Si veda, ad esempio: N. NEGRI, C. SARACENO, Povertà, disoccupazione ed esclusione sociale, in Stato e Mercato, 2000, 59(3), 175-210; P. SARACENO E C. SARACENO, Contro le disuguaglianze insostenibili: non solo Welfare, in Il Mulino, 2019, 2, 254-261.
[42] M. FERRERA, V. FARGION, M. JESSOULA, Alle radici del Welfare all’Italiana, Padova, Marsilio, 2012.
[43] S. LEITNER, Varieties of familialism, cit.
[44] C. SARACENO, Le politiche della famiglia in Europa, cit.
[45] G. ESPING-ANDERSEN, The incomplete revolution, cit.
[46] ISTAT, Matrimoni e unioni civili in forte calo, in lieve diminuzione anche i divorzi, 2019, in istat.it.
[47] C. SARACENO, Politiche per le famiglie e disuguaglianze, cit.
[48] Ibidem.
[49] Ibidem; M. RAITANO, M. JESSOULA, E. PAVOLINI, M. NATILI (2019), ESPN Thematic Report on In work poverty, cit.
[50] P. BARBIERI, G. CUTULI, M. TOSI, Famiglie, mercato del lavoro e rischi sociali, cit.; R. DI BIASE, Gli assegni familiari in Italia: effetti redistributivi, in Riv. pol. soc., 2010, 1, 259-92.
[51] Ibidem; C. SARACENO, La resistibile ascesa della disuguaglianza, in Filosofia politica, 2020, 1, 79-94.
[52] C. SARACENO, L’assegno unico universal, cit.
[53] Ibidem.
[54] M. BIAGETTI, V. FERRI, F. FIGARI, S. MARSIGLIA, Famiglie, l’assegno unico non basta, in inGenere.com, 2022.
[55] Ibidem.
[56] F. COLONNA, S. MARCASSA, Se il fisco scoraggia il lavoro delle donne, cit.
[57] C. SARACENO, L’assegno unico universali, cit.
[58] M. BIAGETTI, V. FERRI, F. FIGARI, S. MARSIGLIA, Famiglie, l’assegno unico non basta, cit.
[59] C. SARACENO, Politiche per le famiglie e disuguaglianze, cit.
[60] C. SARACENO, An Advanced Introduction to family policy, cit.
[61] C. KAZEPOV, C. RANCI, Is every country fit for social investment? Italy as an adverse case, cit.
[62] Dipartimento per le politiche della famiglia, Nidi e servizi educativi per l’infanzia, cit.
[63] Si veda M.A. CONFALONIERI, L. CANALE, Le politiche di conciliazione famiglia-lavoro, in E. GUALMINI, V. FARGION (a cura di), Tra l’incudine e il martello, Il Mulino, Bologna, 2012, 193-132.
[64] In Calabria e Sicilia il tasso di copertura è del 10%.
[65] Dipartimento per le politiche della famiglia, Nidi e servizi educativi per l’infanzia, cit.
[66] F. DOTA, S. ORSINI, Chi non va al nido? Il rischio di povertà educativa nella prima infanzia, in Neodemos.info.
[67] Dipartimento per le politiche della famiglia, Nidi e servizi educativi per l’infanzia, cit.
[68] Ibidem.
[69] Ibidem.
[70] P. PIERSON, T. SKOCPOL, Historical institutionalism in contemporary political science, in I. KATZNELSON, H.V. MILNER (a cura di), Political Science: The State of the Discipline, Norton, New York, 2002.
[71] K.J. MORGAN, Promoting social investment through work-family 153 policies, cit.
[72] S. SABATINELLI, Verso il sistema integrato 0-6 anni, in Welfaorum.it, 2017.
[73] C. SARACENO, E. PAVOLINI, Ma i nidi non sono strumento di pari opportunità, in Lavoce.it, 2017.
[74] C. TRIGILIA, Mezzogiorno, serve un’agenzia per aiutare i comuni a spendere i soldi del Pnrr, in Domani, 14 maggio 2022.
[75] S. SABATINELLI, I servizi 0-6 nel PNRR: un’occasione irripetibile, in Welfaorum.it, 2021.
[76] Ibidem.