Nel saggio si esaminano le modifiche alla disciplina processuale dei licenziamenti di cui alla legge n. 206/2021, in particolare con riguardo al superamento del rito Fornero, alle controversie in tema di discriminazioni e di lavoro cooperativo.
Parole chiave: processo – licenziamenti- discriminazioni – lavoro cooperativo.
The essay examines the changes to the procedural discipline of dismissals referred to in delegated Law n. 206 del 2021, in particular with regard to the overcoming of the Fornero rite, to disputes on discrimination and cooperative work.
Keywords: Process – dismissal – discrimination – cooperative work.
1. Ancora una riforma del processo civile - 2. Il tramonto del c.d. rito Fornero sulle controversie in tema di licenziamenti - 3. Le questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro - 4. Le controversie sulle discriminazioni - 5. La corsia preferenziale - 6. Le sofferte vicende interpretative delle controversie sui licenziamenti nelle cooperative - 7. La nuova disciplina di delega in quest’ultima materia - NOTE
Affidato, ora, ad una legge di delegazione, con poche disposizioni, che qui non interessano, non bisognose di decreti attuativi il tormento del processo continua, spinto dall’idea che alla sua inefficienza possa ovviarsi attraverso la modifica delle regole processuali; un’idea ora accompagnata, però, come fu per la prima volta con la legge n. 533/1973 [1], da una diversa misura organizzativa, l’ufficio per il processo, che ci si può permettere, così sottraendosi alla mannaia delle riforme a costo zero, per le risorse date dall’ormai famosissimo PNRR [2]. Nel frattempo, le misure dettate dalla legislazione della pandemia, pur lontane dai principi chiovendiani immanenti alla legge n. 533, hanno assicurato la salvezza – direi la sopravvivenza – del processo e pertanto sono tra le modifiche che personalmente apprezzo pur a bocca amara, e non condivido affatto l’obiter dictum contenuto in Cass., ord. 10 novembre 2021, n. 33175, che, in una controversia in materia di separazione tra coniugi, si badi bene, ha affermato l’incompatibilità del c.d. rito cartolare con il processo del lavoro, e ciò con ordinanza della sezione VI! Per il resto, continuo a ritenere [3] che le regole processuali dovrebbero essere lasciate in pace (la frenesia legislativa soprattutto dell’ultimo decennio mi ha fatto maturare l’idea che l’immobilismo in certi periodi, persino in quelli tumultuosamente in movimento come gli attuali, non sia poi così male); che l’efficienza del processo dipenda da altro [4]; che del resto l’efficienza di per sé non sia un valore, ma lo sia, e di cruciale importanza malamente trascurata per tanto tempo dal sistema giudiziario, solo se finalizzata all’effettività dei diritti o ad altri valori e non alle sole ragioni, pure degne di considerazione, di tipo economicistico. Ragioni che hanno in prevalenza animato gli interventi normativi processuali (e non solo) del corrente secolo, per quel che riguarda le controversie di lavoro specie in materia di licenziamenti, e che, assorbite a volte burocraticamente, non hanno risparmiato la conduzione del processo da parte di giudici del lavoro. Faccio poi ricorso all’ottimismo della volontà per credere nelle virtù salvifiche dell’istituto dell’ufficio per il processo, che peraltro al nord del paese sta trovando grandi [continua ..]
Questo non significa che, come i più, non apprezzi che si voglia porre fine al famoso – direi famigerato stante la miriade di problemi complicati e delicati che ha posto e pone – rito Fornero (art. 1, commi 47 ss., legge n. 92/2012) il cui ambito di applicazione il d.lsg. n. 23/2015 ha ridimensionato dando però vita ad una delle stravaganze processuali (se non vogliamo chiamarle ingiustizie, o come detto con maggiore eleganza nella relazione finale dei lavori della commissione Luiso istituita con d.m. 21 marzo 2021 presso il Ministero della giustizia [5], “di dubbia compatibilità con il principio di ragionevolezza”) più clamorose, quella di distinguere le regole in ragione della data di origine dei rapporti di lavoro (lo spartiacque del 7 marzo 2015). Un rito che sembrava moribondo nel 2016 quando fu approvato alla camera il disegno di legge delega n. 2953, approdato in senato con il n. 2284, che ne prevedeva la immediata abrogazione ma che è poi rimasto lettera morta a seguito delle successive vicende politiche. Ora, lo accennavo, vi è una legge (26 novembre 2021, n. 206), che tocca anche qualche aspetto [6] delle controversie di lavoro cui però si aggiungono le regole del processo civile ordinario ove non derogate da quelle speciali del processo del lavoro, che, come è noto, non è autosufficiente; in particolare tocca le norme delle controversie in materia di licenziamenti (art. 1, comma 11) [7]. Si tratta di modifiche ispirate ai lavori della Commissione Luiso e al disegno n. 2284 cit., e che, a differenza di quanto previsto dal citato disegno di legge, vanno riempite di contenuti dai decreti delegati nel rispetto dei principi e criteri direttivi dalla legge stessa fissati e i quali pertanto avranno rilievo decisivo. Si deve ritenere delegato l’abbandono del rito Fornero. Il testo, in parziale conformità a quello licenziato dalla Commissione Luiso, dice di unificazione e coordinamento della disciplina dei procedimenti d’impugnazione dei licenziamenti (per il vero il testo della predetta Commissione faceva riferimento alla sola unificazione [8]) e non di abrogazione, quest’ultima contemplata invece espressamente dalla Commissione [9] e dal disegno di legge n. 2284. Ciò sembrerebbe poter comportare anche la permanenza del solo rito Fornero esteso ai licenziamenti in regime di c.d. tutele crescenti. Ma da quanto [continua ..]
L’ unificazione ed il coordinamento deve comprendere, come previsto nella legge, i casi in cui vadano risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto. Una analoga dizione era contenuta nella legge n. 92/2012 ed il significato andava inteso, come ha ritenuto condivisibilmente la corte di cassazione, quale formula esplicativa della “volontà del legislatore di non precluderne l’utilizzo per barriere imposte dall’apparenza della forma” [14]: Non ha quindi giustamente trovato conforto la formalistica giurisprudenza espressa ad esempio da Trib. Milano, ord. 25 ottobre 2012 [15]secondo cui il ricorso proposto con le forme di cui all’art. 1, comma 48, legge n. 92/2012, avente ad oggetto la reintegrazione presso un datore di lavoro diverso da quello che formalmente risulta essere il datore di lavoro del ricorrente, va dichiarato inammissibile in quanto richiede un accertamento estraneo all’ambito di applicazione del nuovo rito speciale. Qui la direttiva per il legislatore delegato potrebbe apparire superflua se si considera il solo rito ex lege n. 533/1973 posto che quest’ultima sarebbe in ogni caso applicabile; non lo è però se si considerano i riti speciali per le discriminazioni cui pure la legge dedica attenzione con lo stabilire, in conformità al d.l. n. 2284 (art. 2, comma 5) e ai lavori della Commissione Luiso (art. 7, comma 5), il criterio electa una via altera non data e cioè precludendo la proposizione della stessa controversia con rito diverso così evitando il sorgere di problemi che si erano posti con la legge n. 92.
A proposito delle controversie in tema di discriminazioni è opportuno fare alcune osservazioni: A) La natura sostanziale dell’alleggerimento dell’onere della prova per le (sole) discriminazioni nominate – si rammenta che non a caso la disciplina generale sull’onere della prova è contenuta nel codice civile (art. 2697), che ammette anche la stipulazione di patti diretti a modificarlo [16] e nella cui relazione, al n. 6, 5° capoverso, si legge di “norme apparentemente processuali” [17] – induce a ritenere che tale misura operi anche quando il rito utilizzato sia stato altro [18]. Non vi è del resto ragione per legare al tipo di procedimento una misura la cui logica è piuttosto correlata dal diritto dell’Unione europea alle posizioni giuridiche tutelate (v. art. 8 direttiva 2000/43, art. 10 direttiva quadro 2000/78; altresì Corte Giust. CE, 27 ottobre 1993, n. 127/92; 17 ottobre 1989, n. 109/88) [19]. Mi sento poi di dire che lo stesso è per quel che riguarda la peculiare sanzione risarcitoria prevista dall’art. 28, comma 5, d.lgs. n. 150/2011 e dall’art. 37, comma 4, d.lgs. n. 198/2006, nonostante le sedi che la contemplano e pur se gli enunciati normativi facciano riferimento all’ordinanza e, rispettivamente, al decreto. Infatti, se la sanzione è la risposta dell’ordinamento ad un comportamento illegittimo, ciò deve prescindere dal mezzo che tale comportamento accerta. Quanto alla forma del provvedimento che deve infliggerla, si dice di ordinanza perché è appunto l’ordinanza che definisce in primo grado il procedimento e che è poi appellabile (e il giudice d’appello decide con sentenza che ovviamente potrà contenere la statuizione risarcitoria e che per questo fa capire lo scarso valore del dato formale). E si dice di decreto perché il d.lgs. n. 198 cit. considera la sanzione già nella fase sommaria; sanzione che però può essere inflitta anche nella fase d’opposizione e in grado d’appello, che si chiudono entrambe con sentenza. Non si deve d’altronde dimenticare che anche in questo caso il diritto eurounitario [20] prescinda dalla forma processuale con la quale la tutela viene assicurata al soggetto danneggiato. Forse un discorso analogo può essere fatto anche circa alcune misure processuali quali [continua ..]
Scarna è l’indicazione di quella che nel gergo si definisce “corsia preferenziale”, affidata alla formula “abbia carattere prioritario” sulla falsariga delle indicazioni della Commissione Luiso. La corsia preferenziale è qui riservata alle cause di licenziamento in cui sia proposta domanda di reintegrazione e non a quelle di cui all’art. 18 st. lav. come diceva invece la legge Fornero la quale così creava ingiustificate disparità di trattamento tra cause volte tutte a far ottenere somme di denaro sulla base dell’entità delle stesse. Continuo però ancora a non convincermi, anche alla stregua dell’odierna formula, che lo svantaggiato sul piano sostanziale debba esserlo anche sul piano processuale. La formula, dicevo, è scarna; lo era meno quella prevista dalla legge n. 92, dalla Commissione Luiso e dal disegno di legge n. 2284. Una disciplina più dettagliata potrà esserci – e lo si auspica – nei decreti delegati, magari anche con riguardo alle conseguenze e alle responsabilità della eventuale violazione.
A parte quanto detto circa l’abrogazione del rito speciale, l’aspetto di maggiore rilievo della riforma delegante sembra riguardare le controversie sui licenziamenti nelle cooperative; tema, questo, che ha tormentato gli interpreti [21] a seguito della modifica della legge n. 142/2001 da parte della legge n. 30/2003 che ha aperto crepe nell’idea di fondo della legge n. 142: la duplicità di rapporto societario e rapporto di lavoro (“ulteriore e distinto”) con le relative conseguenze sul piano processuale e sostanziale [22]. In particolare, la legge n. 142 superava la tesi unitaria delle sezioni unite della corte di cassazione che conduceva ad affermare che qualora in una cooperativa di produzione e lavoro l’attività svolta dal socio si traducesse in prestazioni volte a consentire alla cooperativa il raggiungimento dei suoi fini istituzionali con esclusione di ogni concomitante prestazione del socio in favore della società esorbitante dall’oggetto sociale, i rapporti fra le parti trovassero fondamento nel contratto di società e solo in esso, dovendosi escludere la sussistenza non solo di un rapporto di lavoro subordinato ma anche di parasubordinazione (art. 409 c.p.c.) pure questa implicando un rapporto tra due centri di interessi distinti; con la conseguenza, che in particolare interessa in questa sede, che le controversie insorte tra società e socio non rientrassero nella competenza dell’allora pretore in funzione di giudice del lavoro salvo che si deducesse l’esistenza non pretestuosa di rapporto di lavoro subordinato [23]. Tesi poi, quasi dieci anni dopo sempre le sezioni unite, ferma la affermazione dell’unicità del rapporto cooperativo e della sua natura associativa, lo avevano equiparato ai fini della competenza del pretore alle controversie di cui all’art. 409, n. 3 in considerazione della progressiva estensione ad esso di istituti e discipline propri del lavoro subordinato [24]. La legge n. 30 cit. ha aperto, si è accennato, crepe nel tessuto normativo del 2001 [25] sia sul fronte sostanziale che su quello processuale, eliminando dal testo l’aggettivo “distinto” e utilizzando, nell’attribuire la competenza al tribunale ordinario (nel frattempo le preture erano state soppresse), una formula – le cause inerenti la prestazione mutualistica – che ha dato luogo a forti [continua ..]
Sugli aspetti sostanziali la delega della legge n. 206 cit. ha taciuto e forse sarebbe stata invece opportuna qualche parola. La legge è invece intervenuta sul piano processuale disponendo, all’art. 1, comma 11, lett. b), che “le azioni d’impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative, anche ove consegua la cessazione del rapporto associativo, siano introdotte con ricorso ai sensi degli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile”. L’ enunciato, che all’apparenza sembra disciplinare il solo rito, prevede invece anche la competenza del tribunale in funzione del giudice del lavoro – è cioè esclusa la competenza del giudice di pace – posto che tra le disposizioni seguenti al richiamato art. 409 vi è l’art. 413, che, dopo la modifica introdotta dall’art. 82 d.lgs. n. 51/1998, dispone che le controversie di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie vadano trattate dal tribunale con le peculiari regole anche di competenza territoriale. In parte qua, pertanto, ma solo in parte qua, deve intendersi circoscritta la delega, la quale per il resto non consente di intervenire sull’art. 9 d.l. n. 30 cit.: resterà, allora che “le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”, con tutte le incertezze che hanno travagliato gli interpreti [35]. Può invece, forse, con la generosità con cui la corte costituzionale valuta l’eccesso di delega, sostituirsi nel testo in sede attuativa l’articolo “la” con la preposizione “alla”, posto che “alla cessazione del rapporto di lavoro non ‘consegue’ la cessazione di quello associativo, poiché, infatti, può avvenire solo l’esatto contrario” [36]. Laddove, inoltre, sia impugnata la sola delibera d’esclusione del socio lavoratore anche se la stessa contenga il licenziamento non vi è ragione per cui la cognizione della controversia non appartenga al tribunale delle imprese, stante l’art. 9 cit., che, lo si ripete, è in parte tuttora in vita [37]. C’ è comunque da chiedersi se non sia il caso di specificarlo in sede attuativa. In definitiva, l’auspicio è che anche il processo dei licenziamenti abbia a trovare pace.