Dopo aver ricostruito i limiti che presiedono all’esercizio del potere di recesso datoriale alla luce delle definizioni di “disabilità” e di “accomodamenti ragionevoli” di derivazione sovranazionale, il saggio si sofferma sulla necessità di rileggere la disciplina speciale in un’ottica antidiscriminatoria, anche al fine di determinare le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione degli obblighi che gravano sul datore.
Parole chiave: sopravvenuta inidoneità alle mansioni – disabilità – obbligo di repechage – obbligo di accomodamenti ragionevoli - licenziamento.
The essay focuses on the limits to the power of dismissal, as a consequence of the supranational definitions of the concepts of “disability” and “reasonable accommodation”, highlighting the need to re-read the specific discipline from an anti-discrimination perspective, also in order to determine the sanctioning consequences deriving from the violation of the obligations imposed on the employer.
Keywords: unexpected unfitness for the job – disability – obligation to repechage – obligation to reasonable accommodation – dismissal.
1. La sopravvenuta inidoneità e/o disabilità come motivo “autonomo” di licenziamento - 2. I limiti che presiedono l’esercizio del potere di recesso datoriale - 3. La necessità di rileggere la disciplina della sopravvenuta inidoneità alla luce del diritto antidiscriminatorio - 4. La necessità di individuare le conseguenze sanzionatorie della violazione dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli in maniera coerente con la loro ratio antidiscriminatoria - 5. Il rapporto-raccordo tra l’obbligo di accomodamenti ragionevoli e gli altri obblighi esistenti (in particolare quello di repechage) negli orientamenti giurisprudenziali - NOTE
L’esigenza di porre fine a un rapporto di lavoro per motivi legati alla propria organizzazione, quale conseguenza di una legittima scelta imprenditoriale di modifica dei propri assetti (art. 41 Cost.), è prevista dall’art. 3 della legge n. 604/1966, il quale richiede che il datore agisca nel rispetto dei limiti che la giurisprudenza ha contribuito a delineare, quali l’effettività delle ragioni addotte a sostegno del licenziamento, il nesso di causalità rispetto alla posizione lavorativa da sopprimere e l’adempimento dell’obbligo di repechage [1]. In passato, la nozione di giustificato motivo oggettivo ha consentito di inquadrare al suo interno, con l’applicazione dei medesimi limiti, il licenziamento per sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni, quale ipotesi di risoluzione del rapporto giustificata dall’esigenza di tutelare l’interesse del datore al funzionamento della sua attività produttiva, nei casi in cui non vi fosse un comportamento addebitabile lavoratore [2]. Quella soluzione qualificatoria si era delineata nell’assenza di una disciplina specifica, e ha avuto il merito di portare all’abbandono dell’orientamento precedente che riconduceva la fattispecie a quella dell’impossibilità sopravvenuta di matrice civilistica. Tuttavia, con l’emanazione della legge n. 68/1999, e poi con l’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008, il licenziamento per sopravvenuta inidoneità e/o disabilità ha avuto una sua disciplina specifica. Nonostante il tradizionale richiamo alla nozione di giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966 [3], nessuna disposizione normativa speciale contiene siffatto rinvio. Le regole che presiedono al licenziamento del lavoratore inidoneo e/o disabile sono qualitativamente e quantitativamente diverse, e impongono il rispetto di limiti maggiori di quelli che regolano i licenziamenti per “altri” motivi oggettivi, quali appunto quelli c.d. “economici”, condividendo con questi ultimi (solo) la considerazione del recesso quale extrema ratio. A dimostrazione del fatto che si sia in presenza di una fattispecie a sé, laddove non bastasse considerare la disciplina specifica, anche le riforme dei regimi sanzionatori compiute dalla legge n. 92/2012 e dal d.lgs. n. 23/2015, nello scomporre le tutele in base al motivo di [continua ..]
L’ordinamento contempla quattro ipotesi di tutela, di cui due risultano regolate da normative di carattere generale e due da una normativa settoriale. La legge n. 68/1999, recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” (la prima ad essere stata emanata in ordine di tempo), nel disciplinare il sistema di collocamento c.d. mirato, prevede due situazioni: quella del lavoratore assunto in via ordinaria, la cui sopravvenuta inidoneità porti al superamento delle soglie richieste dall’art. 1 comma 1 (regolata dall’art. 4, comma 4); e quella del lavoratore già disabile, assunto tramite collocamento mirato, che veda aggravarsi il proprio stato di salute nel corso del rapporto oppure che risulti non più idoneo allo svolgimento della mansioni in conseguenza di significative variazioni apportate dal datore all’organizzazione del lavoro (art. 10, comma 3) [5]. In seguito, l’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008 [6] ha esteso le (medesime) tutele a un’altra categoria, quella degli assunti in via ordinaria che divengano inabili allo svolgimento delle mansioni originarie, ma senza riportare una disabilità. Tuttavia, a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 216/2003, all’interno di quest’ultima categoria vanno distinti i lavoratori assunti in via ordinaria divenuti inabili allo svolgimento delle mansioni a causa di una disabilità, secondo la definizione di derivazione internazionale, i quali, oltre a essere protetti dall’art. 42 cit., beneficiano anche della tutela antidiscriminatoria [7]. Di fatti, ai limiti al potere di recesso datoriale tipizzati dalle suddette discipline speciali devono essere aggiunti quelli derivanti dal recepimento della direttiva europea n. 78/2000 ad opera del d.lgs. n. 216/2003 [8], i quali trovano applicazione in tutti i casi in cui l’inidoneità derivi da una condizione di disabilità in senso bio-psico-sociale, secondo la nozione di cui alla Convenzione ONU del 2006 (recepita con la legge n. 18/2009) [9]. Tali ulteriori limiti consistono nel divieto di discriminazione diretta e indiretta in ragione della disabilità (tale fattore di discriminazione è stato incluso, insieme ad altri, nell’elenco di cui all’art. 15 Stat. lav.) e nel c.d. obbligo di accomodamenti ragionevoli (in realtà, inserito al comma 3-bis dell’art. 3 del d.lgs. n. 216/2003 in [continua ..]
Le questioni interpretative che oggi si pongono alla nostra attenzione con riguardo alle conseguenze della violazione dell’obbligo di attuare gli accomodamenti ragionevoli derivano da fatto che il (variegato) panorama normativo, composto dall’art. 4 e dall’art. 10 della legge n. 68/1999, nonché dall’art. 42 del d.lgs. n. 81/2008, è stato emanato, e si è consolidato, in un momento precedente persino alla affermazione della disabilità quale fattore di discriminazione vietato, impedendo fino in fondo di considerare almeno la fattispecie del licenziamento per sopravvenuta disabilità in modo autonomo rispetto al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge n. 604/1966, e, appunto, in un’ottica antidiscriminatoria. Le stesse riforme dei regimi sanzionatori, le quali hanno disciplinato (e diversificato rispetto alla illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo “in senso stretto”) le conseguenze della violazione dei limiti al potere di recesso con specifico riferimento alla violazione degli artt. 4 comma 4 e 10, comma 3, della legge n. 68/1999, non si sono fatte del tutto portatrici dei principi derivanti dalle fonti sovranazionali [27]. Il loro recepimento ha rappresentato un passaggio fondamentale nell’evoluzione del diritto al lavoro per le persone disabili, ma il processo di adeguamento è durato per ben un decennio (2003-2013) [28]. Pertanto, i limiti al potere di recesso e le conseguenze della loro violazione devono essere riletti alla luce della descritta evoluzione normativa [29], la quale ha determinato un vero e proprio cambio di paradigma, in virtù del quale il diritto al lavoro delle persone disabili deve essere teso alla garanzia del principio di uguaglianza e alla parità di trattamento [30]. Senza che si possa intravedere una finalità assistenziale, esclusa in radice dal considerando n. 17 della direttiva europea 78/2000 [31], l’attuazione dei principi di derivazione sovranazionale passa dalla consapevolezza della necessaria collaborazione del datore, al quale è imposto di valutare la possibilità di ricorrere a ogni rimedio ragionevole, di carattere organizzativo e tecnico, al fine di consentire l’accesso e il mantenimento del lavoro [32]. Il d.lgs. n. 216/2003 ha una dichiarata finalità antidiscriminatoria e, dalla sua [continua ..]
La questione, che non sembra essere stata finora risolta in modo appagante [37], attiene alle conseguenze della violazione dell’obbligo (e, dunque, del rifiuto) di attuare gli adattamenti quando sono possibili. Il d.lgs. n. 216/2003 tace in proposito, e, allo stesso modo, la legge n. 92/2012 (peraltro entrata in vigore prima dell’introduzione dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli) e il d.lgs. n. 23/2015, che hanno rimodulato le sanzioni applicabili in caso di licenziamento intimato in violazione delle norme speciali in tema di sopravvenuta inidoneità e/o disabilità, non contengono un riferimento espresso al d.lgs. n. 216/2003, ma bensì agli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge n. 68/1999 [38]. L’impressione è che la legge n. 92/2012 e, in parte, il d.lgs. n. 23/2015, siano rimasti ancorati alla qualificazione della fattispecie in termini di giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge n. 604/1966, senza tenere in debita considerazione come l’evoluzione normativa l’abbia ormai “sganciata”, sul piano sostanziale, da quella nozione. Sintomatico di tale retaggio è il fatto che l’art. 18, comma 7, Stat. lav. faccia riferimento al “difetto di giustificazione del licenziamento intimato … per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, così come anche l’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 23/2015 fa riferimento a un “difetto di giustificazione” del licenziamento “per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore” [39]. Invero, nonostante una proposta di lettura costituzionalmente orientata secondo cui i termini “inidoneità” e “disabilità” sarebbero usati dal legislatore come sinonimi [40], sul piano letterale le due norme sono differenti [41]. L’art. 18, comma 7, Stat. lav. (in effetti, enucleato prima che l’obbligo di adottare accomodamenti ragionevoli fosse trasposto nel nostro ordinamento), pur confermando il tradizionale inquadramento della sopravvenuta inidoneità alle mansioni nell’ambito del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ha attribuito una maggiore gravità al comportamento del datore che violi la speciale disciplina protettiva di tutela dei lavoratori più fragili, prevedendo l’applicazione della [continua ..]
Finora, la ricostruzione proposta non pare essere stata seguita dalla giurisprudenza. Con riguardo a casi rientranti nel campo d’applicazione dell’art. 18 Stat. lav. modificato dalla legge n. 92/2012, a parte qualche pronuncia di merito che alla violazione dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli ha fatto seguire le tutele dell’art. 18, comma 1 [53], la Corte di Cassazione sembra confermare l’applicazione del regime sanzionatorio di cui all’art. 18, comma 4 [54]. La questione centrale attiene al rapporto/raccordo tra l’obbligo di accomodamenti ragionevoli e gli altri obblighi esistenti, in particolare quello di repechage, il quale ha da sempre rappresentato l’elemento qualificante della sopravvenuta inidoneità e/o disabilità ex artt. 4, comma 4, della legge n. 68/1999 e 42, del d.lgs. n. 81/2008. Secondo una prima ricostruzione, l’obbligo di accomodamenti ragionevoli ha integrato la nozione di giustificato motivo oggettivo per le persone disabili, aggiungendosi all’obbligo di repechage, intensificandolo [55]. Per questa impostazione, l’obbligo di accomodamento ragionevole configura un ulteriore elemento della nozione di giustificato motivo oggettivo e concorre con le discipline specifiche a delineare i limiti al potere di recesso datoriale; pertanto, se il datore non dimostra di aver valutato concretamente, seppure con esito negativo, la possibilità di attuare soluzioni ragionevoli praticabili nell’ambiente lavorativo, il licenziamento è illegittimo e il giudice condanna il datore applicando le sanzioni previste per la violazione della disciplina speciale in tema di sopravvenuta inidoneità o disabilità, ovvero le sanzioni ricollegate alla violazione dell’art. 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge n. 68/1999 (che, nell’ambito dell’art. 8 legge n. 604/1966 comportano la tutela obbligatoria, nell’ambito dell’art. 18 Stat. lav. comportano la tutela reintegratoria attenuata e nell’ambito del d.lgs. n. 23/2015 comportano la tutela reintegratoria piena) [56]. Invece, per un’altra impostazione l’obbligo di accomodamenti ragionevoli è collocato al di fuori della nozione di giustificato motivo oggettivo, la quale resta immutata, mantenendo l’obbligo di repechage quale elemento qualificante [57]. Tale impostazione considera l’obbligo di [continua ..]