L’articolo analizza, sotto il profilo del diritto del lavoro, il rapporto tra le società pubbliche e le amministrazioni pubbliche controllanti.
Gli atti di indirizzo adottati dagli enti pubblici sulle società controllate incidono direttamente sul rapporto di lavoro e sulla sua regolamentazione economica, ad esempio imponendo limiti retributivi.
Alla luce di ciò, l’articolo esamina l’evoluzione delle norme in materia, soffermandosi anche su un’interessante decisione della Corte di Cassazione (n. 22073/2020) che ha riconosciuto l’efficacia vincolante di una legge regionale che fissa un tetto salariale per le società pubbliche locali. Infine, il saggio analizza la complessa struttura della governance societaria di queste aziende, come stabilita dal Testo Unico n. 175/2016, tenendo conto del ruolo parzialmente limitato della contrattazione collettiva.
Parole chiave: – società pubbliche – pubblica amministrazione – atti di indirizzo – limiti retributivi – governance societaria – contrattazione collettiva.
The article analyzes, from a labour law point of view, the relation between State-owned enterprises and public administrations that exercise control.
Binding guidelines adopted by public bodies on the controlled companies directly affect the employment relationship and its economic regulation, e.g. imposing a maximum wage.
In light of that, the paper examines the evolution of legal rules concerning this issue, focusing also on an interesting decision of the Italian Supreme Court (no. 22073/2020) that recognized the binding effect of a regional act setting a maximum wage for the local State-owned enterprises. Lastly, the article analyzes the complex corporate governance structure of these companies, as established by the Consolidated Act no. 175/2016, taking into account the partially limited role of collective bargaining.
Keywords: – State-owned enterprises – Public administration – binding guidelines – maximum wage – corporate governance – collective bargaining.
1. Introduzione - 2. La corporate governance della società pubbliche - 3. Le norme speciali in tema di politiche retributive - 4. I limiti ai trattamenti economici applicabili alle società pubbliche prima del Tusp - 5. La sentenza della Corte di Cassazione 13 ottobre 2020, n. 22073 e la legislazione regionale quale atto di indirizzo - 6. Il tetto ai compensi ex art. 11, comma 6, Tusp: un caso di inderogabilità in melius della disciplina legislativa - 7. La legittimità costituzionale dei limiti retributivi - 8. I limiti alla contrattazione collettiva e la riduzione degli oneri contrattuali - NOTE
L’analisi delle società pubbliche, come spesso accade alle materie “di confine”, è foriera di una pluralità di questioni teoriche molto alte – e parimenti dalle indubbie ricadute pratico-operative – che sollecitano di continuo l’interprete nella ricerca di soluzioni rispettose degli assetti regolamentativi e che contemperino i differenti interessi, spesso contrapposti, che le norme tutelano. Questa vivacità non deve sorprendere: si tratta del resto di una materia tutt’altro che recente, ma che a seguito dell’intervento legislativo del 2016 (d.lgs. n. 176/2016, Testo unico delle società partecipate, di seguito anche Tusp) ha visto un rinnovato interesse da parte della dottrina [1] la quale ne ha analizzato le principali vicende in senso ampio lavoristiche nell’ambito di un quadro regolativo tuttora frammentato e complesso, all’interno del quale la centralità dell’aspetto economico-erariale informa tutte le disposizioni dettate dal legislatore, anche precedentemente all’emanazione del Tusp, da oltre un quindicennio a questa parte. È proprio a seguito di valutazioni di tal sorta che è originata l’evoluzione legislativa degli anni più recenti; a fronte di una pacifica applicabilità del diritto del lavoro dell’impresa privata vi è stata una (almeno parziale) retromarcia che risponde proprio alla necessità di un più accorto ed efficace utilizzo delle risorse pubbliche: da qui le disposizioni sul reclutamento, non solo quelle che impongono le selezioni ma anche con riferimento ai limiti assunzionali (dapprima, negli anni scorsi, oggetto di una draconiana trasposizione nei confronti della società controllata delle disposizioni applicabili all’ente pubblico socio, ed oggi regolamentato in maniera più flessibile attribuendo una maggior autonomia ai singoli enti), nonché le disposizioni speciali sui limiti retributivi ed il conseguente ruolo dell’autonomia collettiva. Nelle pagine che seguono ci si concentrerà proprio su questi ultimi aspetti: si tratta, di tutta evidenza, di temi dal grande impatto concreto ma che altresì sollecitano riflessioni di ordine sistematico, ad esempio in ordine a una pretesa “funzionalizzazione” dell’autonomia collettiva. L’occasione di questo approfondimento è data anche da [continua ..]
Appare imprescindibile una seppur breve introduzione in tema di c.d. corporate governance [3] delle società pubbliche, al fine di meglio collocare le variegate linee di indirizzo provenienti dall’ente pubblico controllante nei confronti della società stessa, le quali hanno – tra le altre cose – una vasta influenza, quantomeno potenziale, in ordine ad alcuni fondamentali istituti lavoristici. Il rapporto sussistente tra ente pubblico controllante e società controllata è tematica che impegna da sempre la dottrina amministrativista e giuscommercialista: si tratta in definitiva di una questione estremamente complessa che dall’emanazione del Tusp ha trovato ulteriore abbrivio; vi è chi, quasi prendendo atto che quella delle società pubbliche è in realtà una sorta di «non categoria» [4] accomunata dalla sola circostanza – anch’essa a sua volta non riducibile a unitarietà – della natura giuridica del socio, offre una lettura della disciplina che ne ribalta la prospettiva, per cui l’oggetto principale del d.lgs. n. 175/2016 non consisterebbe nel fenomeno societario e nel regime giuridico delle partecipate bensì negli «atti deliberativi di organizzazione delle amministrazioni pubbliche partecipanti» [5]. Questa interpretazione dell’intero sistema che può definirsi “Ente pubblico-centrica”, poiché alla luce della stessa, l’intero contenuto del Tusp andrebbe «letto e inquadrato anzitutto dal punto di vista del ruolo delle Amministrazioni pubbliche» [6], è di utilità nella ricostruzione teorica che qui si avanza, ed evidenzia come le finalità e gli interessi elencati dall’art. 1, comma 2, Tusp, concernendo interessi pubblici che come tali devono essere perseguiti dalle p.a., sono in sostanza finalità riconducibili ai principi di imparzialità e buon andamento ex art. 97 della Costituzione, dal momento che «la natura di diritto privato della società non può modificare la natura pubblica degli interessi che le amministrazioni pubbliche, anche come socie di società, devono soddisfare» [7]. La (fin troppo?) fitta trama regolamentare posta in essere dal legislatore del Tusp con riferimento, in particolare, all’art. 6, il quale detta i principi fondamentali [continua ..]
La trama regolamentativa riguardante le misure di contenimento della spesa pubblica trova nella complessa disciplina dettata dal Tusp una pluralità di elementi di continuità con le disposizioni che hanno caratterizzato l’ultimo decennio di politica legislativa nell’ambito pubblico, latamente considerato; al contempo però l’interprete non può non cogliere alcuni elementi di spiccata novità sia nel campo dei destinatari di quelle misure sia nelle tecniche utilizzate per attuarle. Non muta, in ogni caso, la ratio delle disposizioni: può senza dubbio rintracciarsi un generalizzato disfavore che il legislatore appalesa in ordine alla capacità dell’autonomia privata, tanto individuale quanto collettiva, di regolamentare da sé profili tanto centrali nella dinamica del rapporto di lavoro, a maggior ragione in presenza di un datore di lavoro sui generis quale è la società a controllo pubblico. Di queste articolate norme quella più nota concerne il limite massimo ai compensi, ex art. 11, comma 6, Tusp; ma non vanno altresì obliate le regole che prescrivono limiti alle indennità di fine mandato dei dirigenti delle società in controllo pubblico (ex art. 11, commi 9 e 10), nonché i limiti ai compensi dei componenti di comitati con funzioni consultive (art. 11, comma 13). Vere e proprie “norme di chiusura” di tale micro-sistema, relativo ai limiti delle politiche retributive, sono quelle disposte dal già citato art. 19, commi 5 e 6: nel primo si prescrive all’ente pubblico socio di fissare obiettivi specifici, sul complesso delle spese di funzionamento, comprese quelle per il personale «anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale […] ovvero delle eventuali disposizioni che stabiliscono, a loro carico, divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, tenendo conto del settore in cui ciascun soggetto opera». Il comma 6 dispone che le società a controllo pubblico, destinatarie di quegli obiettivi ne garantiscano il concreto perseguimento «tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, in sede di contrattazione di secondo livello»: degli esiti di una tale direttiva imposta all’autonomia collettiva in seguito si proveranno a tracciare contenuti e confini.
Come si accennava, le disposizioni in tema di vincoli ai trattamenti economici nonché quelle concernenti il c.d. blocco della contrattazione della pubblica amministrazione, sono state un leitmotiv degli ultimi lustri di politica legislativa: per fissare alcuni punti, utili a orientarsi, possiamo citare come capofila di questo trend legislativo il d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (conv. dalla legge 6 agosto 2008, n 133) – sebbene i prodromi di misure di contenimento della spesa per il personale si fossero avuti fin dalla legge n. 266/2005 (legge finanziaria 2006) – e idealmente ritenere conclusa almeno una fase dello stesso a seguito della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 178/2015 [11]. Si tratta di una serie di norme che prevedevano rilevanti limiti, ricomprendenti, ad esempio, disposizioni sulle spese per il turn-over, collocabili a pieno titolo tra le disposizioni più paradigmatiche di quel diritto del lavoro degli anni della crisi economica che, con forme e modalità differenti, ha caratterizzato buona parte del decennio, dovendo fare i conti con le strettoie dei vincoli europei e con la (per certi aspetti conseguente) introduzione nella Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio. Si ricorderà come la succitata sentenza della Corte Costituzionale abbia mosso proprio dalla particolare gravità della situazione economica e finanziaria [12] per valutare la ragionevolezza delle misure di contenimento della spesa per il personale in quel caso sottoposte al suo giudizio, ma al tempo stesso abbia valorizzato – anche al di là della prudenza dell’esito finale [13] – il principio di libertà sindacale e quindi di contrattazione collettiva: proprio tale aspetto è forse dal punto di vista sistematico il lascito più rilevante della sentenza stessa. In ogni caso, a latere di questo filone principale, è bene evidenziare come dapprima con modalità estemporanee e poi, via via, più strutturate, anche (alcune tipologie di) società pubbliche sono state investite da norme non dissimili, che creavano dei raccordi con la disciplina vincolistica applicabile agli enti pubblici controllanti [14]: in alcuni casi si trattava della pretesa trasposizione, sic et simpliciter, dei vincoli imposti dal legislatore in tema di contenimento delle politiche assunzionali. Oltre ai vincoli di carattere assunzionale, la [continua ..]
È nell’alveo di un quadro regolamentativo siffatto che occorre collocare la norma di legge regionale del Friuli Venezia Giulia, la quale sarà oggetto di interpretazione da parte della Cassazione nella interessante sentenza succitata che qui brevemente si commenta. L’art. 18, comma 3, della legge regionale 18 luglio 2014, n. 13 – modificando la l.r. n. 23/2007 – dispone che «il trattamento economico annuo onnicomprensivo riconosciuto ai dirigenti della società Friuli Venezia Giulia Strade s.p.a., correlato alla posizione occupata, alle responsabilità attribuite, nonché alla complessità organizzativa e funzionale della struttura assegnata, può essere determinato fino alla misura massima di 100.000 euro annui lordi e comunque determinato in coerenza con le disposizioni del Contratto collettivo regionale di lavoro – Area della dirigenza del personale del comparto unico regionale». Occorre premettere brevemente come la succitata società a controllo pubblico – alla luce di alcune norme di attuazione dello statuto speciale della regione in materia di viabilità e trasporti – subentrò alle funzioni in precedenza svolte in quel territorio dal comparto regionale di Anas s.p.a., con relativo trasferimento del personale, al quale veniva riconosciuto (art. 68, comma 2, l.r. n. 23/2007) il mantenimento delle condizioni contrattuali previste dal contratto collettivo Anas e «dei trattamenti acquisiti», precisando che le modalità e i termini di applicazione della norma sarebbero stati definiti in sede contrattuale. Orbene alla luce della norma regionale in questione, la società Fvg strade ha ricondotto l’ammontare annuo corrisposto al personale di categoria dirigenziale entro il tetto di centomila euro, interpretando la norma come immediatamente cogente, riducendo pertanto il trattamento corrisposto al ricorrente di circa trentamila euro. In sintesi, secondo la Cassazione deve escludersi che l’intervento legislativo regionale possa avere inciso in modo diretto, in violazione del divieto di irriducibilità della retribuzione, sul diritto alla conservazione del trattamento in atto, non avendo pertanto la legge regionale una efficacia «diretta e sostitutiva di clausole difformi ex artt. 1339 e 1419 c.c. sul trattamento individuale dei dirigenti della società». I giudici di [continua ..]
Tornando all’analisi del Tusp in questa materia, preliminarmente non si può che evidenziare il tentativo di razionalizzare l’ambito dei soggetti destinatari delle disposizioni. Anche con riferimento al contenuto dell’art. 11, comma 6 – come del resto per le restanti disposizioni dell’articolo – destinatarie della norma sono tutte le società a controllo pubblico. Questo non comporta che non siano contemplate forme di differenziazione – per quanto attiene al tetto dei compensi massimi, i quali non potranno comunque eccedere il limite massimo di duecentoquarantamila euro annui al lordo dei contributi previdenziali e assistenziali e degli oneri fiscali a carico del beneficiario, tenuto conto anche dei compensi corrisposti da altre pubbliche amministrazioni o da altre società a controllo pubblico – ma le stesse sono rinviate a un decreto del Mef per mezzo del quale verranno definiti «indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione» delle società. Tecnica già collaudata dal legislatore ma di non facile concretizzazione: basti dire che nel momento in cui si scrive, a oltre cinque anni dall’emanazione del Tusp, si è ancora in attesa del decreto ministeriale. Con riferimento ai destinatari della disciplina in tema di limiti alla remunerazione sono ricompresi tanto gli amministratori e i titolari dei componenti degli organi di controllo quanto i lavoratori subordinati delle società (anzi, i dirigenti e i dipendenti, secondo la terminologia «ridondante» [17] fatta propria dal legislatore). Ritornando alla imposizione dei limiti retributivi ex art. 11, comma 6, rimangono da evidenziare altri aspetti di una certa rilevanza. Il decreto ministeriale, come si è detto, dovrà indicare i «criteri di determinazione della parte variabile della remunerazione, commisurata ai risultati di bilancio raggiunti dalla società nel corso dell’esercizio precedente». Si pone dunque il tema dell’idoneità di un atto amministrativo che vada a disciplinare l’ambito della retribuzione variabile: quando la sua determinazione è regolamentata in un contratto collettivo decentrato, questa possibilità viene negata radicalmente da parte della dottrina, poiché ritenuta alla stregua di una inammissibile ingerenza di [continua ..]
Di tutta evidenza si tratta di un tema delicato, accresciuto nella sua complessità dal silenzio legislativo, che però consente di confrontarsi su alcune questioni molto dense. L’introduzione di massimi nella disciplina del rapporto di lavoro, inderogabili in melius da parte dell’autonomia privata, tanto collettiva quanto individuale, non è una novità degli ultimi anni, bensì un modus operandi che il legislatore ha posto in essere, invero in non numerosissime disposizioni ma altamente significative, almeno a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Si è trattato di norme le cui prime manifestazioni si sono succedute nell’arco di un decennio, passato alla storia come quello del c.d. diritto del lavoro nell’emergenza [19], concernenti provvedimenti in tema di legislazione sul costo del lavoro, ed in modo particolare riferiti al computo dell’indennità di contingenza [20]. Come noto sono temi che hanno caratterizzato la storia giuridico-economica di quegli anni, determinando anche conflitti aspri nel mondo politico e sindacale, attenendo allo stesso ruolo dello Stato nella determinazione della c.d. politica dei redditi. La disposizione del 1977 [21] era estremamente chiara: la legge sanzionava con la nullità eventuali norme regolamentari o clausole contrattuali in contrasto con la normativa dettata, prevedendo espressamente la sostituzione di diritto delle clausole di accordi e contratti collettivi vigenti contrastanti con la disciplina legislativa. È evidente che il punctum dolens riguardava l’eventuale contrasto di una politica legislativa siffatta con le prerogative dell’autonomia collettiva quale autorità salariale: certamente queste vicende hanno rappresentato un cambio di paradigma importante, dal momento che fino a quel momento il ruolo dell’autonomia collettiva si poneva evidentemente sempre come acquisitivo di ulteriori tutele rispetto al minimo garantito dalla legislazione: infatti è stato scritto che la questione dei limiti massimi alla contrattazione «incide su un ruolo “naturale” dell’azione collettiva garantita dalla Costituzione (e dunque su un certo equilibrio delle due fonti, quella formale e quella non formale)»; ma – prosegue l’A. – «anche in questo caso la signoria della norma di legge, alla fine, non è stata [continua ..]
Resta da analizzare con riferimento ai limiti legali all’altrimenti libero esplicarsi dei poteri datoriali e, si aggiunga, alla ordinaria dinamica delle relazioni collettive in azienda, l’art. 19, comma 6: si tratta di una disposizione invero già più volte affrontata, poiché centrale nel fragile assetto predisposto dal Tusp nel regolare la dinamica tra socio pubblico controllante e società controllata, sotto il profilo degli obiettivi che la prima impone alla seconda, in tema di spese di funzionamento, comprese quelle per il personale, che passano per esplicita previsione legislativa «anche attraverso il contenimento degli oneri contrattuali e delle assunzioni di personale». L’angolo visuale dal quale esaminare la disposizione è quello della società a controllo pubblico la quale deve garantire il concreto perseguimento di quegli obiettivi «tramite propri provvedimenti da recepire, ove possibile, nel caso del contenimento degli oneri contrattuali, in sede di contrattazione di secondo livello». Si pongono almeno due distinte questioni: la prima concerne il grado di vincolatività che si esplica nei confronti della società in conseguenza dalla predisposizione degli obiettivi da parte dell’amministrazione controllante [32]; la seconda attiene al ruolo, eventuale, della contrattazione aziendale nel far propri i dettami in tema di oneri contrattuali. Con riferimento al primo tema, a ben vedere, ci si dovrebbe preliminarmente chiedere altresì se la norma effettivamente innovi rispetto a quelle che sono le prerogative dell’amministrazione socia sul punto: detta in altri termini quest’ultima ben avrebbe potuto perseguire il medesimo scopo per il tramite degli ordinari strumenti di diritto comune che sovrintendono ai rapporti all’interno di qualsiasi gruppo societario. In questo senso allora, partendo da questo presupposto, si può considerare l’intervento legislativo non attributivo di una nuova e in precedenza non contemplata facoltà, bensì quale una sorta di stimolo a che la p.a. eserciti effettivamente il suo controllo. Prova ne è il contenuto del comma 7 il quale impone che questi provvedimenti vengano pubblicati sul sito istituzionale e in caso di mancata o incompleta pubblicazione fa conseguire il consueto corollario di responsabilità e sanzioni che discendono dalla normativa in [continua ..]