Nel saggio viene sottolineato come il lavoratore, nella condizione di subordinazione ed alla luce della vigente disciplina positiva, possa contare su di un sistema di protezione molto lontano dalla garanzia di uno stato di pieno benessere fisico, mentale, sociale e quindi di momenti di felicità. La presenza di questi momenti è poi ancora più rara e improbabile, in caso di contenzioso giudiziale.
D’altra parte anche se il diritto del lavoro si modificasse in modo molto significativo, a favore dei prestatori, sarebbe comunque difficile per il lavoratore accedere ad essi.
In effetti è l’assicurazione di elementi adeguati di tutela a costituire invece legittima e corretta aspirazione dei lavoratori. Ed occorre fare molta attenzione perché questa non sia negata, definendola impropriamente come felicità.
The essay points out that labour law does not provide the worker with a system of protection that can lead to a state of physical, mental, and social wellbeing and, hence, to moments of happiness. Such moments of happiness are even more scarce in case of litigation. However, it would be difficult for the worker to achieve a state of happiness even in case of a profound pro-labour change of labour legislation.
It is the assurance of an adequate protection that constitutes the legitimate and correct aspiration of the workers. And it is necessary to be very careful so that this is not denied, improperly defining it as happiness.
Keywords: labour – litigation – subordination – employment legislation – changes – happiness.
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L’invito che la rivista Variazioni su Temi di Diritto del Lavoro con questo numero monografico formula appare tanto inconsueto quanto stimolante. Perché è davvero inusuale porre a confronto il sistema giuridico, in particolare del lavoro, con un fenomeno che sembrerebbe appartenere a tutt’altra dimensione come la felicità. La sollecitazione impone innanzitutto di precisare – non si dice il concetto ma almeno – l’idea di felicità accolta da chi ne scrive. Operazione a sua volta non facilissima. Intanto perché l’utilizzo dell’impegnativo termine appare fortemente banalizzato, nella società che ha sviluppato una vera e propria ossessione compulsiva verso i consumi e nello stesso tempo promette a tutti il successo più grande, anche all’occorrenza con il minimo sforzo. Senza mantenere la promessa ovviamente, per la stragrande parte dei cittadini: ma questo – in contesti dove si convive con lotterie “milionarie” nonché con ribalte mediatiche e pure politico-istituzionali che rendono protagoniste persone “senza qualità” (per citare Musil; in significato che risulta però oggi ben diverso da quello sottolineato nel capolavoro letterario) – risulta secondario. Cosicché, nel confronto con la felicità, oggi sembrerebbero soprattutto brani di successo di musica leggera ad assumere rilievo. Certo molto più dell’intero pensiero filosofico greco, dove pure, con una riflessione assai articolata, è stata riservata non marginale attenzione alla c.d. “eudaimonia”! Nel diritto in ogni caso i riferimenti alla felicità sono pochissimi. Deve essere menzionata – molto probabilmente per l’ennesima volta, visto che questo è l’ultimo saggio del volume – la celeberrima dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776, secondo cui «tutti gli uomini sono stati creati uguali, … sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, … fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». Potrebbe assumere inoltre importanza la nozione di salute presa in considerazione dall’Organizzazione mondiale della sanità, a sua volta molto nota, consistente in uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» [1]. [continua ..]
Una questione poi merita preliminare attenzione: perché in grado di mostrare quanto sia in definitiva complesso accostare la felicità – o anche solo un oggettivo stato di adeguato benessere – alla normale condizione di lavoratore subordinato. Questa si lega, in estrema sintesi, al fatto che il prestatore di cui si parla proprio in tal modo venga definito nell’ordinamento: cioè appunto subordinato. Ebbene a me pare che il diritto che «dal lavoro ha preso il nome» [4] solo in alcuni momenti storici abbia assicurato elementi significativi di protezione ai prestatori; mentre costantemente ed anzi “tipicamente” abbia garantito e garantisca posizioni di primazia al datore. Le quali assumono pregnante rilievo proprio in sede giuridica; unendosi in tal modo alle ulteriori, pure spesso riscontrabili, sul piano sociale ed economico. Mi riferisco evidentemente agli innumerevoli poteri unilaterali di cui il datore dispone, i quali non hanno nelle forme di Stato democratiche contemporanee corrispondenza (o somiglianza) neanche per ciò che riguarda l’esercizio del potere pubblico. Questi, come noto, sono stati, sul piano storico, in un primo non breve intervallo di tempo semplicemente esercitati di fatto. Mentre comunque l’ordinamento ne proteggeva la possibilità di fruizione [5]. Poi, a seguito del lento formarsi di una regolamentazione legale, fase culminante in Italia prima nella legge sull’impiego privato di metà anni venti del secolo scorso e poi nel codice civile, sono stati formalmente attribuiti al datore, nel segno e sotto l’egida appunto della qualificazione della fattispecie come di lavoro subordinato. Così peraltro raccogliendosi le elaborazioni già da tempo maturate in dottrina, a partire dall’opera di Ludovico Barassi. Mentre l’assetto in tal modo sviluppato trovava prima legittimazione e fondamento nel potere gerarchico del datore (art. 2086 c.c.) nonché nel «superiore interesse della produzione nazionale» [6], secondo l’impostazione ideologica del sistema corporativo. In seguito però nella stessa libertà di iniziativa privata, ai sensi dell’art. 41 della Costituzione, comunque garantita dalla ben diversa successiva forma di Stato repubblicana, democratica e sociale. Solo più di venti anni dopo l’entrata in vigore del nuovo testo [continua ..]
La fase storica contemporanea, come già si indicava, non pare d’altra parte tra quelle in cui la sottoposizione ai poteri indicati sia contenuta e/o comunque in qualche modo compensata dalla presenza di rilevanti profili di tutela. Cosicché risulta oggi particolarmente evidente il fatto che il diritto del lavoro appunto sia «al tempo stesso, un diritto sul lavoro» [13]. Molteplici elementi fanno emergere questo aspetto. La situazione generale in cui le norme operano, intanto, di per sé acuisce la tipica posizione di soggezione del lavoratore dipendente. Perché caratterizzata da una diffusa disoccupazione, nel nostro Paese soprattutto (da almeno mezzo secolo) giovanile e (da sempre) femminile; con radicamento nettamente più significativo nel Meridione. Ne deriva un rafforzamento (per l’ambito considerato ulteriore) della domanda sull’offerta nel mercato del lavoro, come peraltro accadrebbe in qualunque mercato. La estesa disoccupazione – in stretta connessione a quanto ora osservato – indebolisce d’altra parte pure le organizzazioni sindacali dei prestatori. Il cui ruolo è peraltro già stato messo, almeno da trenta anni, in radicale e più generale discussione dalla c.d. globalizzazione delle relazioni economiche [14]. Poi non può essere dimenticato che, in particolare nel nostro Paese, di nuovo con forte ed endemica presenza nel Sud nonché in taluni settori delle attività economiche, le regole introdotte non operano o operano solo in parte. Ciò evidentemente, lungi dal delegittimare od indebolire esalta, sia pure sul piano del bruto fatto, i poteri unilaterali del datore: potendo in tal caso pure emergere, specie ma non solo nelle relazioni con lavoratori stranieri – irregolari e regolari; esterni ma anche appartenenti all’Unione europea – vicende di vero e proprio neo-schiavismo o comunque intollerabile sfruttamento [15]. Stando d’altra parte alle regole vigenti, appare difficile negare la contemporanea presenza di un vero e proprio dominio della condizione di precarietà dei lavoratori. Intanto per la diffusione di contratti di lavoro c.d. “atipici” o flessibili, di carattere subordinato e non – tra cui anche forme piuttosto curiose, perché configurate in negativo, come non costituenti cioè «rapporti di lavoro» [16] – [continua ..]
Non è detto tuttavia che lo scenario ora descritto perduri come tale. La storia ha in effetti mostrato evoluzioni tali nel diritto del lavoro, condizionate da molteplici fattori, da far ritenere instabile anche l’equilibrio emerso da ultimo. Anche se, ad onor del vero, dalle origini e per molti decenni – partendo tuttavia “da zero”, per così dire – si è assistito a costanti progressioni nella protezione assicurata ai lavoratori subordinati; cui è subentrata, all’incirca dalla metà degli anni settanta del secolo scorso, una tendenza continua di segno opposto. Ebbene preconizzare un futuro incremento di tutela dei prestatori – questa è l’unica ipotesi che credo abbia senso confrontare con il tema ora affrontato! – implica immaginare una ulteriore macro-dinamica o quantomeno tendenza di discontinuità: cosa da non escludere a priori; da prospettare però indubbiamente con cautela. Alcuni elementi comunque, pur tutt’altro che risolutivi, sembrerebbero dare qualche credibilità a tale prospettiva. Così ad es. in relazione alla nuova regolamentazione legale del contratto di lavoro subordinato a termine nonché della somministrazione di lavoro, già menzionata; a proposito della quale si è però assistito subito dopo a parziali “ritorni al passato”: ora transitori, in connessione con la crisi economica generata dalla pandemia; ora invece permanenti [31]. Inoltre alle stesse modificazioni introdotte alla disciplina sui licenziamenti di cui al d.lgs. n. 23/2015, da parte della Corte costituzionale, a loro volta non insignificanti ma neanche tali da travolgerla [32]. Molto rilevante, anche perché parte di una tendenza concernente molti ordinamenti, così come la stessa Unione europea, sembra piuttosto in questa ottica l’intervento realizzato, al fine di limitare gli effetti socio-economici potenzialmente disastrosi sempre generati dalla pandemia. Con ricadute soprattutto sulla limitazione dei licenziamenti e sull’ampio ricorso ad “ammortizzatori sociali”, accompagnate da diffuso, consistente e prolungato sostegno alle imprese, grazie al massivo ricorso alla finanza pubblica [33]. Così è certo emersa una notevole differenza, rispetto alle misure invece predisposte in occasione della crisi economica, pure drammatica, che dal 2009 si [continua ..]
Oramai da alcuni anni si assiste comunque alla crescita di un dibattito sui caratteri che il diritto del lavoro dovrebbe avere. Ora con attenzione a dinamiche esistenti, pur lette in modo ben diverso, ed alla loro ipotetica o desiderata evoluzione; ora invece su di un piano meramente assiologico e deontologico. Ecco allora assumere rilievo, nel primo ambito, la riflessione maturata presso importanti organizzazioni sindacali di diversi Paesi europei, con il contributo di studiosi ad esse vicini, nel segno di una forte critica verso l’assetto del diritto del lavoro contemporaneo; accompagnata però anche da progetti e/o “manifesti” di revisione, talora pure con veri e propri articolati e disegni di legge [45]. Accanto ad essa però anche l’approfondimento, al proprio interno certo più articolato, sviluppatosi attorno per un verso al c.d. “diritto del lavoro sostenibile” e sotto altro profilo alla “dignità del lavoro”. Nel primo caso – si ha l’impressione – con prevalenza di impostazioni che, pur attente alle incipienti trasformazioni ed auspicando modificazioni del diritto del lavoro, non mostrano troppi ripensamenti rispetto all’idea che sia quest’ultimo a doversi adeguare a quanto “richiede/impone” l’economia, piuttosto che l’inverso (continuandosi così spesso a trascurare la dimensione fondamentalmente politico-ideologica di questo input!) [46]. Nel secondo invece – sempre secondo personale e forse errata sensazione – con più diffusa e talora convinta messa in discussione di tale ultimo vero e proprio assioma, nel trentennio appena trascorso [47]. Dall’insieme di questi contributi, eterogenei e dunque incapaci di mostrare notevoli elementi comuni di riferimento, proviene in effetti una sensazione di complessiva inquietudine, che non di rado diviene insoddisfazione, verso lo stato contemporaneo del diritto positivo del lavoro. Ciò contribuendo a generare ulteriori dubbi sulla sua indefinita o comunque duratura permanenza. Forse ancora più interessante può però risultare il confronto con l’impostazione e prospettiva che, con approccio forse definibile “neo-giusnaturalista”, fa esclusivo riferimento a principi. Seguendo la quale ci si confronta in effetti con scenari assai più lontani nonché, se si vuole, [continua ..]