La forte ed improvvisa diminuzione degli iscritti ai corsi universitari di diritto, con aumenti per altri corsi, e poi le emergenze per il Covid-19, che hanno costretto al “tutto a distanza”, hanno messo in evidenza problemi di sempre sull’insegnamento universitario che riguardano l’essere stesso dell’università. L’insegnamento a molti o moltissimi, con impossibilità di qualunque rapporto diretto, non è insegnamento, anche se il prestigio continui ad essere valutato sui numeri considerando grandi università quelle con più iscritti. Forse per il diritto e nello specifico per il diritto del lavoro potrebbe bastare l’insegnamento con i libri, ma le lezioni restano comunque l’espressione stessa dell’università. Bisogna rivedere e riordinare il sistema, che riguarda l’insegnamento e quindi i professori.
The sharp and sudden decrease in enrolments in university law courses, with increases for other courses, and then the emergencies for Covid-19, which forced "everything at a distance", highlighted the usual problems on university teaching which concern the very being of the university. Teaching to many or very many, with the impossibility of any direct relationship, is not teaching, even if the prestige continues to be assessed on the numbers considering large universities those with the most members. Perhaps for law and specifically for labour law, teaching with books might be enough, but the lessons are still the expression of the university itself. We need to review and rearrange the system, which concerns teaching and therefore professors.
Keywords: university – teaching – labour law – law in general – written form.
1. Le riflessioni dopo la fine del mondo di ieri - 2. Insegnare e studiare, passaggio generazionale? - 3. L’empatia nelle lezioni - 4. Insegnamento per ogni singola materia, per ogni singolo tema - 5. Nozioni scritte per materie scritte come il diritto o la letteratura - 6. Insegnare una poesia - 7. Il diritto è solo nello scritto - 8. La contraddizione fra l’insegnamento “a voce” ma “a distanza” - 9. L’insegnamento orale delle materie scritte è creare un nuovo di volta in volta - 10. Il diritto scritto è insegnato con lo scritto - 11. Che diritto del lavoro insegnare? - 12. Contro il pessimismo da resilienza dell’università
La Costituzione italiana prevede l’«insegnamento» per «l’arte e la scienza», con dichiarazione solenne di «libertà» (art. 33 comma 1), mentre per le «scuole» di tutti gli ordini e gradi prevede l’«istruzione» quale compito della «Repubblica», assoggettandola a «norme generali» (comma 2 dello stesso art. 33). Fra insegnamento ed istruzione non c’è gran differenza, mentre l’assoggettamento alla «norme generali» comporta per la scuola limiti seppur flessibili a quel che si vuol insegnare (i “programmi”). La stessa libertà per arte e scienza costituisce un’astrazione, da tradurre nel divenire concreto. Su questa base generale vanno esaminati alcuni problemi sull’istruzione nell’università. L’ha fatto M. Brollo in particolare per il diritto del lavoro, prendendo spunto dalla «fine del mondo di ieri» dopo lo sconvolgimento causato dal 2020 dall’epidemia Covid-19 (M. Brollo, Innovazioni nella didattica del diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 2020, n. 2, 345). I cambiamenti più profondi per i corsi di diritto sono però precedenti al Covid-19 e derivano da un parziale abbandono con asserito “declino” della Facoltà di Giurisprudenza (o meglio corsi con indirizzo giuridico), in quanto in dieci anni le immatricolazioni sono diminuite della metà: nel 2008/2009 le immatricolazioni erano state del 10,9% sul totale, nel 2018/2019 sono state del 6,9%. Inoltre, ma questo è dato costante, c’è per gli indirizzi giuridici il più alto tasso di fuori-corso (c.a. 30% sul totale) e solo il 6% arriva al diploma. Tuttavia nel 2020 c’è stato un certo recupero. Tra i motivi del declino sono indicati i difetti didattici, in particolare nell’inidoneità a fornire formazione specifica, ma forse il motivo principale è una certa sfiducia di utilizzare la laurea per il lavoro. Allo stesso tempo, sono aumentati gli iscritti ai corsi c.d. scientifici ed in particolare ad Ingegneria e Medicina. C’è stato, pertanto, prima un forte cambiamento della popolazione studentesca, con emigrazione da alcuni corsi ad altri, e dopo l’improvvisa necessità del “tutto a distanza” a causa dello choc da Covid-19. C’è quindi necessità di [continua ..]
Va iniziato rilevando che non tutto è globalizzato, reso unico nel tempo, nello spazio, nel linguaggio. Certamente, talvolta la globalizzazione è completa, come per la chimica, la fisica, la musica: dove tutti possono conoscere tutto parlando la stessa lingua, senza tempo né spazio. Il diritto interno resta invece nazionale, con lingua nazionale; o è comunitario o internazionale, con proprie lingue. Non si può studiare il codice civile o lo Statuto dei lavoratori con l’inglese o altra lingua diversa dall’italiano. Gli studi comparatistici sono altro. La didattica comprende sia “insegnare” che “studiare”: con queste parole indico nozioni diverse e virtualmente speculari, perché insegnare è attivo, significa dare, mentre studiare è passivo, ricevere dagli altri per confermarlo attraverso la memoria. È “dare”, speculare ad “avere”. “Imparare” è invece ampio e comprende tutto, perché ogni giorno s’impara qualcosa, bella o brutta, utile o non. Rispetto ad “insegnare”, la parola virtualmente speculare è “studiare” (non “imparare”), perché quel che s’apprende diventi stabile nella memoria e nel personale esistere, e rimanga utile. Nello specchio immaginario solo la parola “io”, che mi riguarda, è senza speculare, perché con traduzione metaforica “io” è assoluto. Quando sento una musica o leggo un libro o guardo in tv un buon servizio, imparo sempre e spero di ricordare quelle sensazioni o idee, ma poi non “studio” e non cerco di usare mezzi per ricordare ed utilizzare quel che ho imparato. C’è il piacere del ricordo, senza utilità immediate. Se invece la memoria viene dall’insegnamento, cercherò di “studiare” per fermare il ricordo per il maggior tempo possibile in modo da fruire di quel che ho imparato, presto o tardi, o mai. Faccio per il diritto un volo di fantasia. Come vorrei sentire dal vivo l’orazione di Lisia contro Eratostene! Vorrei sentire l’invocazione finale «avete ascoltato, avete visto, avete sofferto, lo avete: decidete» (l’ha ricordato e commentato E. Gragnoli, Riflessioni di un avvocato moderno sull’orazione di Lisia contro Eratostene, in Lav. giur., 2015, n. 7, 707): oltre lo scritto, che si [continua ..]
Con le “lezioni” ci vuole “empatia” e cioè immedesimarsi con altri in un rapporto diretto che corre con i sensi, ma anche con i sentimenti. Senza enfatizzare, se manca empatia non c’è insegnamento e c’è solo un tentativo di comunicare agli altri quel che già si conosce o si crede di conoscere. È necessario un rapporto diretto fra chi insegna e chi dovrebbe imparare e poi studiare, altrimenti è vuoto: senza empatia, nelle lezioni c’è stanca ripetizione, con inesorabile e soporifera cantilena. Un rapporto diretto è possibile solamente con gruppo limitato, in cui creare reciproche comunicabilità. Ovviamente la partecipazione sarà più o meno intensa, o qualcuno si renderà estraneo per vari ed ovvi motivi, ad esempio per distrazione: ma ci sarà insegnamento con le lezioni solamente quando fra insegnante e chi dovrebbe imparare e studiare c’è vera possibilità di reciproca interferenza, c’è empatia. Il numero è decisivo, perché con le lezioni non c’è insegnamento quando le persone che dovrebbero imparare sono in numero tale, da rendere impossibili rapporti diretti. Nell’immaginifico del professore che fa lezione ad un’aula di quattro o cinquecento persone, magari con grande successo ed applauso finale, c’è solo uno spettacolo che potrà essere bello, ma è inutile. Alla fine qualcosa potrà sempre rimanere, come in ogni momento della personale esistenza, ma ad un’aula di centinaia di persone non s’insegna. A sentire una conferenza, anche con dibattito finale, qualcosa resta sempre, ma non è insegnamento. Per insegnare veramente con le lezioni bisogna essere in pochi, anche se chi parla riesca a richiamare l’attenzione con personale seduzione. Il numero è sempre relativo, perché in qualche caso s’insegna solo se si è in pochi o pochissimi, in altri è possibile empatia anche con un numero consistente di partecipanti. Non si possono fare esempi, ma certamente parlare a molti è inutile, ovvero è utile come sentire un disco, con la differenza che solo il disco ripete. Si può imparare da tutto, anche dalle gocce d’acqua che casualmente creano un’armonia musicale. Per insegnare però ci vuole empatia.
“Insegnare” vuol dire trasmettere ad altri conoscenze consapevoli perché prima o dopo siano utilizzate. Per puro piacere, c’è non “insegnare” ma gusto della vita che comprende anche quel che svanisce e lascia una scia di memoria che magari potrà tornare nel vissuto, un giorno o l’altro o mai. C’è poi da distinguere l’insegnamento a chi non ha ancora capacità critiche – che è il vero “insegnare” – ed a chi invece queste capacità le ha o dovrebbe averle acquisite e cerca o trova ulteriori conoscenze capaci presto o tardi di risultati concreti. Convenzionalmente, il primo insegnamento può essere chiamato “alfabetizzazione” ed il secondo istruzione superiore, ma è evidente la confusione oltre che incertezza dei due concetti. Con la “alfabetizzazione” si apprendono i primi elementi che permettano in tempi probabili capacità di giudizio critico, ma per l’istruzione superiore prevale l’utilità immediata ai fini dell’utilizzo economico, anche se con modalità ed in tempi non definibili. Un altro presupposto è che non si può considerare l’insegnamento in astratto, perché ogni tema ha sue specificità esclusive e, come osservato all’inizio, non tutto si globalizza ed in specifico il diritto interno resta solo nazionale. Si può comunque tentare qualche generalizzazione, partendo dall’Università. Ha ragione chi dice che ci sono due Facoltà da considerare a parte: Ingegneria e, soprattutto, Medicina. Forse è possibile anche un ragionamento opposto: vanno considerate a parte le materia c.d. umanistiche, in cui non c’è necessità d’insegnamento pratico. Nella stessa logica, in contraddizione, per le materie umanistiche è necessario anche un insegnamento pratico (“praticantato”), ma solo per imparare a scrivere con la lingua utilizzata. Qui si entra in campo controverso: non si può lasciare solo alle scuole medie inferiori e superiori il compito di insegnare a scrivere, con pratica lunga che garantisca i risultati. Non basta quindi l’introduzione di una verifica scritta, perché è necessario un insegnamento dato e valutato giorno per giorno – enfatizzando – con cui s’impari realmente a scrivere ed [continua ..]
Un insegnamento diretto a voce, con le “lezioni”, è indispensabile solamente se il tema non può essere tradotto in modo esauriente con lo scritto e cioè con i libri. Si potrà ribattere che è impossibile prevedere se la trattazione scritta sarà esauriente, comprensibile, senza carenze, mentre l’insegnamento a voce potrebbe essere più attuale. Si scende nel vuoto, perché il “prevedibile assoluto” non esiste e vale solo quello relativo, dedotto con ragionevole capacità ed esperienza. Posso fare due ipotesi. La prima riguarda i temi non-traducibili compiutamente nello scritto, che s’imparano solo vedendo direttamente, toccando e sentendo, meglio con tutti e cinque i sensi. Non riguarda le materie umanistiche – come il diritto o la letteratura – che si esprimono solo con lo scritto e per cui nulla c’è da vedere, toccare, sentire. La seconda ipotesi riguarda i casi in cui è possibile aggiungere qualcosa solo con i cinque sensi, guardando, sentendo, toccando. L’utilità dell’insegnamento diretto a voce deriva dall’attualità, presupponendo un aggiornamento più semplice, anche se ormai tutto diventa attuale con la rete.
Prendiamo di dover spiegare o interpretare una poesia, genere che dovrebbe (o doveva) unire la musicalità alla scrittura. Per l’insegnamento, innanzitutto dovremo esaminare il testo, che fare diversamente sarebbe già snaturare e distorcere la poesia, nata per essere scritta (il tramandato è fantasia). Dopo, dovremo spiegare il significato delle parole, o quel che si vorrebbe sottintendere o alludere o simboleggiare ecc.: potremo precisare con lo scritto tutto quel che la poesia riesce ad evocare, almeno in un certo momento. Rileggendo e rileggendo, avremo sempre nuove sensazioni o idee, perché la poesia o la musica o l’arte cambiano sempre negli occhi o nelle orecchie di chi guarda e sente, o immagina. Scenderemmo però in una diversa dimensione, perché quel che uno dice cambia significato o sensazione dopo un battito di mani, come il tempo, in un’inane ricerca di un presente che passa inesorabile e non esiste. Lo scritto è una chiamata del futuro. Si può “insegnare” una poesia o un’opera d’arte? È una domanda quasi retorica, ma è certo che la trasmissione con le parole scritte può essere sufficiente ed anzi completa. “Dopo”, nel parlare, verranno nuove idee e sensazioni, ed è vero – è vero – perché il presente non esiste, ma l’insegnamento con lo scritto è già tutto: il “dopo” è altro. Potremmo dire che proprio la poesia, con la sua musicalità, potrebbe essere espressa solo a voce. È il contrario, perché la musicalità della poesia, ma in generale di qualunque testo, è concepita e si esprime con la scrittura: con i suoni della voce verrebbero altre sensazioni, simili o diverse rispetto a quelle volute dall’Autore. È un problema non solo delle intenzioni nella musicalità, voluta e cercata nello scritto e che solo nello scritto s’esprime: cercare una musicalità nei suoni della voce è altro, si trasforma. Nulla c’è da insegnare sulla poesia o nella letteratura o nell’arte, che non si possa esprimere con la scrittura. Nell’insegnare “a voce”, in modo diretto, aggiungeremmo ulteriori modifiche: i suoni della “voce” cambiano quelli dello scritto, sotto falsa-copia dell’originale.
Il diritto è solamente scritto. Il principio-base del diritto è che sia scritto, perché non sia cambiato approfittando della trasmissione orale. Mosé scese dal Sinai con i dieci comandamenti scritti su due tavole di pietra (Esodo, XXXI, 18) perché nessuno li cambiasse: il valore allegorico (“scritto sulla pietra”) costituisce la migliore spiegazione dell’esigenza basilare del diritto, che è la certezza, purtroppo tradita da chi nel leggere inventa regole inesistenti. L’unico insegnamento è quello sulla comprensione delle parole, sempre soggettiva ma consapevole e critica. Una volta capito dallo scritto il senso delle parole, in connessione fra loro, per il diritto non c’è da imparare “solo a voce” perché basta la norma scritta o il suo commento scritto. La storia dei “glossatori” si ripete continuamente, con il commento che finisce per prendere il posto delle parole commentate, cambiando il senso e creando norme inesistenti. Per capire le norme bisogna leggere il testo scritto, non il suo commento o perlomeno mai da solo il commento. Una volta imparato a “leggere” lo scritto, per il diritto nulla c’è che debba o possa essere spiegato solo “a voce”. L’insegnamento diretto “a voce” è solo apparenza.
È dubbio il valore dell’insegnamento del diritto con le lezioni, “a voce” ma “a distanza” – con palese contraddizione – che può essere la distanza della comunicazione telematica ed anche la distanza di chi parla non ai singoli ma ad un gruppo che non può interferire e contraddire. Ripeto ancora che nulla c’è di più inutile di una lezione a centinaia di persone, come quelle vecchie, di cui dicevo, di diritto privato in grande università. Si potrebbe pensare che la lezione registrata “da lontano” avrebbe il pregio di poterla rivedere molte volte, in modo da imparare a memoria attraverso la reiterazione (vedendo più volte anziché leggendo più volte). Metto così in evidenza un’altra caratteristica della norma “scritta”, di poterla rileggere senza che sia cambiata. “Risentire” più volte – come “rileggere” – permette non solo di memorizzare, ma anche di cogliere i particolari che sfuggono a prima vista. È come la musica, che la prima volta non sempre si riesce ad apprezzare ma bisogna sentirla e risentirla più volta, per capirne la bellezza. O ugualmente per le arti visive e tutte le arti.
Ci sono materie che s’esprimono con segni grafici, parole o formule di vario genere. Il diritto, la narrativa, la poesia – in quanto composti solo da parole – possono essere insegnati con altre parole ma per dare veri o falsi significati, anche oltre la simbologia. Quando D’Annunzio, nella poesia I pastori (in Alcyone), usava l’espressione possessiva «i miei pastori», voleva indicare non uomini visti veramente alla pastorizia ed in qualche modo «miei», ma solo un simbolo nostalgico di tempi legati ai luoghi dov’era nato e non sarebbero tornati; D’Annunzio, di «pastori» in carne ed ossa presumibilmente non ne aveva visti mai. Con l’indicazione simbolica aveva suggerito un sentimento, che uno crede d’aver capito e può spiegare ed insegnare: le parole servono per «interpretare» le parole. Non è così per altre materie, ad esempio per la medicina che riguarda il corpo umano, per cui le parole servono solo a «spiegare» o «interpretare». Viene studiato il corpo umano, non la simbologia grafica che serve per dare di esso un’idea astratta; l’astrattezza non basta, bisogna vedere e toccare, cogliere i momenti concreti delle malattie ed i mezzi per superarle. Bisogna che il medico, per imparare i momenti essenziali delle malattie e delle cure, vada a guardare, sentire, toccare, operando direttamente o indirettamente. Un insegnamento della medicina solamente con le parole è un non-senso. Ovviamente l’uso di parole diverse per “capire” altre parole comporta sempre modifiche. Anche le parole sono un simbolo grafico, di significato quasi sempre incerto e plurimo. Le stesse parole del decalogo di Mosé hanno significati vari, anche se ridotti all’essenziale proprio per cercare di evitare modifiche.
Potrebbe restare il dubbio se si possa veramente “insegnare” in forma orale il diritto che si basa su parole scritte, e scritte perché non vengano modificate dalla lettura attraverso una trasmissione orale. Ovviamente sì, perché le parole sono scritte perché siano lette, ma è certo che ogni tentativo di dare una spiegazione con lo scritto è insegnamento sufficiente e più preciso rispetto a quello orale. Le “lezioni” restano però essenziali e non solo come simbolo. L’insegnamento scritto del diritto è certamente statico, fermo nel tempo, mentre con le lezioni l’aggiornamento potrebbe essere continuo o più frequente, attraverso nuove conoscenze o semplicemente nuove consapevolezze che non raramente emergono nel momento stesso del parlare. Naturalmente si potrà discutere se è meglio la precisione, anche se statica, o l’incertezza della necessaria ed inevitabile improvvisazione del parlare di fronte agli altri (l’originalità del parlare). Non so se ascoltare crei un senso critico, ammesso che chi insegna un senso critico ce l’abbia. Potrebbe restare la seduzione nel sentir parlare, anche se ovviamente non tutti sono Lisia (o Cicerone o F. Carnelutti): non va confusa però la bellezza con l’utilità, lasciando ad altri affermazioni stereotipate e vuote come «la bellezza è sempre utile». Viene il dubbio che sia sufficiente insegnare il diritto con i libri anziché in forma orale con le “lezioni”, considerando anche che ormai la scrittura è modificabile con velocità istantanea e diffusione senza limiti. Mi rendo conto che le affermazioni sono esagerate e contraddicono l’amore e la passione per le “lezioni”: ogni esagerazione richiede correzioni, ma ritengo che vada preso atto di una realtà spesso negativa nascosta dall’amore e passione, o dall’ipocrisia. Oltre le dichiarate esagerazioni, è certo che l’insegnamento diretto a voce ha senso solo se si riesca a creare un rapporto diretto fra chi parla e chi ascolta, se si crei empatia. Lo ripeto: una “lezione” ad un tal numero di persone, da rendere impossibile l’«empatia» con chi insegna, è solo apparenza rituale. Un incontro diretto a voce è critico anche per le verifiche (gli “esami”), [continua ..]
Ho iniziato ricordando che per l’art. 33 Cost. «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» (comma 1) e «la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi» (comma 2). Per arte e scienza la libertà è assoluta, anche ai fini dell’«insegnamento», mentre per l’istruzione nelle scuole di tutti gli ordini e gradi sono previste «norme generali», con vincoli attenuati («generali») ma vincoli. Per il testo unico sull’istruzione (art. 1 d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297), ai docenti è garantita la libertà d’insegnamento intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale, per promuovere con un confronto aperto la piena formazione della personalità degli alunni. Insegnare arte e scienza, nel senso più ampio di libertà di esprimere la creatività, si distinguere dall’insegnare nella «scuola» (compresa l’università), soggetto alle norme generali, con cui vengono imposte certe materie. È difficile però ragionare per “materie” a causa della loro ampiezza. Esemplifico per il diritto del lavoro. Sempre secondo le «norme generali» il diritto del lavoro può essere obbligatorio o facoltativo per certi corsi o (come si diceva una volta) per certe Facoltà, secondo decisioni autonome a seconda della preparazione che si vuole dare. La “materia” talvolta è obbligatoria e talvolta facoltativa, ed altrettanto ovviamente è assente per molti corsi. Un semplice cenno può bastare, qui, per far intendere che l’argomento è difficilmente definibile. Voglio solo evidenziare che nell’università la divisione per materie («diritto del lavoro», «diritto privato», «diritto commerciale» ecc.) corrisponde ad un’amplissima libertà di contenuti. Ad esempio, proprio per il diritto del lavoro, normalmente viene insegnato quel che riguarda il rapporto di lavoro, anche se non tutto (ad es. spesso manca la parte sull’avviamento al lavoro e la formazione professionale), idem per il diritto sindacale (ma con forti eccezioni); normalmente non viene insegnata la previdenza sociale, che è materia d’eccezionale importanza ma tormentata da [continua ..]