Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il licenziamento economico “sotto assedio” tra giurisprudenza ordinaria e costituzionale (di Simone Varva, Professore associato nell’Università di Milano-Bicocca)


Il contributo analizza la sentenza della Corte costituzionale del 1° aprile 2021 e due ordinanze di rinvio del Tribunale di Ravenna relative alla compatibilità costituzionale dell’art. 18, comma 7, dello Statuto dei lavoratori, l. 20 maggio 1970 n. 300.

The economic dismissal “under siege” between Civil and Constitutional jurisprudence

The paper analyses the Constitutional Court’s judgment on 1 April 2021 and two referral orders of the Court of Ravenna concerning the constitutional compatibility of Article 18(7) of the Workers’ Statute Law 20 May 1970, n. 300.

Keywords: constitutionality – equality – reasonableness – dismissal – dismissal for objective reasons – arbitrariness – pretextuality.

SOMMARIO:

1. Inquadramento del tema - 2. La prima ordinanza del 7 febbraio 2020 - 3. Sull’impossibilità di una interpretazione adeguatrice - 4. La decisione della Corte costituzionale - 4.1. L’insussistenza manifesta del motivo economico disvela di per sé l’arbitrarietà del recesso? - 4.2. Le potenziali conseguenze sull’architettura rimediale del “Jobs Act” - 4.3. Altri spunti - 5. I contenuti della “nuova” ordinanza del 6 maggio 2021 - 6. Osservazioni conclusive - NOTE


1. Inquadramento del tema

Dopo quasi un decennio di sforzi ermeneutici tesi a ricostruire normativamente la disposizione forse più controversa e criticata della legge 28 giugno 2012, n. 92, sembra sopraggiunta la fase (non certo particolarmente tempestiva) dei controlli sulla compatibilità costituzionale. Si vuole fare riferimento all’art. 18, comma 7, Stat. lav. secondo cui per il giudice sarebbe (solo) possibile (e non necessario) ordinare la reintegrazione dinanzi all’accertata “manifesta insussistenza” del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Già i commenti coevi alla riforma rilevarono i limiti di una facoltà giudiziale sulla scelta del rimedio e, ancor di più, segnalarono le notevoli difficoltà di dare un senso all’attributo (manifesto) di una nozione (insussistenza) che di per sé appare indicare un assoluto [1]. Vennero anche sollevati dubbi di compatibilità costituzionale: tuttavia ad essi non fece seguito alcuna iniziativa da parte della giurisdizione ordinaria per sollecitare una presa di posizione della Consulta. Sino a che un magistrato del Tribunale di Ravenna, nell’ambito del medesimo caso, ha sollevato in poco più di un anno (rispettivamente, il 7 febbraio 2020 e il 6 maggio 2021) ben due questioni di legittimità. In questo commento si analizzeranno principalmente i contenuti della decisione a seguito della prima ordinanza, ove la Consulta ha dichiarato incostituzionale il comma settimo nella parte in cui prevede che il giudice «può altresì applicare», invece che «applica altresì», la tutela reale di cui al quarto comma del medesimo art. 18 (generalmente definita come “tutela reale attenuata”). Vi sarà occasione di soffermarsi anche su alcuni profili affrontati nelle due ordinanze le quali, come si vedrà, si avvalgono di argomenti giuridici parzialmente sovrapponibili. Nella parte finale si valuteranno i potenziali e possibili sviluppi della sentenza della Consulta, anche alla luce dell’eventuale accoglimento dell’ordi­nanza più recente.


2. La prima ordinanza del 7 febbraio 2020

La decisione della Corte costituzionale, che pure si avvale di alcuni argomenti controvertibili, assume rilevanza sotto almeno due aspetti. In una prospettiva generale, come si dirà, compie un’operazione tutt’altro che neutra nel bilanciamento tra potere legislativo e potere giudiziario. In un’ottica squisitamente giuslavoristica consente poi d’ipotizzare sviluppi futuri della giurisprudenza costituzionale di ben altro momento, capaci di minacciare l’impianto strutturale su cui poggia (non solo l’art. 18 ma anche e soprattutto) il contratto a tutele crescenti introdotto dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Prima di passare a proporre qualche riflessione, occorre analizzare le motivazioni e gli argomenti adottati dalla Corte, anche alla luce di un’ordinanza di rinvio che si presenta con una struttura assai articolata e che verrà ripresa per il rilievo che assume ai fini della sentenza. La principale proposta interpretativa del giudice remittente (che, come si vedrà, sarà sposata dalla Consulta) poggia sulla considerazione che un grave vizio sulla sussistenza dei presupposti sostanziali [2] condurrebbe a ritenere il licenziamento arbitrario. Lettura che potrebbe essere stata condizionata, anche solo in un’ottica di precomprensione, dalla fattispecie concreta: al lavoratore, nell’arco temporale di pochi mesi, erano stati infatti comminati due licenziamenti per giusta causa, inframmezzati da uno per motivo oggettivo. Per il giudice ravennate il contrasto dell’art. 18 Stat. lav. con l’art. 3 Cost. sarebbe connesso al trattamento «ingiustificatamente differenziato (a livello di tutele) [di] situazioni del tutto identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei quali si sia accertata in giudizio l’infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il g.m.o.); tale differenza di tutele sarebbe determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto espulsivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso [3]». La costituzionalità della regola che prevede la facoltà giudiziale di determinare il rimedio viene anche messa in dubbio per l’assenza di qualsiasi apparente criterio oggettivo che ne temperi l’esercizio discrezionale: tema che si pone tuttavia su un piano [continua ..]


3. Sull’impossibilità di una interpretazione adeguatrice

Una questione preliminare che il remittente deve risolvere positivamente prima di poter sollevare una questione di legittimità costituzionale riguarda l’impossibilità di adottare un’interpretazione adeguatrice della disposizione che, ove perseguibile, consentirebbe di superare i sospetti di incostituzionalità in via ermeneutica. La Corte riconosce al giudice del rinvio di aver «esplorato la praticabilità di un’interpretazione adeguatrice» e di averla scientemente esclusa. Gli argomenti del remittente, sul punto, appaiono persuasivi: il testo della legge è inequivocabile e non sembra concedere spazio alcuno a un’inter­pretazione costituzionalmente orientata. È in ogni caso opportuno segnalare come nei primi commenti alla legge n. 92/2012 fosse stata proposta da parte di importanti studiosi una lettura adeguatrice della facoltà giudiziale (i.e. “può” come “deve”) [4]. Nel medesimo solco si è mossa parte della giurisprudenza (correttamente ritenuta minoritaria dal giudice rimettente) [5]. Come ricordato dalla Consulta stessa, la “questione del può” era stata sollevata più volte nel corso del dibattito parlamentare sulla riforma Monti-Fornero [6]: sebbene il riconoscimento di una facoltà giudiziale suscitasse perplessità sotto il profilo tecnico-giuridico, essa rappresentava evidentemente il compromesso socio-politico raggiunto in sede governativa. L’allora Presidente del Consiglio Prof. Mario Monti ebbe modo di ribadire come «solo nel caso che il motivo economico sia considerato manifestamente insussistente [...] il giudice può, e non deve come chiedevano il Pd e certi sindacati, decidere per il reintegro» [7]. La via dell’interpretazione adeguatrice, che conduce a ritenere l’opzione giudiziale una mera apparenza, perde in ogni caso di vigore dinanzi al recente orientamento di legittimità che ha tentato di individuare criteri generali per l’esercizio della facoltà (la quale allora, logicamente, non può che sussistere). Più analiticamente l’operazione della Suprema Corte, dinanzi al vuoto normativo su condizioni e limiti all’esercizio, è stata quella di ricorrere ai principi generali in tema di eccessiva onerosità di cui agli artt. 2058 e 1384 c.c. [8]. Tentativo [continua ..]


4. La decisione della Corte costituzionale

La Corte ritiene, adottando la prospettiva del giudice remittente, che la manifesta insussistenza postuli «una evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso e dunque la [sua] natura pretestuosa». A sostegno di tale lettura è richiamata una recente ordinanza della Cassazione [11] ove, invero, non è dato rinvenire alcuna affermazione che metta in connessione manifesta insussistenza e pretestuosità. La pronuncia che avrebbe potuto essere opportunamente richiamata in termini è l’importante Cass. 2 aprile 2018, n. 10435, ove la manifesta insussistenza è definita come «evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso». Ricordati i tradizionali “presupposti” del controllo giudiziale sul motivo oggettivo (ragioni organizzativo-produttive, nesso causale, ricollocamento), che «si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro», la Consulta osserva in modo tutt’altro che neutrale come «il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio». Affermata la connessione tra grave vizio motivazionale e licenziamento arbitrario (ovvero, in altri passaggi, “chiara pretestuosità” del recesso), le conseguenze risultano logicamente coerenti alla premessa; appare utile riportare il significativo passaggio in cui la Corte ritiene che «l’esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale e si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore. L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro». Viene perciò affermato il “pari disvalore” dell’insussistenza del fatto contestato (motivo soggettivo) e della manifesta insussistenza del fatto posto a base del [continua ..]


4.1. L’insussistenza manifesta del motivo economico disvela di per sé l’arbitrarietà del recesso?

Il tema centrale posto dalla decisione in commento sembra essere quello dell’asserita arbitrarietà (e/o pretestuosità) del recesso quando viziato per insussistenza del fatto (disciplinare) o per manifesta insussistenza del fatto “posto a base” del licenziamento (economico). In entrambi i casi ci si troverebbe dinanzi ad atti unilaterali parimenti lesivi dell’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale; ovvero al cospetto di una «vicenda traumatica, che vede direttamente implicata la persona del lavoratore», che rappresenta un «esercizio arbitrario del potere di licenziamento» e il «contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro». Lettura giuridica che lascia perplessi e a cui non si ritiene di aderire. Non si vuole sottostimare la rilevanza che assume la tutela reale ai fini del ripristino del rapporto di lavoro e quale guarentigia di effettività per l’esercizio dei diritti e delle libertà individuali e collettive dei lavoratori in costanza di rapporto; neppure si intende metabolizzare passivamente le controverse scelte di politica del diritto sposate dal legislatore 2012 (prima e da quello del 2015 poi); né, infine, si possono ignorare le vistose farraginosità rimediali previste nell’art. 18 Stat. lav. (tra cui assumono certamente ruolo preminente i due elementi sottoposti al vaglio di costituzionalità dalle due ordinanze). Lascia d’altro canto dubbiosi che la censura di incostituzionalità venga risolta affermativamente sulla base del diverso trattamento (supposto irragionevole) riservato ai vizi motivazionali nell’ambito delle due tipologie di licenziamento; non persuade, in altri termini, l’equiparazione tecnico-giuridica tra grave vizio motivazionale e presenza di una condotta arbitraria (o pretestuosa) da parte datoriale [13]. Che i presupposti del licenziamento per ragioni soggettivo-disciplinari e per ragioni economico-oggettive siano profondamente differenti pare ampiamente confermato non soltanto dagli orientamenti della giurisprudenza e dalle elaborazioni degli studiosi [14], ma pure dalla costante scelta, in ordinamenti nazionali anche molto diversi tra loro, di contrapporre sotto il profilo definitorio i due istituti [15] (è quanto peraltro accaduto anche nella realtà italiana, a [continua ..]


4.2. Le potenziali conseguenze sull’architettura rimediale del “Jobs Act”

A meno di tre anni dalla novella oggetto del giudizio il legislatore è nuovamente intervenuto sulla disciplina del licenziamento con il Jobs Act ribadendo, e anzi rafforzando, la distanza rimediale per i vizi motivazionali in caso di recesso disciplinare e in caso di recesso economico [32]. In quest’ultima ipotesi, infatti, la più recente riforma esclude esplicitamente la possibilità di ottenere il ripristino del rapporto; per il licenziamento soggettivo, invece, la reintegrazione consegue all’insussistenza del fatto contestato al lavoratore. Stante l’ancor più marcata differenza sanzionatoria rispetto a quella prevista nell’art. 18 Stat. lav. si potrebbe preconizzare un nuovo e ulteriore rinvio alla Consulta per vagliare la costituzionalità del contratto di lavoro a “tutele (semi) crescenti” di cui al d.lgs. n. 23/2015. Potrebbe infatti essere rilevato un trattamento irragionevolmente eterogeneo dinanzi alla (asserita) “medesima” insussistenza. Tale eventuale decisione si fonderebbe facilmente su argomenti analoghi a quelli adottati nella pronuncia in commento e sarebbe una presa di posizione della Consulta con conseguenze pratiche notevoli, incidendo profondamente (dopo Corte Cost. 8 novembre 2018, n. 194) sulla struttura portante tratteggiata dal legislatore del Jobs Act [33]. Tra gli effetti indesiderati della sentenza del primo aprile si potrebbe addirittura giungere ad ipotizzare, spingendosi sino al limite del paradosso, un intervento legislativo finalizzato a modificare in senso “equitativo” l’impianto rimediale previsto dal d.lgs. n. 23/2015, che magari sposti ancor di più la linea di bilanciamento tra primo e secondo comma dell’art. 41 Cost. verso istanze liberiste, rimuovendo la tutela reale anche per i licenziamenti soggettivi [34].


4.3. Altri spunti

Come visto, la Consulta ritiene che «il vaglio della genuinità della decisione imprenditoriale garantisce che il licenziamento rappresenti pur sempre una extrema ratio e non il frutto di un insindacabile arbitrio». Il riferimento al­l’extrema ratio (del licenziamento economico) è quasi estemporaneo e, tuttavia, rimanda ad un dibattito scientifico e complesso a cui qui non si può certo dedicare lo spazio adeguato. Nell’economia della decisione, tuttavia, il richia­mo al licenziamento quale soluzione estrema sembrerebbe poco più che apodittico [35]: non parrebbe ragionevole trarne perciò significati evocativi o addirittura ermeneutici. Non si può d’altro canto escludere che la volontà della Corte fosse nel senso di utilizzare una formula tanto suggestiva al fine di giungere ad ulteriori conclusioni (o alludere implicitamente ad alcune ricostruzioni dottrinali): ma tutto ciò non è stato punto esplicitato e andrebbe oltre le intenzioni di questo contributo il provare a tratteggiarle. Un secondo argomento su cui si era fondata l’ordinanza di rinvio è quello della censura alla discrezionalità giudiziaria “acausale”, in quanto non ancorata a criteri oggettivi o a requisiti motivazionali. La decisione della Consulta si sarebbe ben potuta limitare a dichiarare l’incostituzionalità della facoltà prevista al comma settimo sulla base dell’assenza di qualsiasi parametro cui ancorare l’esercizio della discrezionalità giudiziaria; se si fosse contenuta a questo piano, che peraltro consente di far ricorso ad argomenti ben più convincenti e condivisibili, si sarebbe ottenuto un effetto giuridico immediato analogo a quello cui la Corte ha però voluto giungere per altra via. Volendo focalizzarsi sulle conseguenze mediate e ulteriori derivanti del decisum, non può certo considerarsi neutrale la strategia motivazionale adottata. Un primo effetto è, come detto, quello di proiettare un’ombra di incertezza sulla tenuta costituzionale del Jobs Act. Un secondo, immediatamente colto dal giudice remittente medesimo, si collega alla scelta legislativa di ricorrere al carattere manifesto dell’insussistenza soltanto nell’ambito del licenziamento economico. Prima di passare al commento dell’ordinanza più recente del tribunale ravennate, sia consentita [continua ..]


5. I contenuti della “nuova” ordinanza del 6 maggio 2021

Giunge senza quasi soluzione di continuità la seconda ordinanza del Tribunale di Ravenna [41]; questa volta ponendo in dubbio la costituzionalità del distinguo tra reintegrazione in caso di (semplice) insussistenza del licenziamento disciplinare (rectius: in caso «non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato») e medesima forma di tutela soltanto dinanzi ad una insussistenza di carattere manifesto del fatto posto a base del licenziamento per motivo oggettivo. La seconda ordinanza si presenta articolata, verbosa e a tratti ridondante: non sarebbe possibile e nemmeno utile un richiamo analitico. Il remittente ritiene in sostanza che «le ragioni del ragionamento egualitario della Consulta debbano trovare applicazione anche circa l’ulteriore elemento discriminante il regime di tutele del licenziamento soggettivo rispetto al licenziamento per motivo economico», trattandosi di «regimi sanzionatori entrambi relativi all’ipo­tesi di accertamento in giudizio dell’inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento (e, dunque, il massimo vizio, nullità in disparte [42])». L’ar­gomento, che il remittente ritiene più solido e che spende diffusamente, è basato sull’asserita inversione dell’onere probatorio; onere che ricadrebbe in capo al lavoratore qualora volesse ottenere il riconoscimento della manifesta insussistenza. Ecco il passaggio centrale in cui viene espressa tale lettura: «in caso di mancato raggiungimento del convincimento del giudice circa la “manifesta” insussistenza, la soccombenza sulla domanda di reintegra andrà in capo al lavoratore. Così facendo la disposizione introduce (ai fini dell’accoglimento della tutela in forma specifica) un duplice effetto eccentrico rispetto alle regole generali: altera il metro di giudizio e di valutazione delle prove che il giudice deve applicare (in luogo della preponderanza probatoria si richiede una “manifesta” infondatezza) e allo stesso tempo inverte anche l’onere della prova (ponendolo a carico del lavoratore) circa i fatti che devono essere provati per accedere alla reintegra». Il remittente ne fa seguire dei corollari applicativi su cui non si ritiene di soffermarsi, stante le riserve che suscita questa impostazione. [continua ..]


6. Osservazioni conclusive

Sulla base dell’impianto motivazionale costruito dalla sentenza della Corte, è ragionevole ipotizzare che anche questa seconda ordinanza possa ricevere accoglimento. Come si è cercato di argomentare, lascia perplessi l’assunto di fondo secondo cui il legislatore violerebbe l’art. 3 Cost. ove volesse distinguere sotto il profilo rimediale tra un licenziamento per ragioni soggettive e uno per ragioni oggettive quando siano entrambi afflitti dal medesimo grave vizio sostanziale. La recente ordinanza rappresenta un primo portato applicativo di questa posizione interpretativa; in attesa, come si può predire con poco sforzo, di un ulteriore rilievo costituzionale sugli equilibri stessi voluti dal legislatore per mezzo della legge 10 dicembre 2014, n. 183, e del d.lgs. n. 23/2015. Pur dinanzi alle controverse scelte del legislatore del 2012 e del 2015, non si può sottostimare gli effetti del ricorso a questa reiterata tecnica del rinvio alla Consulta. La Corte costituzionale, infatti, non può che intervenire sulla legge in modo parziale e incidentale; talvolta non potendo far altro che decidere su uno specifico aspetto e trasferendo nuove incertezze su altri profili. È quanto accaduto in questa circostanza, soprattutto a causa della prospettiva giuridica adottata. Il diritto di fonte “pretoria”, quand’anche di rango costituzionale, non sembra possedere gli strumenti tecnici idonei a surrogare nemmeno in parte le prerogative del potere legislativo. D’altro canto merita d’es­sere ricordato l’ammonimento di Gino Giugni che, in occasione della discussione della prima legge sui limiti al licenziamento, avvertì come «la efficienza delle sanzioni dipende largamente dal rapporto di corrispondenza che esse trovano nella coscienza sociale; quando si eccedono questi limiti, emergono sem­pre reattivi che provocano le più gravi distorsioni applicative» [46]. Nel caso di specie sarebbe stato più immediato e “giuridicamente controllato” censurare la facoltà giudiziale sulla base dell’assenza di criteri d’esercizio, piuttosto che decidere di comparare due tipologie di licenziamento sì eterogenee. Soluzione che peraltro non avrebbe impedito di porre l’ulteriore questione sul carattere manifesto dell’insussistenza. Anche qui, non in forza di una asimmetria (pretesa costituzionalmente [continua ..]


NOTE