Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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La dignità nell'ordinamento italiano. Un percorso storico (di Paolo Passaniti, Professore associato di Storia del diritto medievale e moderno dell’Università di Siena)


Il saggio sviluppa il percorso storico-giuridico del concetto di dignità. Un concetto in gran parte legato alla dignità del lavoro. Il punto di partenza è l’ordine giuridico liberale in cui la dignità minima della persona coincide con la libertà di lavorare. Tra Ottocento e Novecento, la legislazione sociale corregge la disuguaglianza tra i contraenti con diritti minimi ma irreversibili. Nel corso del Novecento la grande questione della dignità del lavoro è esaltata nella Costituzione della Repubblica fondata sul lavoro, e quindi sull’idea del cittadino lavoratore. L’ultimo paragrafo indaga sulla grande domanda di dignità sociale come riflesso della crisi del diritto del lavoro.

Dignity in the Italian legal system. A historical path

The essay fellows the historical-juridical path of the concept of dignity. A concept largely related to the dignity of work. The starting point is the liberal legal order in which the minimum dignity of the person identifies with the freedom to work. Between the nineteenth and twentieth centuries, social legislation corrects the inequality between contractors with minimal but irreversible rights. During the twentieth century the great question of the dignity of work is exalted in the Constitution of the Republic founded on work and therefore on the idea of the citizen as a worker. The last paragraph investigates the great demand for social dignity as a reflection of the labour law crisis.

SOMMARIO:

1. Il punto di inizio. Dignità come liberazione del lavoro - 2. La dignità nel lavoro come fatto collettivo - 3. La cittadinanza del lavoro - 4. Alla ricerca della dignità perduta - NOTE


1. Il punto di inizio. Dignità come liberazione del lavoro

La dignità del lavoratore è uno dei profili alla base dell’ordine giuridico liberale fondato sulla libertà del commercio e la libertà del lavoro. Libertà dunque come scioglimento di ogni vincolo corporativo in una società caratterizzata dal livellamento degli individui in una cittadinanza orizzontale fondata sulla proprietà. L’unica dignità possibile per l’uomo senza proprietà è costituita dalla libertà di prestare, scambiare, locare, e quindi anche un po’ vendere, un’o­pera governata dalla contrattualità. Si tratta di un dato di rilevanza costituzionale, un paletto ineliminabile che dalla Dichiarazione dei diritti del­l’uomo e del cittadino del 24 giugno 1793 arriva al codice napoleonico e, attraverso questo, al codice civile italiano del 1865. Ai sensi dell’art. 18 della Dichiarazione “Ogni uomo può impegnare i suoi servizi, il suo tempo; ma non può vendersi, né essere venduto; la sua persona non è una proprietà alienabile. La legge non riconosce domesticità; può esistere solo un vincolo di cure e di riconoscenza tra l’uomo che lavoro e quello che lo impiega». Tutto insomma è ricondotto alla proprietà, la cittadinanza implica la piena padronanza di sé, in una sorta di palese rielaborazione dell’antropologia lockiana: «ogni uomo ha la proprietà della sua persona […] Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi» [1]. Tutti sono proprietari, anche coloro che non posseggono niente altro che la capacità di lavorare che diviene un attributo della persona: una proprietà, sì, ma inalienabile. Dignità come consistenza pubblica di base della persona che coincide con la libertà di disporre del proprio corpo: libertà di lavorare e libertà dal lavoro (libertà di non lavorare più). Una libertà iniziale e finale che lascia in attesa di risposte (sociali) gli interrogativi posti dalla domanda di libertà nel lavoro, i requisiti di dignità della persona necessari per configurare i parametri della contrattualità fondata sulla tendenziale eguaglianza dei contraenti. La domanda di dignità sociale del lavoro che coincide con la dignità sociale del [continua ..]


2. La dignità nel lavoro come fatto collettivo

La vuota contrattualità eretta a criterio ordinante si trasforma in qualcosa di diverso nel ciclo lavorativo dettato dai ritmi del capitalismo. Un ciclo strutturato su regole imposte alla massa dei lavoratori che alla spicciolata varcano i cancelli dello stabilimento. Nel regime aziendale rappresentano dei numeri, non delle persone e tantomeno dei contraenti. L’insieme funzionale di queste anonime individualità, che assumono senso soltanto nella cooperazione coordinata, costituisce il «Personale» [23]. La contrattualità consiste nel varcare l’ingresso, accettando le regole d’ingaggio fissate nel regolamento di fabbrica che è una sorta di manifesto di «autocrazia padronale» [24]. Ecco allora che il discorso sulla dignità si ripropone, in una dimensione collettiva collegata a una prospettiva di rappresentanza politica del lavoro. Una dignità da affermare con lo strumento dello sciopero che sino al 1889 è ancora un reato, al fine di modificare le condizioni di lavoro in quello scandaloso livello collettivo [25] che per qualche eretico rappresenta l’unico contratto di lavoro possibile nella società industriale [26]. La politicizzazione strisciante della questione lavoro si coglie nel nesso sciopero-con­tratto collettivo – organizzazione politica dei lavoratori tutto sul filo di una dignità del lavoro da ristabilire nel nuovo contesto lavorativo, dall’industria al­l’agricoltura. Occorre considerare come l’industria rappresenti lo scenario tipico del mondo del lavoro trasformato dal capitalismo: la spersonalizzazione dei rapporti che crea quell’uniformità di interessi alla base della sindacalizzazione. Una sindacalizzazione che coinvolge anche il mondo delle campagne, scosso da processi di trasformazione in senso imprenditoriale capaci di alterare anche internamente patti colonici apparentemente immutabili come la mezzadria. Le leghe contadine che si affermano tra Otto e Novecento nell’Italia centrale sono il riflesso della tendenza ad uniformare le regole della mezzadria all’interno delle grandi tenute e poi in aree sempre più vaste. Gli scioperi mezzadrili all’inizio del Novecento [27], oltre ai dati vertenziali sull’equilibrio economico, pongono al centro del discorso la dignità dei mezzadri come persone e cittadini, con [continua ..]


3. La cittadinanza del lavoro

Il discorso sulla dignità del lavoro riaffiora alla Costituente [36] dove non è mai in discussione il punto di incontro tra i grandi partiti di massa sul lavoro come fondamento democratico. Si può discutere certo se la Repubblica debba essere una Repubblica di lavoratori, ma non sul lavoro come unità di misura della cittadinanza democratica, «compimento d’un processo storico d’inclu­sione» [37]. In questo discorso la dignità sociale è il punto di partenza, la premessa per l’effettivo inserimento dei lavoratori nel circuito della rappresentanza politica presupposto del funzionamento democratico della Repubblica. I costituenti tratteggiano la figura del cittadino attraverso il lavoro, tanto è vero che la norma fondamentale in termini di sicurezza sociale, l’art. 38, è fondata sulla figura dell’inabile al lavoro. Nella dimensione costituzionale, il lavoro non è un lavoro qualsiasi, un’unità occupazionale generica da contabilizzare, non è un lavoretto. I costituenti pensano a un lavoro in grado di dare dignità sociale al prestatore, qualificandolo in termini di cittadinanza professionale: «chi non lavora non ha, ma soprattutto non è», semplifica in maniera illuminante Umberto Romagnoli [38]. Il lavoro si attacca alla persona [39] e dunque deve essere retribuito in maniera equa e soddisfacente in modo da assicurare una vita libera e dignitosa all’in­tero nucleo familiare. La dignità sociale è dunque il lavoro, e il lavoro è dignità sociale, l’unica dignità sociale possibile in una Repubblica fondata sul lavoro. In questa fase di costruzione del più democratico dei diritti dalle ceneri del più fascista dei diritti, dignità sociale e diritti dei lavoratori sono termini interscambiabili, in una figura come quella di Giuseppe Di Vittorio che personifica, nel lungo tragitto dalle cafonerie di Cerignola sino al vertice della Federazione sindacale mondiale, il concetto di dignità del lavoro come fattore di elevazione morale ed elemento complessivo di civiltà. Intorno alla figura del cittadino lavoratore e al riconoscimento dei suoi diritti costituzionali ruota la proposta lanciata da Di Vittorio al III° Congresso della Cgil nel 1952 di uno Statuto dei diritti dei lavoratori [40] in [continua ..]


4. Alla ricerca della dignità perduta

Sino agli anni Ottanta, per i molti lavoratori italiani che non avevano conosciuto la Serie A del diritto del lavoro, operando nella dinamica Serie B della piccola impresa e dei lavori nei servizi, era più il ciclo economico che non il diritto di lavoro ad offrire la vera garanzia di stabilità, intesa come non interruzione del disegno esistenziale: il cambio di lavoro in continuità occupazionale, ma non di vita, insomma. La congiuntura copre le magagne di un sistema di sicurezza sociale incompiuto, inteso come proiezione delle garanzie per il lavoro. Oltretutto nell’ambito di un modello di welfare lavoristico come quello italiano [53], la crisi di uno Stato sociale, «nato tardi e male» [54], si sovrappone a quella del diritto del lavoro novecentesco sulla base del quale era stato concepito. Nella Repubblica fondata sul lavoro il prototipo di riferimento dell’area della protezione sociale è costituito dal lavoratore subordinato. Una vera e propria antropologia giuridica che qualifica in difetto i non subordinati, perché non ancora entrati o già usciti dal mercato del lavoro o inabili. Gli anni Ottanta costituiscono una grande illusione con le prime politiche di flessibilità costruite intorno all’erosione delle garanzie, compensate dalla crescita economica che favorisce la mobilità lavorativa e persino il grande salto di lavoratori subordinati nella piccola impresa. Mancano tuttavia risposte culturali e normative all’altezza di un mutamento antropologico che porta alla prospettiva dell’«uomo flessibile» [55]: non solo e non tanto cosa fare nel lavoro, quanto e soprattutto cosa fare con il lavoro in una dimensione complessiva che riguarda la prospettiva esistenziale della persona. Il diritto del lavoro si trova così costretto a dare risposte che ripropongono il nodo genetico del rapporto con l’economia [56], che attraversano la riflessione giuslavoristica volta a inseguire, in modi diversi e non sempre coerenti, le tutele sfuggenti, senza riuscire a vedere più la persona, il senso del lavoro, di certi lavori per la persona. La progressiva disarticolazione del modello del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato negli ultimi decenni, con processi di precarizzazione sistemica e di impoverimento del lavoro, conduce ormai alla «decostituzionalizzazione» [continua ..]


NOTE