Il presente lavoro tratta il tema dei diritti dei ricercatori universitari, scaturenti dalle invenzioni finanziate, in tutto o in parte, da soggetti privati ovvero realizzate nell’ambito di specifici progetti di ricerca finanziati da soggetti pubblici diversi dall’università, ente o amministrazione di appartenenza del ricercatore e disciplinate dall’art. 65, comma 5, d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della Proprietà Industriale, di seguito “CPI”). Il contributo ripercorre l’evoluzione che ha condotto all’attuale formulazione della norma, sino alla introduzione nel nostro ordinamento del c.d. “privilegio accademico”. Conseguentemente, mediante una lettura sistematica della disciplina sulle invenzioni accademiche, si porranno in evidenza gli effetti e le ricadute applicative dell’art. 64 CPI che regola in via generale i diritti sulle invenzioni dei dipendenti e costituisce necessariamente la fonte integrativa della disposizione in esame.
This work deals with the university researchers’ rights arising from inventions financed by private bodies, in full or in part, or carried out in the context of specific research projects financed by public bodies other than the university, entity or agency to which the researcher belongs and regulated by Article 65, paragraph 5 of the Italian Legislative Decree No. 30 of 10 February 2005, “Industrial Property Code” (hereinafter “CPI”). The essay will trace the evolution that led to the current wording of the law, until the introduction in our legal system of the so-called “professor’s privilege”. Subsequently, through a systematic analysis on the regulation about academic inventions, the effects and application of Article 64 CPI, containing rules on rights arising from employees’ inventions in general, will be highlighted, as it constitutes a supplementary source of the provision under examination.
Keywords: university researchers – financed inventions – discipline.
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1. L’evoluzione della normativa sulle invenzioni accademiche ed i problemi interpretativi - 2. Ricerca vincolata e titolarità dei diritti derivanti dall’invenzione - 3. Le ricadute applicative dell’art. 64 CPI - 4. Attività di ricerca e invenzione come 'risultato in senso pregnante' - 5. 'Privilegio accademico' e dubbi di costituzionalità - 6. Ricercatori non subordinati - NOTE
Nell’attuale contesto economico, caratterizzato da una pesante e perdurante riduzione dei finanziamenti pubblici alle università [1], la ricerca di fondi da parte di soggetti privati, in varia forma, ha assunto un ruolo centrale. Fino al 2001, la norma che regolava la titolarità delle invenzioni dei dipendenti, era l’art. 34 del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, secondo cui i diritti derivanti dall’invenzione industriale, sviluppata nell’esecuzione di cui contratto di lavoro che prevedesse l’attività inventiva come oggetto del rapporto ed a tale scopo retribuita, appartenevano allo Stato, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore. Tale norma dunque stabiliva la regola della titolarità dei diritti sulle invenzioni in capo all’ente di appartenenza [2], analogamente a quanto disposto dalla maggior parte dei regimi “brevettuali” europei [3] e a quello nordamericano [4]. Con l’art. 7 della legge n. 383/2001 (c.d. Legge Tremonti-bis) il legislatore italiano, all’insegna dello slogan “invenzioni agli inventori”, ritenne che una regola di titolarità individuale fosse maggiormente innovativa rispetto alla tradizionale titolarità istituzionale [5] assolvendo la funzione di incentivo a brevettare [6]. Cosicché, riesumando una vecchia norma del regio decreto n. 1127/1939, prese vita l’art. 65 CPI, il quale ha reintrodotto nell’ordinamento il c.d. principio di attribuzione individuale, denominato “privilegio accademico” (professor’s privilege) [7]. In tal modo, l’università può validamente appropriarsi dei diritti sull’invenzione, solo nel caso in cui abbia ottenuto espressamente l’assenso da parte del ricercatore [8]; diversamente, l’art. 64 CPI [9] invece prevede, per tutti i dipendenti degli enti privati, nonché degli enti pubblici non di ricerca, l’assegnazione del diritto di sfruttamento economico direttamente al datore di lavoro [10]. È apparso subito evidente però che tale sistema di attribuzione avrebbe portato le università a dover negoziare ed investire su una proprietà industriale della quale non sarebbero stati titolari [11]. Per ovviare a queste criticità, il legislatore è corso ai ripari con il d.lgs. 10 febbraio [continua ..]
La prestazione lavorativa del comma 5 dell’art. 65 CPI è stata definita “ricerca vincolata” [14], per differenziarla da quella del comma 1, nella quale i ricercatori godono di libertà nello svolgimento della propria attività. Un’autorevole dottrina ha ravvisato nell’art. 65 CPI un sistema di doppia attribuzione della titolarità delle invenzioni accademiche (c.d. “sistema dualistico” [15]). In questo senso, deve ritenersi vincolata la ricerca che, costituendo esecuzione di commesse che l’università si è obbligata ad eseguire su incarico (e, soprattutto, dietro finanziamento) di soggetti pubblici o privati, è definibile come attività di prestazione, essendo associata a contratti e convenzioni [16]. In dottrina si è individuato nell’esistenza di un contratto di ricerca che lega l’ente pubblico di ricerca al committente un elemento essenziale per potersi configurare un “finanziamento di scopo a carico del soggetto esterno all’università” [17]. Si tratta sicuramente di un obbligo di prestazione a carico dell’università. Assai più incerta è invece la sussistenza dell’obbligo del ricercatore di svolgere ricerca su argomenti che non sono stati da lui prescelti [18]. È libera, invece, la ricerca che il personale accademico effettua in esecuzione dell’obbligo fondamentale derivante dal rapporto di lavoro, in aggiunta a quello riguardante l’attività di insegnamento; tale ricerca è lato sensu finanziata con denaro pubblico, in quanto il personale accademico è retribuito dall’università, anche se questa retribuzione è il corrispettivo della sola attività di ricerca, non finalizzata all’ottenimento di alcun risultato ulteriore che non sia quello di creare le condizioni affinché l’università sia la sede primaria dell’attività scientifica [19]. La contrapposizione tra ricerca libera e ricerca vincolata si riflette anche sulla disciplina della titolarità dei diritti derivanti dall’invenzione brevettabile che, nella prima, viene conferita al ricercatore/persona fisica che l’ha sviluppata (c.d. “titolarità individuale”, art. 65, comma 1, CPI); nella seconda, invece, dovrebbe essere attribuita [continua ..]
Pur in assenza di un espresso rinvio legislativo, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che alle ipotesi disciplinate dall’ultimo comma dell’art. 65 CPI si applichi l’art. 64 CPI e che le invenzioni dei ricercatori universitari vengano trattate come le invenzioni di un qualsiasi altro dipendente di datore di lavoro privato o ente pubblico non di ricerca. Come è noto, la disciplina sulle invenzioni prodotte dai lavoratori subordinati, regolata dall’art. 64 CPI, prevede al primo comma che, quando l’invenzione industriale è sviluppata nell’esecuzione o nell’adempimento di un contratto, in cui l’attività inventiva è prevista come oggetto del contratto o del rapporto e a tale scopo retribuita, i diritti derivanti dall’invenzione stessa appartengono al datore di lavoro, salvo il diritto spettante all’inventore di esserne riconosciuto autore. Il secondo comma del medesimo articolo precisa che, se non è prevista né stabilita alcuna retribuzione in compenso dell’attività inventiva, i diritti derivanti dall’invenzione appartengono al datore di lavoro, ma all’inventore spetta, qualora il datore di lavoro o suoi aventi causa ottengano il brevetto o utilizzino l’invenzione in regime di segretezza industriale, un equo premio [31]. Queste due ipotesi sono del tutto distinte dalle invenzioni occasionali, disciplinate dal successivo art. 24, che ricorrono qualora l’invenzione sia del tutto indipendente dalle mansioni svolte dal lavoratore. In tal caso il lavoratore-inventore ha il diritto di brevetto, ma la legge ha attribuito al datore di lavoro un diritto di prelazione per l’uso dell’invenzione o per l’acquisto del brevetto, dietro corresponsione di un prezzo [32]. Dunque, il ricorso all’art. 64 CPI pone, in primo luogo, il problema se debba applicarsi la disciplina delle invenzioni di servizio di cui al comma 1, o quella delle invenzioni di azienda di cui al comma 2 con il connesso diritto all’equo premio. Per comprendere appieno i termini della questione, è necessario tornare sugli orientamenti interpretativi sviluppatisi in seno alla disciplina generale delle invenzioni del lavoratore (art. 64 CPI) e sulla loro connessione, nel ruolo di fonte integrativa, con la fattispecie di cui al comma 5 dell’art. 65 CPI. La ratio dell’intero art. 64 CPI [continua ..]
Nel regolare gli effetti dell’attività inventiva, ai fini del diritto allo sfruttamento del prodotto, l’art. 64 CPI fa riferimento ad un rapporto di lavoro subordinato in cui “l’attività inventiva” è prevista come oggetto del contratto stesso [45] (riferendosi quindi alle mansioni di assunzione o successivamente dedotte [46]) e “a tale scopo retribuita”. Da ciò deriva una prima grande delimitazione sul significato della locuzione “attività inventiva” che, essendo riferita ad un lavoratore subordinato, non può essere estesa fino a ricomprendere anche lo specifico risultato, come si ricava a contrario dal comma 2 dello stesso art. 64 CPI, che prevede la diversa fattispecie dell’equo premio nel caso in cui “non è prevista e stabilita una retribuzione, in compenso dell’attività inventiva”. Questo rilievo chiarisce che la specifica retribuzione, prevista ai fini e per gli effetti del comma 1 dell’art. 64 CPI, è comunque dovuta quale corrispettivo dell’attività di ricerca o, se si vuole, prodromica ad un’invenzione solo eventuale. Infatti, la creazione del trovato, da un punto di vista delle obbligazioni contrattuali, si pone come il risultato della prestazione lavorativa dell’inventore, più che come il suo contenuto. Questo aspetto, ovviamente, non riguarda la tematica delle obbligazioni di mezzi e di risultato [47], bensì concerne il diverso aspetto della ampiezza o tipologia delle mansioni convenute e cioè, appunto, del contenuto della prestazione oggetto del contratto di lavoro [48]. A tal proposito, come è noto, gran parte della dottrina lavoristica, pur se mediante differenti ricostruzioni, è concorde nell’affermare la distinzione tra comportamento dedotto in obbligazione, cioè l’attività lavorativa ed il risultato di tale attività che, in quanto tale, è estraneo all’obbligazione stessa [49]. Quest’ultima, infatti, impone al lavoratore soltanto di tenere un comportamento “subordinato”, “diligente” e “fedele” e non di raggiungere, mediante tale comportamento, un risultato ulteriore [50]. A ben vedere, sia nel primo che nel secondo comma dell’art. 64 CPI, l’invenzione è prefigurata in diretta dipendenza da [continua ..]
Per tentare di comprendere a fondo il comma 5 dell’art. 65 CPI, occorre richiamare i motivi, accennati nel par. 1, per i quali, nel nostro ordinamento è stato reintrodotto il c.d. privilegio accademico, a differenza degli altri paesi ad economia maggiormente sviluppata, dove la titolarità istituzionale è norma largamente condivisa [59]. L’esperienza straniera è infatti tendenzialmente orientata nel riconoscere che i diritti sulle invenzioni realizzate nelle università spettano alle stesse università, salvo il diritto degli inventori alla percezione di una quota dei proventi che l’ente di appartenenza realizzerà dallo sfruttamento dell’invenzione stessa. Ed infatti, la stragrande maggioranza degli atenei esteri gestiscono attivamente e con introiti spesso importanti le proprie invenzioni [60]. Negli Stati Uniti, ad esempio, a seguito dell’emanazione del c.d. Bayh-Dole, già nel 1980, il regime della titolarità delle invenzioni realizzate in ambito accademico è diametralmente opposto a quello italiano, poiché le università e gli altri enti di ricerca sono assegnatari delle invenzioni e, di conseguenza, hanno la possibilità di sfruttarle economicamente, purché la ricerca sia stata finanziata da fondi pubblici federali [61]. In Germania, con la legge 18 gennaio 2002, il legislatore ha provveduto ad invertire il regime di titolarità sulle invenzioni accademiche attribuendone i relativi diritti agli atenei (seppure a titolo derivativo), riconoscendo al ricercatore-inventore sia una licenza non esclusiva relativamente all’utilizzo dell’invenzione nell’ambito della propria attività accademica, sia il diritto a percepire una quota dei proventi (del 30%) derivanti dallo sfruttamento economico del brevetto [62]. Il legislatore italiano, invece, ritenendo che la c.d. titolarità individuale fosse maggiormente innovativa rispetto alla tradizionale titolarità istituzionale, ha riesumato una vecchia norma del regio decreto n. 1127/1939, per dare vita all’art. 65 CPI e reintrodurre nell’ordinamento il principio di attribuzione individuale. Ma questo sistema di attribuzione non ha dato i risultati sperati, come si evince dal raffronto dei dati raccolti dal Network per la Valorizzazione della Ricerca Universitaria (Netval) [63], in cui emerge un trend stabile [continua ..]
Alle difficoltà interpretative sopra delineate, si aggiungano quelle relative alla applicabilità della disciplina dell’art. 65 CPI anche a coloro che comunque svolgono attività di ricerca nell’ambito dell’università, ma non sono ricercatori o professori di ruolo, essendo legati all’accademia da altre forme di collaborazione (ad es. professori a contratto, dottorandi, assegnisti ecc.). Dal punto di vista soggettivo, la norma fa esclusivo riferimento al ricercatore dipendente e, pertanto, si pone il problema di capire quali siano le sorti dell’invenzione di coloro che, pur svolgendo attività di ricerca, non sono dipendenti o non sono lavoratori subordinati, ovvero non rientrano nel personale di ruolo o strutturato. Il problema nasce in quanto all’interno delle università è presente un consistente numero di ricercatori non dipendenti che svolgono attività di ricerca e giungono ad invenzioni brevettabili, rappresentando un punto di forza per il mondo universitario. Gli “interni” non dipendenti degli atenei italiani, infatti, sono moltissimi e una parte importante della ricerca è dovuta ai ricercatori lato sensu che restano non dipendenti sino a quando sono progressivamente incorporati nell’ente. Si è sostenuto che a questi “interni” non dipendenti si potrebbe applicare la norma sulle invenzioni dei lavoratori autonomi ai quali, ormai, con l’art. 4 della legge n. 81 del 22 maggio 2017, è estesa la disciplina delle invenzioni dei dipendenti se “l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata”. Di conseguenza, fuori da queste ipotesi (cioè nel caso in cui i diritti di utilizzazione economica relativi ad apporti originali e a invenzioni realizzate nell’esecuzione del contratto di lavoro autonomo spettano al committente), le parti potrebbero liberamente disciplinare in via negoziale l’appartenenza della titolarità dei diritti sulle invenzioni. Pertanto, ove le parti non abbiano stabilito alcunché, i diritti derivanti dalle invenzioni realizzate dal personale interno non dipendente apparterrebbero all’università solo nei limiti dello scopo del contratto. In entrambi i casi, dunque, siffatti diritti non sarebbero acquistati in via derivativa, ma immediatamente per l’effetto [continua ..]