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Il Jobs Act e la protezione del lavoro: variazioni metodologiche
Maurizio Del Conte (Prof. associato di diritto del lavoro dell’Università Bocconi di Milano)
L’articolo muove dalla analisi della evoluzione del mercato del lavoro italiano nelle riforme degli ultimi vent’anni e offre una interpretazione del significato del nuovo corso del diritto del lavoro ridisegnato dal “Jobs Act”, la riforma attuata dal governo di centro sinistra nel 2015 con l’obbiettivo di stimolare le imprese a fare uso dei contratti di lavoro subordinato mendiante l’azione congiunta di tre leve: a) riduzione dei costi contributivi; b) introduzione del contratto di lavoro a tempo indeterminate a tutele crescenti, con costi certi per i casi di licenziamento illegittimo e riduzione della tutela reintegratoria ad extrema ratio. La tesi sostenuta dall’A. è che la promozione del lavoro subordinato contribuisce alla evoluzione di modelli organizzativi più efficienti, nel tentativo di costruire un migliore equilibrio tra lavoratori stabili e temporanei che può contribuire a dare equità ed efficienza al mercato del lavoro italiano nello scenario della competizione economica globale.
The paper starts from the analysis of the evolution of the Italian labour market in the refors of the last twenty years and put forward an interpretation of the new course of Labour Law set in motion by the “Jobs Act”, the reform enacted by the centre-left backed Government in 2015 with the task of giving a strong stimulus to companies to adopt open-end contracts for subordinate work by means of three levers: a) reducing social security costs; b) introducing a subordinate work contract subject to increasing protection, together with sure costs for unfair dismissal and limiting reinstatement protection to last resort; c) extending the legislation of subordinate work to irregular forms of collaboration offered by the employer. The thesis is that the focus back on subordinate work promotes the evolution of more efficient organizational models in an attempt to reconstruct a better balance between core and contingent work which can contribute to giving equity and efficiency to the Italian job market in the prospect of worldwide economic competition.
Keywords: Jobs Act, precariousness, open-ended contract, subordinate work, job protection
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1. Premessa
La riforma scaturita dalla legge di delegazione n. 183 del 10 dicembre 2014 – nota come “Jobs Act” – tocca alcuni dei macro-ambiti nei quali tradizionalmente si esplicano gli effetti del diritto del lavoro: mercato, contratto e assistenza. Fuori dall’intervento riformatore è rimasta la struttura della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva, sulla quale il parlamento non aveva dato delega. Ma resta escluso anche il delicato tema del salario minimo che, invece, era stato esplicitamente oggetto di delega al governo ma che – come in realtà avrebbe dovuto avvertire il legislatore delegante – difficilmente avrebbe potuto essere oggetto di intervento normativo senza sconfinare nel campo dalle relazioni industriali.
Non di meno, la varietà e complessità degli ambiti di intervento della riforma è di tale portata da renderne impossibile una lettura sinottica. Gli otto decreti legislativi, entrati in vigore nelle tre tornate di marzo, maggio e settembre del 2015, toccano aspetti eterogenei per natura e ambito regolatorio: dalla introduzione del contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti all’azzeramento del costo contributivo per le nuove assunzioni; dalla realizzazione di un sistema generalizzato di tutela del reddito contro la disoccupazione involontaria alla creazione di una rete nazionale dei servizi per le politiche attive del lavoro, passando per il ridimensionamento del ruolo della cassa integrazione guadagni; dalla introduzione di nuovi strumenti di conciliazione tra tempo di vita e tempo di lavoro ad una più efficace tutela della lavoratrice madre; dalla semplificazione delle regole e delle tipologie contrattuali esistenti al rafforzamento del sistema di contrasto al lavoro irregolare.
Tale essendo la vastità dell’intervento riformatore, una operazione di “recondutio ad unum” sarebbe fuorviante. E, tuttavia, è possibile guardare all’intero tessuto normativo prodotto dalla riforma come ad una universalità di norme – quasi un “testo unico” – accomunate dalla finalità di restituire valore al contratto di lavoro subordinato, incentivandone il ricorso da parte delle imprese, e liberare il lavoro autonomo dal sospetto di un suo utilizzo improprio. In estrema sintesi, si può dire che, per perseguire questa finalità, il legislatore ha attivato tre diverse leve: a) la riduzione del costo previdenziale; b) l’introduzione del contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti, al quale è associata la certezza di costi del licenziamento illegittimo, confinando ad ipotesi residuali la tutela reintegratoria; c) l’estensione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero-organizzate dal committente.
Se queste sono le leve che spingono verso la diffusione di un modello contrattuale considerato migliore degli altri, la maggiore flessibilità del mercato del lavoro che da esse consegue deve essere accompagnata da un intervento dello Stato a sostegno dei lavoratori che si trovino nella fase di transizione da un posto di lavoro all’altro, garantendo un adeguato sostegno al reddito e, al contempo, mettendo in essere azioni efficaci di accompagnamento verso una nuova occupazione in modo da ridurre al minimo i tempi di disoccupazione, dannosi in primo luogo per i lavoratori ma, in ultima istanza, per l’intera collettività.
Si tratta, quindi, di una reinterpretazione profonda del ruolo del diritto del lavoro con riferimento alle tutele da esso apprestate per i lavoratori, destinato a produrre un impatto sul quadro giuridico preesistente che, non a caso, ha fatto parlare di “cambio di paradigma” del diritto del lavoro in funzione di un modello di regolazione basato sulla flexicurity, che può essere sintetizzata nella formula: “meno tutele nel rapporto di lavoro in favore di una più estesa protezione del lavoratore nel mercato” [1]. In realtà la flexicurity è una espressione tanto abusata nel dibattito dottrinale quanto priva di precisione definitoria, richiamata spesso con riferimento a modelli assai differenti tra loro [2]. Tuttavia la rilettura, seppure sintetica, della nascita e dello sviluppo del dibattito, italiano ed europeo scaturito intorno al tema della flexicurity è importante per comprendere l’evoluzione delle riforme del mercato del lavoro succedutesi, quasi senza sosta, negli ultimi venti anni.
2. Il contesto di maturazione della riforma: la via europea alla flexicurity e la reazione Italiana nei primi anni 2000
Con l’inizio del terzo millennio la politica sociale comunitaria ha segnato una svolta piuttosto marcata rispetto alle precedenti fasi in cui si era concentrata nello sforzo di conseguire un generalizzato innalzamento delle tutele dei lavoratori. A partire dal 2000, con la c.d. strategia di Lisbona, il principale obbiettivo comunitario è diventato quello di flessibilizzare il mercato del lavoro Europeo al fine di incrementare sia i livelli occupazionali che la produttività del lavoro, puntando sulla c.d. “buona occupazione”, che allude ad una occupazione in grado di esprimere un più alto valore aggiunto per meglio competere nel mercato globale. Nei fatti il diritto del lavoro europeo, da strumento di innalzamento generalizzato delle tutele, si è fatto interprete delle esigenze di flessibilità del lavoro, sempre più fortemente espresse non solo dal mondo delle imprese, ma anche dagli stessi governi degli Stati membri. Così è successo che le politiche economiche europee, mosse dall’intento di perseguire obbiettivi di incremento quantitativo e qualitativo dell’occupazione, hanno spinto nella direzione della flessibilizzazione delle regole del mercato del lavoro e della disciplina dei contratti, con ciò mettendo in tensione le discipline protettive nazionali, spesso accusate di generare inefficienze di mercato oltre che iniquità fra gli stessi lavoratori.
Sul finire del 2006 la Commissione Europea ha lanciato il suo nuovo manifesto politico in materia di politica sociale, prima dello stravolgimento del panorama economico e sociale conseguente alla crisi finanziaria del 2008: il Libro Verde intitolato “Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo”.
L’obiettivo dichiarato del Libro Verde era quello di promuovere un dibattito pubblico nell’UE al fine di riflettere sul modo di far evolvere il diritto del lavoro in modo tale da sostenere gli obiettivi della strategia di Lisbona: ottenere una crescita sostenibile con più posti di lavoro di migliore qualità. In tale prospettiva – secondo il documento della Commissione – i mercati del lavoro europei avrebbero dovuto raccogliere la sfida consistente nel conciliare un maggiore flessibilità con la necessità di massimizzare la sicurezza per tutti.
Denunciando il pericolo di un mercato del lavoro a due velocità con, da una parte, i lavoratori “integrati" con un posto di lavoro permanente e, dall’altra parte, quelli “esclusi”, in particolare i disoccupati, le persone separate dal mercato del lavoro e quelle che si trovano in situazioni di lavoro precarie e informali, la Commissione chiedeva immediatamente agli Stati membri di valutare ed eventualmente rivedere il grado di flessibilità previsto nei contratti standard per quanto riguarda i termini di preavviso, i costi e le procedure di licenziamento individuale o collettivo o la definizione di licenziamento abusivo.
Questo tipo di interventi si sarebbero dovuti coniugare ad una più ampia politica sociale ispirata dal modello della c.d. “flessicurezza”, che comprende l’apprendimento permanente, che consente agli individui di mantenersi a livello per quanto riguarda le nuove competenze richieste; le politiche attive del mercato del lavoro, che aiutano i disoccupati o gli inattivi a reintegrarsi in questo mercato; regole più flessibili nel settore della sicurezza sociale per rispondere alle esigenze delle persone che cambiano lavoro o abbandonano temporaneamente il mercato del lavoro.
Ma la risposta ufficiale del Governo Italiano, in quel tempo retto da una seppur fragile coalizione di centro-sinistra, al Libro Verde è stata fredda in generale e particolarmente critica su alcuni aspetti specifici [3]. Nel giudizio del governo italiano, infatti, la flessibilità è posta in secondo piano rispetto alle tutele del lavoro e, in particolare, all’obbiettivo di una generalizzazione del lavoro standard a tempo indeterminato [4].
Nonostante la resistenza rispetto agli obbiettivi di fessibilizzazione più estremi, anche in Italia l’idea europea della “flexicurity” – e, in particolare, di creare un mercato del lavoro dove sia possibile coniugare una maggiore libertà nei licenziamenti con un sistema di welfare capace di aiutare i lavoratori che perdano il lavoro in conseguenza di ristrutturazioni aziendali mediante un sostegno al reddito e percorsi di riqualificazione professionale – ha influenzato il dibattito teorico, soprattutto tra economisti e sociologi [5]. In effetti, la ricetta base della flexicurity sembra esprimere l’ottimo Paretiano: le imprese sono libere di modulare gli stock di manodopera secondo le esigenze della produzione, ma i lavoratori non debbono preoccuparsi di perdere il posto di lavoro, perché lo Stato interviene con ammortizzatori sociali tendenzialmente universali e con un sistema di politiche attive che accompagna efficacemente i disoccupati verso un nuovo lavoro. Insomma, un sistema di welfare dinamico ed efficiente da cui, in un mondo ideale, tutti traggono beneficio.
3. Il tentativo di introdurre un modello di flexicurity in Italia ad opera della c.d. “riforma Monti-Fornero”
Tra la fine del 2011 e la primavera del 2012, in una fase di gravissima crisi del debito sovrano, il governo presieduto da Mario Monti ha varato una serie di riforme strutturali nel tentativo di rilanciare la competitività del sistema produttivo italiano e, soprattutto, di far riguadagnare fiducia nell’Italia da parte delle autorità politiche e finanziare europee. In tale contesto sembrava essere imprescindibile, fra le altre riforme strutturali, anche una riforma del mercato del lavoro che andasse verso il superamento della tutela reintegratoria per i licenziamenti illegittimi, in particolare per quelli dovuti a ragioni economiche dell’impresa. Al contempo, era necessario garantire ai lavoratori uno strumento universale di sostegno al reddito per la disoccupazione involontaria, fino ad allora inesistente in Italia, a differenza di quanto si riscontrava nella maggior parte dei paesi europei. Si trattava, in altri termini, di avviare anche in Italia un percorso di avvicinamento a quel modello di flexicurity che, a livello europeo, era stato assunto come riferimento per gli interventi di riforma del mercato del lavoro degli stati membri della Unione.
Nato proprio con lo scopo di varare con urgenza quelle riforme che l’Europa da tempo chiedeva all’Italia il governo Monti, a differenza dei suoi predecessori, era in forte sintonia con le istituzioni politiche e finanziarie europee. C’erano, dunque, le premesse politiche per una riforma del mercato del lavoro che traducesse in norma positiva le generali linee di indirizzo europee in tema di flexicurity.
In effetti gli obiettivi dichiarati all’art. 1, comma 1, legge n. 92/2101 – la c.d. riforma “Monti-Fornero” erano assai ambiziosi. La riforma si proponeva esplicitamente di introdurre “misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione, in particolare: a) favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili e ribadendo il rilievo prioritario del lavoro subordinato a tempo indeterminato, cosiddetto «contratto dominante», quale forma comune di rapporto di lavoro; b) valorizzando l’apprendistato come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro; c) ridistribuendo in modo più equo le tutele dell’impiego, da un lato contrastando l’uso improprio e strumentale degli elementi di flessibilità progressivamente introdotti nell’ordinamento con riguardo alle tipologie contrattuali; dall’altro adeguando contestualmente alle esigenze del mutato contesto di riferimento la disciplina del licenziamento, con previsione altresì di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie; d) rendendo più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell’occupabilità delle persone; e) contrastando usi elusivi di obblighi contributivi e fiscali degli istituti contrattuali esistenti; f) promuovendo una maggiore inclusione delle donne nella vita economica; g) favorendo nuove opportunità di impiego ovvero di tutela del reddito per i lavoratori ultracinquantenni in caso di perdita del posto di lavoro; h) promuovendo modalità partecipative di relazioni industriali in conformità agli indirizzi assunti in sede europea, al fine di migliorare il processo competitivo delle imprese.”
Già da tale premessa risulta evidente l’influenza del modello europeo della flexicurity e dell’obbiettivo di ridurre la precarietà conseguente al dualismo del mercato del lavoro, con una specifica enfatizzazione del lavoro subordinato a tempo indeterminato da intendersi come “contratto dominante”.
La legge n. 92/2012 ha affrontato l’eccesso di collaborazioni autonome seguendo un duplice binario: da un lato, prevedendo che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, (fatte salve le prestazioni di elevata professionalità) fossero considerati rapporti di lavoro subordinato nel caso in cui l’attività del collaboratore fosse svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell’impresa committente; dall’altro lato, disponendo che le prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto fossero considerate, salvo prova contraria, rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, qualora ricorressero almeno due dei seguenti presupposti: a) che la collaborazione con il medesimo committente abbia una durata complessiva superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi; b) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti riconducibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisse più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi; c) che il collaboratore disponesse di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente [6].
Dunque, con la legge n. 92/2012 entravano per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano indici quantitativi (con riferimento al reddito ed alla quota di esso derivante da un solo committente) determinanti per distinguere tra autonomia e subordinazione. Come è ovvio, la presunzione legale basata su requisiti quantitativi è uno strumento qualificatorio rozzo e, talvolta, anche fuorviante, ma si è dimostrato efficace nel ridurre il numero della collaborazioni autonome. Anche se si deve osservare che tale effetto è stato in parte determinato dal progressivo innalzamento delle aliquote contributive gravanti sui collaboratori autonomi, che ne ha reso economicamente meno vantaggioso l’utilizzo da parte delle imprese.
Si può, comunque, affermare che la riforma del 2012 ha contribuito a ridurre il fenomeno delle false collaborazioni autonome, attraverso la loro penalizzazione, sia in termini di rischio di riqualificazione in sede di eventuale contenzioso, che in termini di costo lordo complessivo per collaboratore. Il lato negativo di tale approccio è una generale ostilità dell’ordinamento giuridico nei confronti del lavoro autonomo e, quindi, un allontanamento delle imprese da quelle forme di collaborazione senza, tuttavia, che venissero sostituite dalla tipologia “dominante” del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. In altri termini, se è vero che la legge 2012 ha contribuito a ridurre il numero assoluto di collaborazioni autonome, essa non ha agito nel senso di reindirizzare la domanda di lavoro verso la tipologia del lavoro subordinato, in quanto non ha creato alcun incentivo, in termini assoluti, ma ha solo reso più oneroso il ricorso al lavoro autonomo. Per conseguenza il dualismo del mercato si è ridotto grazie ad una perdita secca di una quota di lavoro precario, al quale tuttavia, non ha fatto riscontro un corrispondente aumento della domanda di lavoro subordinato.
Tuttavia, sul piano degli effetti concreti, si sono rivelate meno incisive di quanto annunciato le due linee di riforma della legge n. 92/2012 specificamente intese a realizzare il quadro complessivo della flexicurity: a) il passaggio da un sistema di tutela reintegratoria ad un sistema di tutela indennitaria per il caso di licenziamento illegittimo (la flexibility) e b) la creazione di un sistema di ammortizzatori sociali contro la disoccupazione involontaria a copertura universale (la security).
Per quanto riguarda la realizzazione di un sistema di tutela indennitaria nel caso di licenziamenti illegittimi, il percorso della riforma del 2012 è stato condizionato dalla necessità di giungere ad una serie di compromessi con le diverse anime della coalizione di maggioranza che sosteneva il governo, tali da produrre un quadro regolatorio finale assai complesso e poco rispondente alla esigenza di certezza del diritto che la materia avrebbe richiesto.
4. Il “Jobs Act” del 2015 e il “contratto a tutele crescenti”
A poco più di due anni dal varo della riforma “Monti-Fornero” 92/2012, l’avvio del nuovo percorso riformatore del “Jobs Act” poteva ben suscitare il dubbio di un inutile accanimento terapeutico verso un diritto del lavoro che non riusciva a trovare pace e, con essa, l’assestamento degli orientamenti interpretativi sui nodi più complessi sollevati dai mutamenti normativi appena introdotti. E tuttavia, il perdurare della gravissima crisi economica e occupazionale, senza alcun segnale di inversione di tendenza, non poteva lasciare inerte il governo appena insediatosi, presieduto dal nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi.
Dal 2012 al 2014 i dati macro-economici dell’Italia sono rimasti negativi per tutti gli indicatori più rilevanti. Il PIL ha continuato a contrarsi segnando il più lungo periodo di recessione dal dopoguerra, mentre la disoccupazione ha continuato a crescere, fino ad arrivare, verso la fine del 2014, ad un tasso attorno al 13% e, con riferimento ai giovani fino ai 29 anni, a superare il 40%.
Perciò il nuovo progetto di riforma presentato dal governo Renzi ha avuto sin dall’inizio l’obbiettivo dichiarato di imprimere un profondo cambiamento nell’approccio al mercato del lavoro, senza timore di toccare alcuni presupposti assiologici della disciplina protettiva del lavoro sino ad allora sperimentata e fondamentalmente imperniata sulla conservazione del vincolo contrattuale tra datore di lavoro e lavoratore.
In tale prospettiva, la maggiore novità sul piano delle regole è stata la nuova architettura normativa del contratto a tempo indeterminato, denominato “contratto a tutele crescenti”, in combinazione con l’allargamento di tutte le tutele previste per il lavoro subordinato anche alle collaborazioni etero-organizzate dal committente.
Il contratto a tutele crescenti, che diventa la forma standard per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, è il cuore della riforma perché è su di esso che il legislatore ha immaginato di porre il baricentro del mercato del lavoro italiano [7].
A ben vedere, il contratto a tutele crescenti altro non è che il normale contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con tutte le ordinarie regole ad esso connesse, ma con una nuova disciplina in materia di licenziamento. In particolare, resta immutato il principio di giustificazione del licenziamento e, quindi, la disciplina prevista dalla legge n. 604/1966, ai sensi della quale il licenziamento individuale deve essere necessariamente sorretto da una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo (licenziamento per colpa del lavoratore o “disciplinare”) o da un giustificato motivo oggettivo (fra cui, anche se non esclusivamente, il licenziamento per ragioni economiche dell’impresa). Ma cambia radicalmente la sanzione associata al licenziamento privo di giustificazione. La regola generale è che, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, “il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.” Dunque, la sanzione per il licenziamento ingiustificato è di tipo economico, indipendentemente dalla natura disciplinare o economica del motivo addotto dal datore di lavoro, e la quantificazione dell’indennità è sottratta alla discrezionalità del giudice, essendo vincolata al fatto oggettivo della anzianità in azienda del lavoratore ingiustamente licenziato. La tutela reintegratoria resta confermata per il licenziamento discriminatorio o nullo e per i casi di licenziamento disciplinare nei quali il fatto materiale contestato dal datore di lavoro si riveli inesistente.
Una novità di grande impatto connessa al nuovo contratto a tutele crescenti è costituita dalla procedura di conciliazione agevolata. È previsto, infatti, che subito dopo il licenziamento, ed entro il termine di sessanta giorni, il datore di lavoro possa offrire al lavoratore, in una sede di conciliazione in cui sia presente anche un rappresentante del lavoratore, un assegno pari alla metà di quella che pagherebbe se risultasse soccombente nel giudizio di impugnazione del licenziamento. Per incentivare il lavoratore ad accettare tale assegno, la legge prevede che la somma offerta in sede di conciliazione sia esente da ogni onere contributivo e fiscale. In pratica, ciò significa che l’assegno di conciliazione corrisponde ad una cifra netta di poco inferiore a quella che il lavoratore percepirebbe (lorda) in caso di vittoria in giudizio, con il risultato di rendere molto probabile la scelta delle parti per una soluzione stragiudiziale e rapida della controversia.
Da questa nuova disciplina risulta un quadro di certezza del costi del licenziamento anche per le imprese di maggiori dimensioni, che dovrebbe sdrammatizzare l’assunzione a tempo indeterminato anche nell’incertezza delle prospettive di sviluppo dell’impresa. Anche sotto questo profilo è, quindi, chiara la finalità di incentivare le imprese ad optare per contratti di lavoro standard a tempo indeterminato anziché forme precarie, beninteso qualora non vi siano reali e specifiche esigenze di lavoro temporaneo.
Si è discusso molto sulle ragioni che hanno spinto il legislatore a differenziare il trattamento sanzionatorio del licenziamento illegittimo in funzione della data di entrata in vigore della riforma. L’effetto è l’introduzione di una nuova forma di “dualismo” delle regole, questa volta determinato dal semplice momento di stipulazione del contratto a tempo indeterminato. Corollario di tale effetto è che il nuovo regime di tutela si applica – almeno in prevalenza – ai giovani che si affacciano al mercato del lavoro. Ciò potrebbe essere letto come un atteggiamento di favore verso i lavoratori più anziani, ai quali sono stati conservati i privilegi della tutela reintegratoria.
Tuttavia, questa lettura, non tiene conto del mutamento di paradigma del concetto stesso di tutela del lavoro associato alla riforma. Che la reintegrazione rappresenti una forte protezione della stabilità del vincolo è fuori di dubbio. Ciò che, però, va considerato è che tale protezione ha, nei fatti, allontanato la platea dei giovani dal contratto a tempo indeterminato. Il dualismo del mercato del lavoro italiano tra lavoratori anziani protetti dalla tutela reintegratoria e giovani destinati ad accedere al lavoro mediante contratti ad orizzonte temporale preventivamente chiuso e, spesso, sforniti dell’intera protezione normativa e previdenziale tipica del lavoro subordinato, è stata una piaga che ha afflitto le nuove generazioni almeno negli ultimi due decenni. La precarietà dell’occupazione “ai margini”, cui è intrinsecamente connessa l’impossibilità di pianificare il futuro e, quindi, di accedere alle opportunità – anche del credito – destinate ai lavoratori muniti di contratto a tempo indeterminato, ha provocato una drammatica involuzione nel processo di crescita ed emancipazione sociale delle generazioni più giovani. Si tratta di un fenomeno testimoniato non solo dalle statistiche ufficiali, ma anche dalle esperienze personali di gran parte delle famiglie italiane.
Ebbene, la scelta di scambiare la tutela reale del singolo contratto di lavoro con una maggiore opportunità di accedere al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato è esattamente il portato del cambio di paradigma del concetto stesso di tutela del lavoro alla base dell’ultimo intervento riformatore.
Lo sforzo finanziario senza precedenti consistente nell’azzeramento – per un periodo di tre anni – dei costi previdenziali per i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato si combina esattamente con la chiara determinazione di provocare una inversione di tendenza delle imprese con riguardo al modo di determinare le regole di ingaggio con i giovani. Si è trattato, in altri termini, di una operazione di incentivazione delle imprese a riscoprire – non per costrizione ma per convenienza – lo strumento contrattuale fisiologico per l’instaurazione di un rapporto di collaborazione duratura e inserita nella organizzazione produttiva: il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Una operazione ad alto potenziale di rischio, una scommessa che avrebbe potuto non sortire gli effetti voluti, se le nuove regole non avessero pienamente convinto le imprese. I numeri delle conversioni di contratti precari di nuovi contratti a tempo indeterminato dicono oggi, a meno di un anno dal varo della riforma e in una situazione congiunturale ancora incerta, che la scommessa ha avuto un esito positivo.
È perciò controvertibile sul piano fattuale la tesi secondo la quale il contratto a tutele crescenti avrebbe penalizzato i più giovani: un confronto tra lo status contrattuale dei giovani pre e post riforma del 2015 vede una larga quota di questi ultimi in una posizione di netto miglioramento rispetto al recentissimo passato.
È ben possibile che, in virtù dei minori costi di separazione connessi al nuovo regime, in futuro si possano verificare più licenziamenti che in passato [8]. Per questo sarà necessaria una attenta opera di monitoraggio sugli effetti della riforma. E, tuttavia, uno degli elementi qualificanti del “Jobs Act” è costituito anche dalla universalizzazione e rafforzamento della rete di protezione economica contro la disoccupazione involontaria e dal rilancio delle politiche attive per la ricollocazione dei lavoratori disoccupati, con la creazione della rete dei servizi per le politiche del lavoro e del loro coordinamento sotto la regia della neo istituita Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, alla quale è affidato il compito di riallineare il nostro paese alle migliori esperienze europee nella riqualificazione e accompagnamento al lavoro di chi ha lo ha perduto. Se davvero la transizione da una occupazione all’altra potrà avvenire in tempi rapidi e con il sostengo attivo di operatori specializzati e adeguatamente remunerati, potremmo finalmente uscire da una tradizione di fallimento delle politiche attive che per troppo tempo ha tenuto l’Italia lontana dall’Europa.
5. Riduzione della precarietà ai margini e allargamento delle tutele del lavoro subordinato
L’altro pezzo che completa la strategia della riforma verso lo svuotamento del lavoro precario non legato ad esigenze effettivamente temporanee è rappresentato dalla eliminazione di alcune forme contrattuali non standard, troppo spesso utilizzate in funzione elusiva, come il lavoro a progetto e la associazione in partecipazione con conferimento di prestazione di lavoro; o di scarsa utilità pratica, come il lavoro ripartito.
L’abrogazione del lavoro a progetto, che rappresenta un passaggio importante del piano per la riduzione della precarietà, avrebbe tuttavia potuto produrre l’effetto paradossale di negare alle collaborazioni autonome non genuine le, pur deboli, tutele accordate ai collaboratori autonomi coordinati e continuativi. Ma, come si è accennato, la legge ha contestualmente previsto la estensione della tutela destinata al rapporto di lavoro subordinato a tutti i “rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Ciò comporta che i collaboratori che non hanno una effettiva libertà di organizzare il proprio lavoro – e che sono quelli più spesso utilizzati dalle imprese con finalità elusive – godranno della massima forma di tutela del lavoro, vale a dire quella ordinariamente accordata ai lavoratori subordinati. Naturalmente, spetterà alla giurisprudenza chiarire i contorni del concetto di etero-organizzazione [9], rielaborando l’esperienza interpretativa, non sempre ordinata sul piano teorico-dogmatico, condensata nelle pronunce nelle quali già si era attribuito un rilievo qualificatorio della subordinazione alla circostanza che la prestazione fosse inserita nella organizzazione dell’impresa [10]. E superando quella vasta produzione giurisprudenziale che aveva creato la figura della cosiddetta “subordinazione attenuata” nel tentativo di rispondere alla “«metamorfosi giuridica» [11] del potere direttivo che, nel contesto di prestazioni di lavoro caratterizzate da un contenuto intellettuale particolarmente elevato ovvero, all’opposto, da un contenuto semplice, elementare e ripetitivo, presenta un’efficacia selettiva «attenuata», poiché l’esecuzione di tali prestazioni di lavoro non richiede direttive puntuali, specifiche e costanti, ma generali e programmatiche” [12].
L’estensione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero-organizzate è, dunque, la risposta del legislatore italiano del 2015 al problema della debolezza contrattuale dei collaboratori dell’impresa privi di una reale autonomia organizzativa della propria attività. Con questa scelta sono state superate altre opzioni, che pure erano emerse nel dibattito accademico italiano, spesso ispirate da esperienze maturate negli ultimi anni in diversi paesi europei. In particolare, nel dibattito che aveva preceduto la riforma, una delle proposte più accreditate sul piano scientifico era stata quella di creare uno speciale contratto per i collaboratori economicamente dipendenti, munendoli di alcune tutele atte a compensare la loro debolezza nel contratto e nel mercato. L’idea era fondamentalmente quella di proseguire nel solco già segnato dalla riforma Monti-Fornero, individuando il criterio selettivo della fattispecie nella debolezza economica del collaboratore che, a sua volta si sarebbe dovuta desumere dalla circostanza di fatto che il reddito del collaboratore dipenda in massima parte da un unico committente [13]. Tale ipotesi, naturalmente, presuppone l’indicazione da parte del legislatore di una soglia. Ad esempio, come è avvenuto nell’esperienza spagnola, la soglia potrebbe avrebbe potuto essere fissata in almeno il 75% delle entrate per reddito da lavoro e da attività economiche o professionali [14]. Tuttavia, sono diversi gli argomenti critici rispetto ad una tale soluzione. Innanzitutto l’introduzione di una soglia provoca in beve tempo la resilienza delle imprese, che modificano il proprio comportamento al fine di aggirare gli effetti negativi della soglia. Inoltre, come è stato osservato in dottrina, “la monocommittenza, misurata attraverso requisiti remunerativi quantitativi, suscita perplessità sotto il profilo della tutela della volontà contrattuale del committente/datore di lavoro a fronte di un criterio di imputazione fondato su circostanze di fatto non denotative né di un particolare modo di essere della prestazione, né di un certo assetto di poteri e interessi fra le parti” [15].
Archiviata, quindi, l’idea di creare un “tertium genus” di lavoratori economicamente dipendenti, a metà strada tra il lavoro subordinato e quello autonomo, il quadro della riforma deve essere completato da una disciplina, interamente nuova, del lavoro autonomo, in forza della quale non soltanto potrà completarsi l’equilibrio tra le tutele previste dall’ordinamento nel suo complesso per ogni forma di lavoro, ma si potrà anche trovare soluzione ai profili problematici legati alle differenti fattispecie delle collaborazioni.
6. Conclusioni
Il “Jobs Act” ha affrontato la “questione precarietà”, smarcandosi dalla sterile disputa ideologica tra “precarietà cattiva” e “flessibilità buona” e facendo quella che si potrebbe chiamare la mossa del cavallo rispetto alla disciplina preesistente: ritornare alla centralità del lavoro subordinato, alleggerendone però i costi economici indiretti e sgravandolo dalla insostenibile complessità e incertezza normativa. A questo riguardo va detto che la scelta di rimettere al centro del sistema il contratto a tempo indeterminato non era affatto scontata. Anzi, correva il rischio di apparire retrograda, a fronte di un mercato del lavoro sempre più fluido in ragione di un contesto produttivo in continua evoluzione. In questa scelta si misura la distanza tra il “Jobs Act” e l’impianto metodologico della legge Biagi, che aveva inseguito l’evoluzione del mercato introducendo nel sistema giuridico nuovi tipi contrattuali, minuziosamente disciplinati, con l’obbiettivo di intercettare le nuove esigenze delle imprese, sempre più insofferenti rispetto alla monolitica rigidità della legislazione del lavoro. Beninteso, per la sua epoca fu, quella, una operazione coraggiosa che certamente contribuì a mettere in discussione un sistema ormai involuto e istintivamente riluttante alla innovazione. Ma, col trascorrere degli anni, quel tipo di approccio alla modernizzazione del diritto del lavoro ha mostrato i limiti dei suoi presupposti assiologici. Rincorrere l’evoluzione della complessità del mondo reale attraverso la sua riconduzione a micro-tipologie legali è una operazione destinata a produrre obsolescenza normativa precoce, perché le imprese vanno comunque più veloci della macchina legislativa e, quando si trovano di fronte alla ipertrofica complessità della legge, tendono semplicemente ad aggirarla. L’approccio del “Jobs Act” alla sfida della innovazione ha seguito, invece, un percorso inverso. Il suo fondamentale paradigma è la riduzione della complessità delle regole e dei modelli contrattuali imposti dalla legge. Il primo passo in questa direzione è stato quello di rendere certi e prevedibili i costi del licenziamento, senza toccare i presupposti per la sua legittimità, che continuano ad essere la giusta causa o il notevole inadempimento del lavoratore e le oggettive ragioni di ridimensionamento organizzativo dell’impresa. L’introduzione del meccanismo delle tutele crescenti con l’anzianità aziendale rende relativamente poco costoso il licenziamento dei neo assunti, il che ovviamente incentiva l’assunzione a tempo di indeterminato. Se a tutto questo si aggiunge l’operazione straordinaria consistita nella esenzione contributiva per tre anni, il quadro che ne risulta è una decisa spinta verso il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, che dovrebbe così ritornare al suo naturale ruolo di contratto prevalente in virtù di una ritrovata convenienza economica e normativa e non in conseguenza dell’aggravio di costo sui contratti flessibili alternativi. Perché la flessibilità contrattuale, laddove funzionalmente necessaria, non va scoraggiata, ma si deve evitare che si trasformi in una via di fuga per le imprese che tentano disperatamente di sottrarsi ai costi eccessivi del lavoro standard. Tuttavia, l’operazione di promozione del lavoro a tempo indeterminato sarebbe rimasta squilibrata se non si fosse, al contempo, affrontato l’annoso e grave problema rappresentato da quella vasta zona “grigia” di contratti che, sotto la mentita veste di collaborazioni autonome, nascondono in realtà un lavoro privo di ogni autonomia organizzativa del collaboratore: un mondo parallelo, fatto di finto lavoro autonomo, per lo più popolato da giovani disponibili a una occupazione purchessia, pagati una frazione dei minimi previsti dai contratti collettivi e impropriamente utilizzati dalle imprese come lavoro a perdere. Di fronte a questa platea di lavoratori atipici e ontologicamente precari si poteva agire in due diverse direzioni: riconoscere loro uno statuto speciale, in qualche modo proseguendo nel modello del c.d. “lavoro a progetto”, magari introducendo qualche nuova forma di tutela, ma confermandone definitivamente la segregazione, oppure – più semplicemente – ampliare l’area di copertura dell’intera disciplina del lavoro subordinato fino a ricomprenderli. La scelta compiuta dalla riforma del 2015 va in questa seconda direzione. Con l’estensione della disciplina del lavoro subordinato anche a quei “collaboratori” che siano, di fatto, strutturalmente inseriti nella organizzazione produttiva dell’impresa, il nostro ordinamento supera l’ipocrisia di una parasubordinazione fatta di lavoratori autonomi sulla carta, ma subordinati nella sostanza. Anche in questo si riconosce la cifra della semplificazione normativa e concettuale che distingue l’intervento del “Jobs Act” rispetto alle ripetute riforme del mercato del lavoro susseguitesi a breve distanza l’una dall’altra negli ultimi quindici anni. Mentre per lungo tempo si è cercato di costruire un tetto normativo per i senza fissa dimora del mercato del lavoro, la scelta del “Jobs Act” è stata quella di ricondurli alle regole del lavoro dipendente.
Restano, tuttavia, altri passaggi da affrontare: da una parte, una volta realizzata l’opera di pulizia della zona spuria fra autonomia e subordinazione, il governo dovrà agire con determinazione per proteggere, valorizzare ed incentivare il lavoro genuinamente autonomo, del quale il nostro tessuto economico e produttivo ha un grande bisogno. Nel lavoro indipendente si concentra una quota rilevante delle professionalità a più alto valore aggiunto, che garantisce anche alle imprese medio-piccole le competenze specialistiche necessarie al continuo processo di innovazione tecnologica e organizzativa. Occorre, dunque, una disciplina che sostenga tutti coloro – e in particolare i giovani – che vogliono mettersi in gioco avendo in tasca solo il proprio patrimonio professionale, superando i bizantinismi fiscali, assicurando un sistema contributivo e previdenziale equilibrato, garantendo certezza e puntualità dei pagamenti e offrendo adeguati strumenti di conoscenza e di accesso al mercato.
D’altra parte è ormai improrogabile un intervento normativo in grado di far evolvere il lavoro subordinato a tempo indeterminato oltre il modello di organizzazione dell’impresa di tipo fordista, consentendo ai dipendenti “core” di lavorare anche fuori dai locali dell’azienda e dagli schemi predefiniti degli orari di lavoro e valutando la loro prestazione dal risultato invece che dal tempo che mettono a disposizione dell’imprenditore. Un rivoluzione organizzativa che oggi nel linguaggio degli operatori viene chiamata smartworking o “lavoro agile”, che non solo è necessaria per sfruttare al meglio le opportunità di lavorare da remoto ormai consentite dalla tecnologia informatica portatile, ma di cui si sente il bisogno specialmente in Italia, dove lo spazio è una risorsa scarsa e la mobilità pendolare è resa difficile da un sistema di trasporti e infrastrutture largamente inefficienti e dove le donne, anche per mancanza di adeguati servizi di welfarepubblico, rinunciano al lavoro più che in altri paesi europei, pur di non allontanarsi fisicamente dalla casa e dalla famiglia.
Infine, si ricorda quanto detto in apertura circa l’assenza, nell’ambito dell’intervento riformatore avviato con la legge delega n. 183/2014, dei temi legati alle relazioni industriali. Si tratta di temi sui quali il legislatore italiano ha, per tradizione, preferito rimettersi alla determinazione delle parti sociali. Un atteggiamento confermato, sin qui, anche dal governo che ha varato il “Jobs Act”, nell’auspicio che le parti affrontino in tempi rapidi e con soluzioni efficaci e largamente condivise i nodi ancora irrisolti della rappresentanza sindacale – anche di parte datoriale – e dei modelli contrattuali. Ma anche un atteggiamento che, come è stato più volte sottolineato dallo stesso presidente del consiglio, potrebbe cambiare di fronte all’inerzia delle parti sociali.
NOTE
[1] Si veda A. PERULLI, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro? in L. FIORILLO, A. PERULLI, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi, Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Torino, 2015, 4 ss.
[2] Esemplare e, al contempo, quanto mai incerto e controverso nei suoi esiti è stato il dibattito sul modello di flexicurity adottato in Danimarca. Si veda al riguardo T.M. ANDERSEN, M. SVARER, (2007), Flexicurity – Labour Market Performance in Denmark, Commissione delle Comunità Europee, Libro verde Modernizzare il diritto del lavoro per rispondere alle sfide del XXI secolo, http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2006/com2006_0708it01.pdf, 2006. Più in generale, per una valutazione sulla diffusione del modello a livello europeo, A. FONTANESI M., CAPITINI VITTORE, Flexicurity: stato dell’arte e contesto europeo, http://bancadati.italialavoro.it/BDD_
WEB/bdd/publishcontents/bin/C_21_Strumento_5303_documenti_itemName_0_documento.pdf, 2008.
[3] Nel documento italiano del 2007, in risposta all’appello della Commissione, si è osservato come “La riflessione sul Libro Verde non può prescindere da un esplicito riferimento – che invece è assente dal testo – alla Carta dei Diritti Fondamentali di Nizza in quanto questa rappresenta già ora, prima della sua auspicata costituzionalizzazione, un presidio e un vincolo politico e giuridico anche per i diritti sociali, come provano la decisione della Commissione nel 2001 di assumere la Carta come base della sua azione e svariati casi della giurisprudenza europea e nazionale. Ogni modificazione futura del diritto del lavoro, che intenda preservarne le ragioni e le funzioni originarie e tuttora valide, non potrebbe avvenire che all’interno del perimetro dei principi e dei diritti sanciti dalla Carta.” E ancora: “La questione centrale che il Libro Verde si pone riguarda le vie e i mezzi per assicurare alle imprese la flessibilità di cui esse necessitano nel nuovo contesto internazionale garantendo allo stesso tempo la sicurezza dei lavoratori. Dopo aver constatato che negli ultimi anni questo obiettivo è stato perseguito attraverso una “flessibilità ai margini” che ha ampliato le tipologie contrattuali e segmentato il mercato del lavoro, il Libro Verde ipotizza che una soluzione più adeguata potrebbe essere rappresentata da un allentamento dei vincoli della regolazione dei rapporti di lavoro standard, comprese le garanzie in uscita, unitamente ad un rafforzamento delle protezioni sul mercato del lavoro in modo da favorire la mobilità e l’occupabilità dei lavoratori e l’aumento dell’occupazione. A parte il fatto che mancano evidenze empiriche tali da provare in modo univoco l’esistenza di una correlazione positiva tra minori vincoli in uscita e propensione delle imprese ad assumere, questa ipotesi configura uno scambio tra tutela sul posto di lavoro e tutela sul mercato quando entrambe sono invece necessarie per dare stabilità al lavoro e creare buona occupazione”.
[4] Significativo è, a questo proposito, il passaggio della risposta italiana in cui si sostiene che: “Per evitare che la flessibilità si traduca in precarietà, occorre che i lavori non standard vengano resi sostenibili sia attraverso un’adeguata regolazione legislativa e contrattuale che con lo sviluppo delle protezioni sul mercato del lavoro e di incentivi finalizzati alla loro trasformazione in rapporti a tempo indeterminato. La recente legislazione italiana si muove in questa direzione e vuole rendere “conveniente” per le imprese il rapporto di lavoro a tempo indeterminato”.
[5] Si vedano, tra gli altri, T. BOERI, J. I. CONDE-RUIZ, V. GALASSO, The political Economy of Flexicurity, Journal of the European Economic Association, Volume 10, Issue 4, 684–715, August 2012; A. ACCORNERO, Il lavoro dalla rigidità alla flessibilità, in Sociologia del lavoro, n. 100 IV, 2005; F. BERTON, M. RICHIARDI, S. SACCHI, Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Il Mulino, Bologna, 2009; R. PEDERSINI, Flexicurity and industrial relations, Eurofound, Dublin, 2008; E. PISANO, M. RAITANO, La flexicurity danese: un modello per l’Italia?, in P. VILLA (a cura di), Generazioni flessibili. Nuove e vecchie forme di esclusione sociale, Carocci, 2007.
[6] Tuttavia, tali criteri presuntivi non operavano qualora la prestazione lavorativa fosse connotata da competenze teoriche o capacità tecnico-pratiche di grado elevato oppure quando fosse svolta da un soggetto con un reddito da lavoro autonomo superiore ad una determinata soglia, stabilita dalla stessa legge o, ancora, con riferimento alle prestazioni lavorative svolte nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscrizione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri.
[7] Sul contratto a tutele crescenti si registra già una corposa produzione dottrinale. Si vedano, tra gli altri, i contributi contenuti nei volumi collettanei di F. CARINCI, M. TIRABOSCHI, (a cura di), Decreti attuativi del Jobs Act: prima lettura e interpretazioni. Commentario agli schemi di decreto legisltivo presentati al Consiglio dei Ministri del 24 dicembre 2014 e alle disposizioni lavoristiche della legge di stabilità, in ADAPT Labour studies e-book series n. 37/2015; M.T. CARINCI, A. TURSI (a cura di), Jobs Act, Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015; L. FIORILLO, A. PERULLI (a cura di), Il contratto a tutele crescenti e la Naspi, Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Torino, 2015; R. PESSI, C. PISANI, G. PROIA, A. VALLEBONA (a cura di), Jobs Act e licenziamento, Torino, 2015; M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (a cura di), Jobs Act e contratti di lavoro dopo la legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, Collective Volumes – 3/2014.
[8] Va, peraltro, ricordato che, nel periodo della grande crisi economica congiunturale 2009-2014, in Italia si sono persi oltre un milione e quattrocentomila posti di lavoro, di cui una quota preponderante nel periodo in cui ancora era in vigore il “vecchio” regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo così come disciplinato dall’art. 18, legge n. 300/1970, ante riforma “Fornero” del giugno 2012.
[9] In dottrina è stato altresì segnalato il problema di distinguere tra la etero-organizzazione della nuova formulazione normativa e il coordinamento dei collaboratori di cui all’art. 409 c.p.c. Secondo T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in Giornale dir. lav. rel. ind., 2015, 155 ss., “il coordinamento riguarderebbe i casi in cui i rapporti fra le parti, e i vincoli di luogo e di tempo, in capo al collaboratore sono solo quelli necessari al raggiungimento del risultato oggetto della collaborazione; mentre viceversa nelle prestazioni organizzate dal committente, le modalità di esecuzione e i relativi vincoli di tempo e di luogo richieste al collaboratore, sono quelli più generali e per certi versi indeterminati propri di chi partecipa in un’organizzazione e vi è inserito”.
[10] Cass., 13 agosto 2008, n. 2159; Cass., 22 dicembre 2009, n. 26986. Sulla debolezza teorica del giudizio di qualificazione del contratto di lavoro subordinato sulla base di indici di fatto che finiscono per obliterare la reale volontà negoziale delle parti ci si permette di rinviare a M. Del Conte, Lavoro autonomo e lavoro subordinato: la volontà e gli indici di denotazione, in Orient. giur. lav., 1995, 66.
[11] A. SUPIOT, Les nouveaux visages de la subordination, in Droit Social, 2000, 131 ss. che parla di «metamorfosi giuridiche del potere».
[12] Riassume efficacemente la questione in questi termini O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 266/2015.
[13] Fra i primi e più autorevoli contributi al dibattito scientifico accademico sui lavoratori economicamente dipendenti si veda P. ICHINO, Lezioni di diritto del lavoro, Un approccio di labour law and economics, Milano, 2004, p. 94 e ss.. Per una più recente e approfondita trattazione del tema si veda M. PALLINI, Il lavoro economicamente dipendente, Padova, 2013. Con specifico riferimento al dibattito immediatamente antecedente alla riforma del 2015 si veda A. PERULLI, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica? in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 235/2015.
[14] Cfr. J. CRUZ VILLALON, Il lavoro autonomo economicamente dipendente in Spagna, in Diritto lavoro mercati, 2013, 287 ss.
[15] Così O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, cit.. In proposito, si veda anche S. LIEBMAN, Prestazione di attività produttiva e protezione del contraente debole fra sistema giuridico e suggestioni dell’economia, in Giornale dir. lav. rel. ind., 2010, 589 con riferimento al d.d.l. n. 1873 a firma dell’on. Senatore Pietro Ichino; M. ROCCELLA, Lavoro subordinato e lavoro autonomo, oggi, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, n. 65/2008, p. 41; nonché F. CARINCI, «Provaci ancora, Sam»: ripartendo dall’art. 18 dello Statuto, WP. C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”, 2012, n. 128, 39 ora in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 3 ss., per il quale la coartazione della volontà delle parti si traduce in una maggiore rigidità della dinamica economica.