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Autonomia e subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015

Antonella Occhino (Prof. Ordinario di diritto del lavoro dell’Università cattolica di Milano)

Il saggio ripercorre le ragioni che hanno mosso il legislatore ad estendere dal 2016 le tutele classiche del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione continuativa svolti a titolo esclusivamente personale secondo modalità organizzate dall’imprenditore anche in relazione ai tempi e luoghi della prestazione di lavoro.

A partire dalla indicazione legislativa dell’art. 1, d.lgs. n. 81/2015, secondo cui la “forma comune” dei rapporti di lavoro è quella del contratto di lavoro subordinato, la necessità di individuare la cerchia dei nuovi destinatari delle tutele (c.d. etero-organizzati) porta a definire il lavoratore “organizzato” come la persona che promette un quid predefinito volendolo realizzare sotto un potere di coordinamento altrui di intensità elevata, che interessa anche il tempo e il luogo delle modalità lavorative, legato strettamente alla estraneità del collaboratore all’organizzazione economica altrui.

Si riconosce una analogia tra la nozione di subordinazione risalente alla sentenza della Corte costituzionale n. 30/1996 e quella di autonomia organizzata ora introdotta nell’ordina­mento, nel senso che in entrambi i casi il lavoratore collabora in un contesto organizzativo cui rimane sostanzialmente estraneo. Sarebbe questo il significato da attribuirsi alla dizione “esclusivamente personale” che caratterizza il lavoro “organizzato” nella lettera dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, per distinzione dal lavoro autonomo continuativo non “organizzato”.

Restano esclusi i rapporti di lavoro semplicemente “coordinati”, caratterizzati da un assetto di interessi dove la collaborazione si svolge anche in modo continuativo ma in modo prevalentemente, non esclusivamente personale, e che viene ancora tutelata nelle forme minori del lavoro autonomo. La ratio normativa dell’ampliamento del campo di applicazione soggettiva dell’intero Diritto del lavoro può dirsi legata ad una situazione di eguaglianza sostanziale in cui si trovano tutti coloro che lavorano per una organizzazione cui sono estranei.

Labour relationships and subordination after decree No. 81/2015

The essay deals with the new legal order in Italian Labour Law, where since 2016 rights and duties provided for in employment relationships must also be referred to self-employed workers who perform services under the so-called organizational power of an entrepreneur, in accordance with Art. 2, decree 81-2015. This concerns just people who work under the following three conditions: they work for a certain period of time, only on a personal basis and in a manner “organized” by the entrepreneur in regard to time and place.

As the common contractual framework is the employment relationship as subordinated-worker (in accordance with Art. 1, decree No. 81/2015), the conditions to justify this extension in workers’protection rely on the factual situation of persons who work in a context in which they don’t have any responsibility, which is the same for employees and “organized” workers, though the distinction between them still depends on the fact that employees are not engaged to realize a specific object agreed in the contract.

Following the decision of the Italian Constitutional Court No. 30/1996, subordination requires that persons work for an external organization, without any legal involvement in governance, and now similarly autonomous “organized” workers must be protected like employees because of their similar external position to businesses. For them legal terms “by only personal work” must be defined by reference to a contractual framework where organizational matters are linked to the power of the entrepreneur over all the aspects of the persons work, including time and place.

By contrast, autonomous workers are not protected where a person performs a service under the direction of an entrepreneur even for a certain period of time but personally organizing his/her own performance, which is the meaning of legal terms “(not only) personal work”. In the end, an equal treatment is accorded to employees and free workers, irrespective of the legal distinction between subordination/non-subordination, when they share a common external condition towards businesses.

Keywords: subordination, external organizational power, equality

 

1. Il coordinamento tra organizzazione e persona

L’impresa è una organizzazione e l’organizzazione è uno stato di fatto, non di diritto. Il suo assetto può essere determinato da decisioni che fluiscono nel tempo o perché vengono prese di comune accordo, secondo un metodo di coordinamento spontaneo, o perché ex ante siano fissate regole che autorizzino l’uno a determinare il comportamento dell’altro anche contro la sua volontà. Il che nel contratto di lavoro subordinato è accettato ex ante, in linea con l’ipotesi contrattualista [1]. Queste regole, come sempre, possono essere eteronome: è il caso dei poteri legali che garantiscono il reciproco coordinamento costituendo un potere legale di indicazione sulla relazione fattuale, o anche di modifica della relazione giuridica, come è nei contratti di appalto, di opera e in misura maggiore nei contratti di lavoro subordinato, dove la dipendenza si presenta in forma giuridica e poi eventualmente economica [2].

Sarebbe coerente l’introduzione di un periodo, se verrà inserito nell’art. 409 c.p.c., dove si preveda che “nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente la propria attività lavorativa” (collegato Lavoro 2016). Si tratta delle collaborazioni genuine che il legislatore ha riportato in evidenza per differenza dalla tipologia del lavoro “organizzato” (art. 52, comma 2, d.lgs. n. 81/2015) [3]. Dopo la parentesi ultradecennale del lavoro a progetto (2003-2015) [4] verrebbero re-introdotte protezioni a vantaggio del lavoratore coordinato relative alla forma del contratto e del recesso, con efficacia alla scadenza del preavviso, ai termini e alle modalità del pagamento, e agli eventi di maternità, malattia e infortunio, forse anche sul compenso minimo, ferme le tutele processuali ma anche previdenziali (compresi gli aspetti relativi agli stessi eventi di maternità, malattia e infortunio) e civili (come in tema di rinunzie e transazioni) che alla fattispecie base del co.co.co. non sono mai venute meno in quanto tali [5].

Questi aspetti erano già stati presi in considerazione delle discipline pregresse del lavoro a progetto, ma appunto in una fattispecie accompagnata da un meccanismo così complesso di presunzioni del lavoro economicamente dipendente da indurre il legislatore ad abrogarne la disciplina [6]; mentre lo scopo resta attuale, teso a contrastare patologie contrattuali di taglio simulatorio (antielusivo, antiabusivo, antifraudolento) praticate con l’obiettivo di limitare i costi del personale e/o le tutele dei lavoratori, il che è la stessa cosa; fenomeno che ha determinato l’intera vicenda degli interventi legislativi sul lavoro non subordinato [7]. Il d.lgs. n. 81/2015 ha concluso la vicenda del lavoro a progetto confermando l’impianto regolatorio basato sull’art. 409 c.p.c., fatto salvo espressamente dall’art. 52, comma 2, e dunque permettendo il riaffiorare di quella disciplina di tutela sommersa dalle regole sul lavoro a progetto e ora di ritorno per il lavoro parasubordinato, ovvero autonomo, sulla quale l’art. 2, comma 1, opera una sorta di “spacchettamento” [8].

Si tratta di regole che possono anche essere poste in autonomia dalle stesse parti contrattuali, di comune accordo, costituendo così poteri convenzionali di garanzia dell’adattamento reciproco quando la relazione non risponda spontaneamente a comportamenti di reciproco adattamento, cioè quando le parti non si coordinino tra loro. Ma anche nel contratto di lavoro subordinato la stessa legge prefigura l’esistenza di poteri convenzionali che arricchiscano la sfera unilaterale del datore di lavoro, come nel caso delle clausole elastiche nei contratti a tempo parziale. Tutti i contratti inerenti ad una organizzazione, e soprattutto quelli che regolano il lavoro, necessitano di forme di “manutenzione” della relazione, anche per i molti cambiamenti che la durata impone di considerare, fermo che sono in continuo mutamento sia le esigenze delle organizzazioni sia soprattutto quelle delle persone che vi lavorano. Nel comune linguaggio ad essi si può fare riferimento come poteri di “garanzia del coordinamento”.

Questi poteri scandiscono il “cronotopo” della relazione fattuale determinando ex ante, già alla conclusione del contratto, quale volontà debba prevalere tra quelle delle due parti, ovvero quale interesse dell’una rispetto e sopra l’interesse dell’altra, con la sola finalità di permettere la “continuazione” della relazione giuridica, evitando la risoluzione del contratto stesso, e quindi a garanzia del processo organizzativo. La previsione legale dei poteri che assicurano il coordinamento di fatto e prima ancora di diritto tra il “capo dell’im­presa” (art. 2086 c.c.) e il “prestatore di lavoro subordinato” (art. 2094 c.c.), risponde al concetto di potere di direzione (in senso ampio, inclusivo del potere conformativo), il quale, essendo posto in via eteronoma, dà nome al tipo di lavoro sotto-ordinato, e dunque sub-ordinato, oltre che fondare la nozione di etero-direzione [9].

Il contratto di lavoro genera la relazione, ma la sua disciplina è prefigurata dal legislatore, non solo per le tutele ma prima ancora per la definizione dei poteri datoriali, il che presuppone la considerazione dell’impresa come organizzazione e del diritto del lavoro come tecnica di regolazione della compatibilità degli interessi reciproci nel corso della sua durata [10]. Diversamente, nella semantica normativa la dizione di “potere di coordinamento” è riservata ai rapporti di lavoro dove il metodo del coordinamento viene affidato a poteri convenzionali eventualmente pattuiti tra le parti, a partire dalla nozione di collaborazione coordinata. Altrimenti si finisce per assumere il coordinamento come dato di fattispecie, escludendone la natura di potere convenzionale, nemmeno quando pattuito in via eventuale ed ex ante, ma così limitando la stessa autonomia contrattuale nello sviluppo dei poteri convenzionali di reciproco adattamento [11].

A questo potere, e sempre nell’ambito di un sistema di poteri previsti di comune accordo dalle parti nel contratto (che resta quindi autonomo), la dottrina ha affiancato l’ipotesi di un potere di organizzazione che determina la c.d. etero-organizzazione [12]. Se poi si voglia riformulare il linguaggio meta-giuridico nella alternativa tra subordinazione diretta e indiretta, anche per riunire le due rispettive forme di dipendenza solo giuridica o anche economica che determinano il discrimen tra le fattispecie dell’art. 2094 c.c. e dell’art. 2222 c.c., nulla vieta di accoglierne il senso. Vale comunque la distinzione essenziale: che il coordinamento fattuale, se non procede spontaneamente, viene normativamente garantito nel primo caso (della etero-direzione) dalla accettazione di poteri predeterminati dal legislatore in via eteronoma, mentre nel secondo caso (della etero-organizzazione) in modo eventuale e comunque pattizio, quindi propriamente autonomo.

Le forme vincolate di coordinamento, determinate dall’insistenza di poteri nella relazione tra le parti, sono comunque forme di coordinamento qualificato, normativamente impresse dal dover essere del prevalere dell’interesse dell’uno su quello dell’altro, sul presupposto che il coordinamento reciproco sia un fatto normale e positivo e che quindi la norma intervenga a renderlo vincolante “normalizzandolo”, se e quando i comportamenti se ne discostino [13]. Si tratta di fenomeni tutti riconducibili all’inerenza del potere organizzativo di gestione delle risorse umane, appoggiato ad un metodo di coordinamento reciproco che se non è spontaneo deve rispondere a veri e propri poteri giuridici. Il che, seppur impropriamente, ha generato quelli che ormai l’inter­prete finisce per chiamare “potere di direzione”, “potere di coordinamento” e “potere di organizzazione” [14].

Si tratta di poteri che certo esprimono la forma giuridica assegnata alla materia del c.d. potere organizzativo imprenditoriale, trasferendolo sul piano normativo, ma non per questo autorizzano l’interprete ad indentificare a priori il potere organizzativo come metodo di governo del reale con la nozione giuridica di “potere di organizzazione” oggi assunta dalla norma. I tratti descrittivi con cui le scienze organizzative studiano e presentano il loro campo di indagine non possono essere trasferiti tout court ad una nozione selettiva di tipo normativo, poiché tutti i poteri giuridici inerenti a tale campo (c.d. di direzione, di coordinamento, di organizzazione) vi rientrerebbero, e la norma perderebbe così la stessa selettività formale impressa dal suo carattere precettivo [15]. In sintesi, da una nozione sociale di coordinamento fattuale si transita ad una nozione normativa di potere di coordinamento, e di qui verso le nozioni proprie di potere di direzione, per i subordinati, e di poteri altri (di coordinamento, di organizzazione), per gli altri.

Benché i poteri convenzionali di coordinamento possano tipizzare per intensità alcuni sotto-tipi già a livello di fattispecie, finché la loro origine appartiene all’autonomia contrattuale (né secundum legem né contra legem, ma appunto in via convenzionale, praeter legem) deve ritenersi che ci si trovi pur sempre all’interno dell’area tipica del lavoro autonomo, anche se economicamente dipendente, in quella che è stata esattamente definita una “numerosa ‘famiglia’” [16]. Alla para-subordinazione, per dire che si tratta di contratti che stanno accanto al lavoro sub-ordinato, ma senza esserlo, si contrappongono i contratti equi-ordinati di lavoro autonomo, resi sotto il tipo del contratto d’opera ex art. 2222 c.c. e i suoi sotto-tipi, nell’ordine, del lavoro parasubordinato “coordinato” e del lavoro parasubordinato “organizzato”. L’azione legislativa è diretta alle tipologie contrattuali [17]. Di qui, cioè dal momento in cui il legislatore ha espresso gli aggettivi “coordinato” nel 1973 (ma già dal 1959 [18] e “organizzato” nel 2015, deriva l’adattamento del linguaggio giuridico sui poteri in aderenza alla tipizzazione, nel senso che il potere di garanzia del coordinamento si dirà “potere di direzione” nel caso del lavoro sub-or­di­nato, “potere di coordinamento” in senso stretto per il lavoro coordinato e infine “potere di organizzazione” per il c.d. lavoro “organizzato”.

Restando alla relazione di lavoro, che regge l’uso giuridico delle risorse umane nelle organizzazioni, e trattandosi del lavoro autonomo, è vero che il potere appartiene alla sfera degli effetti del contratto, ma prima ancora la stessa clausola orienta la qualificazione del contratto d’opera, a misura della sua intensità, verso la forma tipica semplice (il contratto d’opera appunto) o verso il c.d. lavoro parasubordinato. Il disegno si rappresenta quindi come una costruzione di tipi e sotto-tipi in base alla volontà delle parti di intensificare i poteri contrattuali del committente, con la conseguenza, in primis, dell’esistenza di tali poteri evocati nel nome dei contratti stessi: il primo come lavoro coordinato, il secondo come lavoro organizzato tout court [19].

Ma la costruzione tipologica si comprende solo in coerenza alla caratura differenziata delle rispettive tutele, che possono variare nel tempo tenendo fermo lo schema alternativo del lavoro sub-ordinato ed equi-ordinato, e qui distinguendosi ulteriormente tra le tutele dei lavoratori coordinati e dei lavoratori organizzati: al momento la distinzione è drastica, poiché ai primi viene applicata la disciplina delle co.co.co. (sulle quali è prossimo un intervento del legislatore per la definizione di nuove tutele in appoggio alla disciplina formatasi a partire dal 1959), mentre ai secondi, ora, il diritto del lavoro subordinato, ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.

2. Dalla “forma comune” del rapporto di lavoro al contratto di lavoro autonomo

Il coordinamento certo è cosa scambievole, nel senso minimo che ci si coordini, ma il diritto non ha per scopo l’indagine sullo svolgersi naturale e pacifico della relazione, bensì quello di dirimere la prevalenza della volontà dell’uno su quella dell’altro quando il coordinamento spontaneo nel tempo non si realizzi nell’organizzazione e ne mini l’efficienza; la frizione degli interessi e quindi lo scontro delle volontà va previsto e regolato [20]. Anche e soprattutto nella relazione di lavoro, dove l’analisi economica del diritto ha impegnato l’interprete a tenere conto delle incertezze legate allo scorrere del tempo, conserva una rilevanza centrale il principio dell’accettazione comune e anticipata delle regole del gioco [21]. Nelle organizzazioni coordinarsi resta un obbligo, che si declina sia in primis nelle relazioni individuali sia anche secondo una declinazione collettiva [22].

Fino al d.lgs. n. 81/2015 il lavoratore autonomo, se anche convenivano mo­dalità unilaterali di coordinamento imposto dal committente, in condizioni di continuità (di fatto o di diritto) della sua attività di lavoro, ricadeva nella fattispecie di cui all’art. 409, comma 1, n. 3, c.p.c., dove ai lavoratori veniva riconosciuta dal 1973 la tutela processuale tipica della subordinazione, anche per evitare il difetto di competenza in fase di qualificazione stessa del rapporto [23]. Questo contratto era e resta un contratto di lavoro non subordinato, c.d. parasubordinato per la simiglianza fattuale di alcuni caratteri concreti che nel tempo hanno preso il nome di indici della subordinazione, ma che in concreto non vi si ritrovino in modo prevalente. E dall’acronimo “co.co.co.”, che riprendeva la formula legale, invalse l’uso di chiamarlo anche lavoratore continuativo e/o coordinato, da cui ora il nomen di lavoro coordinato tout court, come sotto-tipo del contratto di cui all’art. 2222 c.c., d’opera, già locatio operis [24].

Ora il legislatore riconsidera la dipendenza economica e, rispetto all’alter­nativa tipologica subordinazione/non-subordinazione, modifica i campi di applicazione soggettiva, sovrapponendo quello del tipo lavoro subordinato a quello delle collaborazioni non subordinate, a certe condizioni [25]. Ma la dipendenza resta una questione nominalistica che va isolata nella locuzione “alle dipendenze”, come compare nell’art. 2094 c.c., per comprendere il concetto di subordinazione allargata, non solo tecnico-funzionale, definito dalla sentenza della Corte costituzionale n. 30/1996 (v. infra); e del resto vale a connotare sul piano fattuale la situazione stessa della relazione di lavoro. Il che non altera la distinzione per cui altro è la dipendenza giuridica del lavoratore subordinato, che può corrispondere ad una dipendenza anche economica, altro è la dipendenza economica tout court che affatica da decenni il diritto del lavoro a motivo delle esigenze di tutela rappresentate dai collaboratori non subordinati ma in situazione di bisogno di tutela.

Il neo-legislatore non ha operato alcuna costruzione di fattispecie se con ciò si intenda la coniazione di una figura di lavoratore dipendente tout court, riferibile ad un disegno legislativo differente [26]. Il d.lgs. n. 81/2015 però apre uno scenario nuovo. Ferma la irrimediabile cesura tra subordinazione e autonomia, e nel tentativo di scoraggiare definitivamente la simulazione del contratto autonomo a discapito della evidenza delle tutele classiche riservate ai subordinati, che comunque in sede giudiziaria restano reclamabili, si afferma all’art. 1 che il contratto di lavoro subordinato (si aggiunga: “a tempo indeterminato”) “costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” [27]. La dizione di “forma comune” riconosciuta al contratto di lavoro subordinato, e non al­l’al­tro, conferma l’impianto binario del codice civile ed eredita il senso della c.d. presunzione di subordinazione: il prestatore di lavoro o è subordinato o non è subordinato; il collaboratore dipendente è subordinato ai poteri legali, dunque eterodiretto per volontà di legge, e altrimenti in assenza del carattere della subordinazione non lo è, salve le forme convenzionali e autonome di coordinamento unilaterale decise di comune accordo al momento del contratto [28].

In questo quadro quel che è subordinato è e resta retto da una regola eteronoma che costituisce in capo al datore di lavoro poteri legali di risoluzione del conflitto di coordinamento, in primis la etero-direzione, la quale, di suo, può essere esercitata o meno: non solo perché le mansioni elementari o elevate non ne necessitino, ma perché tante volte il lavoratore esperto può supplire di suo alla ripetizione del comando, della indicazione, della “direzione”; ciò nonostante essa rimane elemento essenziale degli effetti del contratto; mentre quel che subordinato non è, resta autonomo. Ora, poiché la prima è “forma comune” dei rapporti di lavoro e la seconda no, e poiché il diritto del lavoro è cresciuto inderogabilmente a vantaggio dell’una e non dell’altra figura, ne deriva che il recupero della fisiologia dell’alternanza subordinazione/non-subordina­zione può senz’altro darsi razionalmente ampliando lo spettro applicativo delle tutele ad una frase della storia del lavoro parasubordinato: quella, si vedrà, dove il racconto si sofferma sui lavoratori organizzati. Autonomi sì, ma “organizzati”, e destinatari delle tutele classiche.

In tale quadro non trova spazio una lettura della nuova distribuzione delle tutele che enfatizzi l’aspetto “presuntivo” della nuova configurazione fattispecie/effetti, benché ragioni di continuità formale e sostanziale con l’esperienza anche legislativa precedente convincano di una certa ragionevolezza anche di una tale lettura. D’altronde l’alternativa secca per cui la novità risiederebbe nella generazione di un tipo terzo distinto sia dal subordinato sia dall’autono­mo si presta ad obiezioni speculari e ugualmente fondate [29].

Sul piano della valutazione costituzionale dell’impatto della nuova risistemazione dei tipi e delle tutele, vale che non si è di fronte né alla violazione del principio specifico di indisponibilità del tipo contrattuale né del principio generico di ragionevolezza [30]. Per il primo aspetto, operando sulla distribuzione delle tutele senza rinnegare l’alternativa tra il lavoro subordinato e non, il legislatore va esente poiché ha operato sulla distribuzione delle tutele senza rinnegare l’alternativa tra lavoro subordinato e non, fermo che obiezioni al limite potevano essere sollevate a favore della subordinazione, comunque, e non all’inver­so [31]. La questione di costituzionalità finisce così per spostarsi sul secondo aspetto, relativo alla ragionevolezza di una operazione di revisione dei campi di applicazione soggettiva delle tutele lavoristiche di taglio radicale, volta ad estenderle tutte e solo ad un “tipo” di contratto (seppure il lavoro “organizzato” possa considerarsi come un sotto-sottotipo del contratto d’opera), e non agli altri lavoratori parasubordinati: occasionali o continuativi, ma non “organizzati”.

L’obiezione, che allude ad una operazione eccedente lo scopo, merita due considerazioni. Da un lato sul piano formale la tecnica impiegata va difesa proprio con riferimento alla affermazione del contratto di lavoro subordinato come “forma comune” dei rapporti di lavoro tout courtex art. 1, che non a caso precede immediatamente la disposizione sulla estensione delle tutele ai lavoratori “organizzati”; sicché formalmente si tratta dell’ampliamento del campo di applicazione soggettiva della forma “comune” rispetto ad ogni altra forma “non comune”, e quindi senza pecca di contraddizione. D’altro lato, guardando alla sostanza della cesura tra “organizzati” e non come nuovo confine del lavoro che costa, e che vale, l’esame di ragionevolezza va condotto alla luce del parametro della parità di trattamento che ne deriva tra subordinati e non (se “organizzati”) e quindi della disparità speculare che si determina tra parasubordinati “organizzati” e non.

Si tratta allora di una questione di razionalità del criterio discretivo sul campo di applicazione e di valutazione sostanziale della rispettiva situazione di bisogno su cui si interviene, più che di intervento “tipologico” [32]. Qui il rapporto costi-benefici si salda nel concetto di meritevolezza delle tutele nel bisogno, in linea con la nozione acquisita di diritti sociali [33]. Il contrattista d’o­pera o servizio finisce per appartenere al tipo dell’art. 2222 c.c., quando nulle o pochissime sono le pattuizioni su poteri di coordinamento dell’uno sull’al­tro; o al suo sottotipo dell’art. 409 c.p.c., come lavoratore parasubordinato coordinato quando più intenso è il potere del committente di risolvere il conflitto tra i due, il che tanto più è necessario quanto più durevole, o continuativa, è la attività di lavoro: ed ecco il formarsi della fattispecie del collaboratore che è insieme coordinato e continuativo. Ma il conductor può anche appartenere al sotto-sottotipo dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, come lavoratore parasubordinato “organizzato”, quando così intenso è il potere del committente da invadere le modalità tutte della attività, che deve essere coerentemente anche continuativa ed esclusivamente personale, in tutto etero-organizzata, compreso il tempo e il luogo di lavoro; con la conseguenza razionale che a tale fattispecie sia da applicarsi la parte classica del diritto del lavoro, normalmente pensata per i lavoratori subordinati, anche se non tutta [34].

La norma di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 non pecca quindi di razionalità quando impone l’applicazione di una disciplina pensata in origine per i lavoratori subordinati a lavoratori diversi. Si tratta di una valutazione di meritevolezza che tende a rispondere ad un sistema originale di articolazione tipologica dei contratti di lavoro, per tipi e sotto-tipi, dove, nel rispetto del sistema binario che distingue subordinati e non, si dà conto di quella diversificazione in fieri del lavoro nell’impresa che caratterizza l’attuale scenario economico-organizza­tivo [35]. Peraltro, quanto alla redistribuzione delle tutele, vero snodo di ogni riforma e più che mai di quella in esame, l’applicazione delle tutele classiche, che è la vera novità, forse richiede di escludere quelle naturalmente compatibili con il solo tipo del lavoro subordinato, data la natura non subordinata della relazione contrattuale: in tema di mansioni, obbedienza e disciplina.

Si tratta invero di una operazione legislativa di ampliamento del campo di applicazione soggettivo del diritto del lavoro rispetto alla fattispecie del lavoro autonomo, indirizzata a quel suo sotto-sottotipo che è il c.d. lavoro organizzato (o etero-organizzato), nell’ottica di una redistribuzione chiara delle tutele; senza riferimento a norme di interpretazione autentica, definitorie, presuntive, apparenti; se non altro perché non sono stati messi in gioco meccanismi di ridefinizione in senso proprio delle fattispecie, e nemmeno della nozione di subordinazione, ma solo una veritiera redistribuzione delle tutele ad ampio raggio [36]. Non per questo l’etero-direzione va a coincidere con l’etero-organizza­zione, come vorrebbe un ragionamento a ritroso sul dettato normativo che eccede lo scopo della stessa norma [37].

Se un tertium genus è dato, non si tratta di un tertium tra il subordinato e il non subordinato (ché tra gli opposti tertium non datur[38], ma di un terzo contratto sotto il secondo contratto sotto il primo contratto, tutti d’opera ex art. 2222 c.c., c.d. il primo autonomo tout court, il secondo coordinato, il terzo organizzato. Le differenze sono di peso specifico: o si appoggiano concettualmente sulla continuità della relazione nel tempo (o durata in senso improprio), in coerenza alla dizione delle tre forme sotto il nomen del lavoro occasionale, continuativo, organizzato; o fanno riferimento alla personalità della prestazione di lavoro, che da prevalentemente proprio nel 1942 si fa prevalentemente personale nel 1973 e poi esclusivamente personale nel 2015. La pretesa sinonimia tra etero-direzione ed etero-organizzazione cancella la distanza concettuale tra le due forme di esercizio di un potere, e rispettivamente la loro origine, che invece resta incolmabile [39].

3. Il contratto di lavoro come contratto di professione

L’etero-direzione risponde ad un potere legale affidato ad un contraente in ragione del suo status di capo di una organizzazione ex art. 2086 c.c., per una relazione contrattuale che si pone come obiettivo l’utilità del praestare in base ad un impegno astratto di professionalità del lavoratore, da concretizzarsi giorno per giorno in base alle mutevoli esigenze dell’organizzazione stessa [40]. Per questo i relativi poteri costituiti in capo al “datore” sono costanti, pervasivi, geneticamente funzionali a garantire la resa concreta di quella professionalità promessa essa sola in contratto [41]. L’etero-organizzazione risponde invece a poteri convenzionali eventualmente previsti di comune accordo a vantaggio di un contraente o dell’altro, dove l’obiettivo è quello di assicurare l’utilità del praestare (e a fortiori il giudizio di esatto adempimento) attraverso la garanzia di un mantenimento nel tempo della rispondenza tra il quid promesso e le esigenze dell’organizzazione, che nel tempo mutano; e dunque di modellare il quid già oggetto di impegno assicurando la rispondenza alle esigenze della organizzazione del suo quomodo, i.e. delle sue “modalità” [42].

Tra subordinati etero-diretti e parasubordinati etero-organizzati vi è sen­z’al­tro una serie di elementi comuni: una organizzazione che cambia nel tempo, una lunghezza temporale della relazione, una contrattualità sinallagmatica, la struttura obbligatoria e di risultato del comportamento promesso, il livello buono della diligenza e perizia da impiegarsi per assicurare l’adempi­mento utiliter datum (ex art. 1176 c.c.), il carattere professionale del comportamento dedotto in obbligazione, o in oggetto del contratto, che fa del contraente un lavoratore, o un professionista in senso a-tecnico [43]. Entro questo quadro però la distanza rimane: l’uno promette un quid astratto, per farsi concreto oltre che utile nel quotidiano, il che richiede l’esercizio di poteri pregnanti di incidenza sull’oggetto (secondo un processo necessario di conformazione) prima che sulle modalità (secondo un processo eventuale di direzione in senso stretto); mentre l’altro promette un quid già concreto, l’opera o servizio, che va organizzato dal potere altrui per farsi utile nel quotidiano e quindi secondo un certo quomodo che è in mano all’organizzatore, al committente, all’imprenditore, al destinatario insomma di quell’opera o servizio.

Ferma questa differenza insuperabile, i tratti della subordinazione si sono appoggiati ad una idea di collaborazione caratterizzata da personalità, continuità e professionalità, in modo più stringente ma non dissimile da come ora vengono configurati i lavoratori dall’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015. Già da questo parallelismo si può assumere una certa razionalità della estensione delle tutele operata, se non altro perché le distinzioni potranno sì ruotare su confini come quello tra continuità di diritto o di fatto della prestazione e professionalità astratta o concreta messa a disposizione, ma comunque su confini labili. Per coniugare la distinzione, pur sempre normativa, tra la promessa di un quid astratto o concreto, con una applicazione in termini di significato della “collaborazione” stessa, si è esattamente scritto che la collaborazione subordinata si svolge anche in senso orizzontale, rispetto ai colleghi, non scevra da una dimensione collettiva, mentre quella autonoma resta orientata solo in senso individuale verso il committente [44].

In fondo si tratta di riprendere sotto altri termini una distinzione che appartiene alle due tipologie, le quali condividono il fatto collaborativo come elemento di fattispecie, in modo da “rendersi organizzabile” [45], ma nella differenza: rispetto al parametro dell’esattezza dell’adempimento l’utiliter datum che misura l’an della valutazione (e del merito) la bi-direzionalità della collaborazione subordinata è insita nel fatto che l’astrattezza della promessa va conformata in base all’intera organizzazione, di cui i colleghi fanno parte, mentre questo adattarsi dell’autonomo agli altri precede la conclusione del contratto e si concretizza nella definizione del quid tenendone già conto.

Ne deriva che il contratto di lavoro non può essere completamente descritto da una formula che lo rappresenti come contratto di organizzazione, fuori dal dibattito sulla subordinazione, se si considera che il valore ancora attuale della teoria che con questa nozione ha saputo saldare contratto e subordinazione risiedeva nel riaffermare l’ipotesi contrattualista per la costituzione dei rapporti di lavoro, ma in aderenza al dato normativo dell’art. 2094 c.c. L’idea che il contratto di lavoro subordinato determini l’instaurazione di una organizzazione che modella lo stesso legame giuridico tra i contraenti va certo conservata nel suo ambito proprio, ma non per questo trasferita al dibattito sulla recente teorica del lavoro “organizzato”, che invece tiene conto di una nozione aziendale di organizzazione consegnata dalle scienze organizzative [46]. Come è pure esatto, agli antipodi, sottolineare che in senso comune tutte le attività lavorative, persino occasionali, sono organizzate dall’imprenditore, sicché non di potere organizzativo in senso vero si tratterebbe nel caso del “potere” che determina la qualificazione del contratto in termini di “lavoro organizzato” [47].

Il dato di fatto delle co.co.co, come sempre, va preso in considerazione dal sistema politico (che è matrice della sua regolazione come della sua de-regolazione) anche alla luce dei sistemi che se ne contendono l’analisi (l’eco­nomico e il culturale), a sintesi dei loro esiti [48]. Una buona economia dell’or­ga­nizzazione e una buona cultura dell’organizzazione non possono che agevolare il compito del giurista, ma non contraddirne il compito di pre-scrivere sulla base di quanto viene de-scritto, secondo la tecnica del fare o non fare un legame, un vincolo, un dovere, un obbligo, rectius una obbligazione, di quello che sarebbe altrimenti libero: impegnando le persone in una direzione o lasciandole libere di seguire le direzioni fattuali di tipo economico e culturale dove è avviata una organizzazione, e in particolare l’organizzazione di impresa [49].

Oggetto del rapporto giuridico resta il comportamento promesso e nel caso il comportamento di lavorare, che rispetto ad altro comportamento qualunque, per specificazione, assume la qualità dell’espressione di una professionalità [50]. Il che aggiunge tra l’altro l’attesa civica di una certa resa tecnica della prestazione e quindi trasforma la misura della attesa del creditore elevando il comportamento atteso da comportamento tenuto con buona attenzione a comportamento tenuto anche con adeguata perizia (o diligenza in senso improprio) [51]. Ma l’attesa, in diritto, si fa pretesa, ed eleva quel comportamento a risultato giu­ridico dell’ob­bligazione; mentre la soddisfazione ex post del creditore, quel risultato ultimo che dà ragione delle sue motivazioni ad investire, fuoriesce dallo schema obbligatorio e orienta l’interprete a valutare l’ultimo aspetto del­l’esattezza: quell’uti­liter datum che sembra alludere ad un risultato economico ma che è invece il completamento del risultato giuridico dal punto di vista della buona fede, senza contraddire che di obbligazioni di risultato giuridico si tratti, e non di risultato economico (giammai di mezzi, o diligenza, o di comportamento) [52].

Ora, la perizia, al pari dei suoi molti sinonimi (competenza, capacità, preparazione, anche professionalità tout court), rende come concetto astratto il fatto elementare dell’esistenza di una persona che sia competente, capace, preparata, cioè professionale, e quindi dissimula la vera identità ermeneutica del lavoratore qualunque, il quale è persona tenuta ad un buon comportamento in quanto ci si aspetti che ne sia all’altezza, in base all’attesa media dei consociati, ragionevolmente. Il contratto di lavoro, quindi, ancora fuori codice, prima cioè della separazione in casa che divide irrimediabilmente i lavori subordinati dagli altri, è un contratto concluso da persona professionale, cioè, in senso ampio, da un professionista, o comunque da uno che agisce “per professione”. Il contratto di lavoro non è mai solo un contratto di organizzazione, ma, volendo, è sempre un contratto di “professione”.

Proprio come contratto di “professione”, il contratto di lavoro, sia subordinato sia non, deve sostenere l’inclusione causale di regole che permettano l’a­dattamento del comportamento dovuto alle esigenze mutevoli del creditore, alle cui attese è bene e quindi giusto conformarsi. Il contratto di lavoro è un contratto che impegna la persona in modo durevole e quindi mutevole. Di qui la tipizzazione fondamentale tra subordinati e non. Nelle definizioni codicistiche i due contratti vivono isolati nel mondo delle imprese, cui entrambi fanno riferimento: il codice infatti non vede che un contratto con un prestatore di lavoro subordinato per un creditore-imprenditore (salvo il rinvio operato dal­l’art. 2239 sul lavoro fuori dall’impresa) e un contratto d’opera di un debitore che è già imprenditore [53]; mentre il contrattista d’opera si impegna ad adempiere con “lavoro prevalentemente proprio”, secondo una formula che sta ad indicare proprio l’inerenza al conductor di una micro-organizzazione di impresa come strumento del debitore per l’esatto adempimento, il che è direttamente legato alla utilità della prestazione all’interesse del creditore. Occasionale o continuativo, dipendente o meno, il lavoratore dell’art. 2222 c.c. dispone quindi fattivamente e a suo arbitrio di una propria organizzazione sufficiente all’adempimento, fatta della sua professionalità applicata ad una strumentazione, e in base ad essa promette.

Così i contratti di lavoro nel codice civile sono essenzialmente anche contratti professionali per l’impresa, esattamente collocati nel libro V, “del lavoro”, accanto a imprenditori e società. Fuori impresa, ma nel codice civile, oltre i due schemi individuati, fuori libro V, resta invece il terreno aperto dall’art. 1322, comma 2, c.c. E fuori codice, inoltre, resta il legislatore speciale, che dai tipi fa i sotto-tipi. E, ancora oltre, i rapporti di lavoro si muovono nello spazio libero del silentium legis libertas, dove operano coloro che agiscono senza alcun contratto di lavoro (e di cui pure il diritto deve interessarsi): lo stagista, il volontario, il borsista, il praticante, il blogger, e insomma tutte quelle persone extravagantes dell’ordinamento che lavorano per passione più che per professione, senza obbligo di prestazione.

Si tratta di persone impegnate di fatto ad un comportamento atteso per via di relazioni contrattuali fra terzi: il tutor e il soggetto ospitante, per lo stagista; il bisognoso e l’organizzazione di volontariato, per il volontario; il team coordinator e l’ente di ricerca, per il borsista; il professionista e il cliente, per il praticante; l’intervistato e lo sponsor, per il blogger. Tutti legittimi fruitori di alcune tutele (sicurezza in primis) e vantaggi che ciascuno potrà trarre dalla propria attività, se vorrà. Il modo di lavorare non è meno impegnato personalmente, né meno tecnico professionalmente, né meno continuativo, rispetto ai lavoratori per professione; semplicemente a loro non si chiede nulla ex ante, e i terzi da loro attendono, se attendono, qualcosa che non è dovuto, ma che se accade, come spesso accade, determina l’ingerenza del giuridico nella situazione fattuale ex post: per dire che una qualifica sia acquisita dallo stagista, che un ringraziamento vada al volontario, che una invenzione risalga al borsista, che un contatto deontologico riguardi il praticante, che un corrispettivo spetti al blogger.

4. Autonomia personale e contratto di lavoro: una questione di spazio e di tempo

La regolazione dei contratti di lavoro c.d. autonomi va interpretata dentro il sistema normativo, secondo criteri interni condivisi e comunque obbligatori di letteralità, storicità e razionalità (art. 12 delle Preleggi) ma anche traendo dall’analisi del sociale gli elementi da integrare a sistema, secondo il definitivo insegnamento metodologico sulla necessaria interazione sussuntiva e tipologica del pensiero giuridico [54]. Come ogni realtà fattuale è compito del giuridico imporre schemi di comportamento che, nel mondo dei contratti, rispondano al modello dell’obbligazione, per essere qualificati dall’osservatore non per quello che sono o che rappresentano rispetto alle aspettative delle persone coinvolte in quel momento e in quel luogo, ma per legittimare un controllo a posteriori della loro rispondenza al previsto e ricostituire quella fiducia tra ex anteed ex post assicurata dal modello della obbligazione tra persone, che vorrebbe la sovrapposizione tra l’oggetto della attesa e quello della pretesa.

Sempre l’effettività della norma dipende dalla capacità di rendere obbligatori o vietati comportamenti già normali, distinguendoli a seconda dell’idea di giustizia nei rapporti che si vuole realizzare, e in base ad una tale idea facendone alcuni oggetto di obbligo e altri di divieto. Ma nei rapporti di lavoro più che negli altri rapporti contrattuali questa effettività è collegata strettamente alla normalità dei comportamenti sui quali si interviene, per il carattere comunque durevole della relazione e per l’implicazione della persona nell’adem­pimento [55]. Di qui una idea di giustizia che è essenziale al giurista del lavoro mentre mette mano ai termini della relazione contrattuale [56].

Il lavoro non è oggetto del contratto e nemmeno dell’obbligazione. Dedotta in obbligo è la promessa di lavorare, la promessa cioè di un comportamento che non è inquadrabile compiutamente in nessuna delle categorie tradizionali del dare e del facere: il lavoro sarà un insieme personalissimo di fare e non fare, di dare e non dare, insomma sarà il vero e proprio praestare di romana memoria, benché comunemente lo si riconduca allo schema facio ut des, per garantire la tenuta del modello sinallagmatico, senz’altra sottolineatura [57]. La sua valutazione, per quanto distribuita nelle scale classificatorie della job evaluation o nelle scale percentili della misurazione della performance, sarà sempre alla fine un “sì” o un “no” sulla rispondenza esatta tra il comportamento promesso e quello effettivamente tenuto. In tutto questo l’interesse anche non patrimoniale del creditore, ex art. 1174 c.c., resta il criterio decisivo [58].

Con lo sguardo alla storia, certo i contratti di locazione e di compravendita nel primo novecento erano senz’altro inadeguati ad ospitare la promessa di lavorare per la ragione ovvia che vi era dedotto in obbligazione un comportamento di dare o facere dove non è implicata la persona (ma pur sempre comportamenti), rectius, sciogliendo la crasi, dove non è implicata la professionalità della persona che promette il comportamento [59]. Certo il lavoro “non è una merce”, ovvero una cosa che può essere oggetto di diritti, “bene” ai sensi del­l’art. 810 c.c. Ma guardando all’oggetto del contratto in senso giuridico, non si sfugge al fatto che dedotto in obbligazione è sempre e solo un comportamento: un dare la cosa (tra l’altro), nella locazione e nella compravendita ma anche nei contratti di lavoro, se si loca o si venda per professione; e, reciprocamente, vi sono comportamenti lavorativi che non insistono su una cosa e che ugualmente sono dedotti in obbligazione in modo professionale.

A rilevare è non tanto se un bene sia o non sia individuabile nel finale della scena di un processo di esecuzione contrattuale, perché anche un rapporto di lavoro finisca per includere comportamenti che intervengono su beni, merci, cose, oggetti del reale, spesso; interessa piuttosto se il comportamento obbligatorio promesso nel contratto sia un praestare (dare o fare) dove la persona, rectius la professionalità di una persona, sia o meno implicata. Chi loca o vende una tantum non è un lavoratore per la sola ragione che non lo fa di professione, tanto è vero che, invece, lavora a tutti gli effetti chi lochi o venda per professione [60]. La novità dei contratti di lavoro non è nell’includere o escludere che una cosa costituisca il sostrato materiale del comportamento promesso, e neanche ricordare il fatto, ovvio, che il lavoro in sé non è una cosa, come invece nello schema della compravendita, e nemmeno energie, come invece nello schema della locazione, secondo l’antico adagio locat se.

Piuttosto, la novità dei contratti di lavoro è di avere permesso di dedurre in obbligazione, facendone l’oggetto del rapporto giuridico, un comportamento (come sempre), che non è il dare/fare tout court, ma un praestare professionale, qualunque, compresi quelli che finiscono per incidere empiricamente su cose, beni, merci, oggetti. La questione della implicazione della persona nel rapporto di lavoro serve allora ad introdurre il tema della importanza di una disciplina protettiva a tutela di interessi costituzionalmente protetti legati alla dignità, libertà e sicurezza, come nell’art. 41 Cost. è scritto a carico dell’im­prenditore; senza per questo esaurire la curiosità di capire perché sia necessario all’ordinamento avere dei contratti di lavoro, e di che tipo, e quale ne sia l’oggetto. Le questioni sono strettamente connesse.

Ovunque vi sia una promessa di lavorare, lì è la ragione per cui l’ordina­mento prevede un cuore minimo di tutele, c.d. essenziali, in quanto rispondenti al nucleo essenziale delle protezioni costituzionalmente garantite, da riconoscere a tutti i lavoratori a prescindere dal tipo (das Wesengehalt). Dire che la persona è implicata per significare che la sua professionalità è utile al­l’or­ganizzazione, a pena di inadempimento, non è decisivo in questo contesto: il diritto del lavoro come diritto dei contratti si esprime in regole inderogabili che dovrebbero applicarsi a tutti i “professionisti” dell’adempimento, a prescindere dal tipo contrattuale, non perché con la professionalità il lavoratore si esprime, ma perché si espone a rischi. Come diritto dei contratti, il diritto del lavoro può assumere tipologie differenziate, ma rimane un diritto dell’autono­mia contrattuale, radice comune a tutti i contratti e quindi necessariamente anche ai contratti di lavoro.

E dunque non deve risultare paradossale riaffermare che tutti i contratti e anche i contratti di lavoro sono profondamente, inesorabilmente, autonomi, a motivo che le parti acconsentono al momento dell’accordo non solo ad una tipologia ma anche all’oggetto delle obbligazioni ivi dedotte, e dunque già prevedendo i comportamenti astratti a modello dei comportamenti che verranno, per prepararsi insieme al giudizio di adempimento. Anche chiudendo lo sguardo sulla sola subordinazione risalta proprio la figura di un unico contratto ma costitutivo di molti “rapporti di lavoro” [61]. Ora, quando sono professionali, questi comportamenti, per quanto prevedibili, assumono una connotazione spaziale e una temporale del tutto peculiari, che si riassumono nelle c.d. modalità della prestazione lavorativa [62].

Nello spazio, la promessa di lavorare dovrà realizzarsi entro una organizzazione, anzi a vantaggio economico di una organizzazione, e in questo senso, come per tutte le obbligazioni, dovrà essere utiliter data. Sul piano “spaziale” della relazione tra lavoro e organizzazione ne deriva che il giudizio di adempimento dipende dalla valutazione di utilità. Il primo criterio di considerazione dei tipi contrattuali sarà allora inerente al carattere proprio o estraneo dell’or­ganizzazione, e reciprocamente al carattere proprio del lavoro, nel senso che può trattarsi di lavoro esclusivamente personale o solo prevalentemente personale. La disponibilità di una organizzazione propria per il lavoratore diventa un criterio discretivo della tipologia contrattuale, cui il legislatore lega le esigenze di tutela della persona del lavoratore sotto il piano della dignità, libertà e sicurezza, per la ragione esatta che questi valori sono virtualmente pregiudicati da una situazione in cui il lavoratore opera in una organizzazione altrui e tanto più quando tale organizzazione gli sia completamente estranea [63].

Nel tempo, la promessa di lavorare dovrà realizzarsi entro un periodo che prende il nome di durata, e quindi in modo continuativo, beninteso senza qui porre la distinzione tecnica tra contratti di durata in senso proprio o improprio e senza ulteriormente specificare per i secondi se si tratti di contratti ad esecuzione periodica, differita, continuata. Sul piano “temporale” della relazione tra lavoro e durata ne deriva che il giudizio di adempimento dipende dalla valutazione di tenuta dell’accordo rispetto al mutare delle esigenze dei due contraenti, e quindi anche dell’organizzazione, sia propria che altrui. Il secondo criterio di considerazione dei tipi contrattuali sarà allora inerente alle flessibilità aperte alla volontà unilaterale del lavoratore o dell’imprenditore (senza l’accordo altrui) utili a modificare i comportamenti dovuti dal lavoratore o dall’impren­ditore in modo che la relazione prosegua nel tempo nonostante il mutare della situazione entro l’adempimento delle obbligazioni derivanti ancora dal contratto a suo tempo concluso; e altrimenti dovendosi risolvere. Qui la disponibilità di poteri di adattamento del dovuto altrui al nuovo scenario e i loro limiti rappresentano un secondo criterio discretivo della tipologia contrattuale, cui ugualmente il legislatore lega la protezione della dignità, libertà e sicurezza del lavoratore, poiché sono valori messi a rischio anche dalle modifiche unilaterali del patto originario.

5. Al cuore della distinzione tra subordinazione e autonomia: a chi spetta l’organizzazione?

L’autonomia contrattuale opera nei rapporti di lavoro quindi come base regolativa del consenso originario e aprendosi ad una pluralità di tipologie contrattuali esposte alla inderogabilità della protezione del lavoratore o rispetto al­l’altruità di una organizzazione in fieri o rispetto alla altruità degli interessi mutevoli. Si vuol dire che tutti i contratti di lavoro sono autonomi, che tutti sono esposti alla relazione fattuale tra una promessa da adempiere e una organizzazione da gestire, tutti sono preparati ai mutamenti necessari a rendere adattabile il contratto al mutare del tempo. Oltre vi è solo la risoluzione del contratto, lo scioglimento di quei vincoli, la estinzione delle obbligazioni, ma dunque, semplificando, una nuova occupazione in alternativa alla dis-occu­pazione.

L’invenzione dei c.d. contratti di lavoro poggia su una storia fatta di organizzazioni e di durata, cioè dei fattori spaziali e temporali di collocazione necessaria di un comportamento generico (la prestazione, come oggetto del praestare), secondo una promessa obbligatoria che non è stata fatta da quivis de populo ma da professionista, dunque promettendo una qualità peculiare, che è anche detta perizia (o diligenza in senso improprio), e, nel linguaggio in voga, professionalità. Ancora e inevitabilmente l’orientamento è dato dalla norma sulla diligenza di cui all’art. 1176 c.c., che governa l’intero sistema delle obbligazioni ed anche specialmente quello delle obbligazioni professionali. Qui è in gioco la specialità dell’obbligazione del professionista, anche detta professionale, cioè appunto, ed è tautologico, il fatto della inerenza della promessa di praestare (fare o non fare, dare o non dare) all’espressione di una professionalità, e, traslando, alla espressione della persona, tanto da far dire a L. Barassi che l’obbliga­zione di lavorare include un “elemento personalissimo” [64].

In autonomia e rispetto ad una organizzazione in divenire, cioè ad uno stato complesso fattuale caratterizzato da grande incertezza nello spazio e nel tempo, il contratto di lavoro, qualunque contratto di lavoro, si conclude tra due persone di cui uno è a capo di una organizzazione e l’altro è il professionista che promette di esserle utile in qualche modo (quomodo). Quando le situazione sono invertite, ovvero il professionista è anche titolare dell’organizzazione, il contratto non è di lavoro, perché la promessa non è di lavorare, ma di realizzare un’opera o un servizio (quid); e si tratterà del contratto d’opera o del contratto di appalto, a seconda della entità dei mezzi necessari; ma è un’altra questione.

In effetti il professionista d’opera agisce “con lavoro prevalentemente personale” mentre il professionista d’appalto (o appaltatore) agisce “con organizzazione di mezzi necessari e gestione a proprio rischio”. Il committente, o cliente, o destinatario dell’opera o servizio, comunque, non interferisce con una sua organizzazione e potrebbe non sapere nulla di quella del professionista. Almeno dal 1901 nella letteratura giuridica e poi con l’approvazione del nuovo codice civile del 1942 si perde la differenza tra l’obbligo di operare da professionista autonomo, per un risultato di opera o servizio, e l’obbligo, che pure è contratto in autonomia, di lavorare da professionista “di fabbrica”, per rendersi utile all’organizzazione di impresa altrui.

Quando nel 1998 le Sezioni Unite della Cassazione, proprio interpretando un caso relativo al contratto d’opera, azzerarono la distinzione tra obbligazioni di mezzi (o di diligenza) e di risultato, secondo la teoria di Mengoni del 1954 [65], si fece chiaro che il parametro della diligenza nelle obbligazioni si espande a criterio di conformità del comportamento solutorio rispetto alle regole del­l’ar­te, tramite il concetto di diligenza in senso improprio, rectius perizia; il tutto a significare che l’obbligato qualunque adempie se si impegna bene (impegno, cura, attenzione del buon padre di famiglia, ovvero del buon soggetto giuridico, come sinonimi della diligenza contrattuale), ex art. 1176, comma 1, c.c., mentre l’obbligato professionale (o professionista), cioè quello che ne fa un mestiere, per essere adempiente deve anche essere bravo, competente, affidabile, perito, ex art. 1176, comma 2, c.c.

La professionalità inerisce alla figura del professionista come l’affidabilità a quella del contraente: il diritto e la sua certezza e prevedibilità si appoggiano ad una idea di giustizia sostanziale cui inerisce per definizione un certo affidamento dei cittadini, dei cives – consegnato idealmente al codice “civile” – nella professionalità di chi lavoro, in quanto agisca per professione. L’affida­mento, è noto, si misura su di un livello buono di merito, c.d. esatto adempimento, perché anche al lavoratore in primis è richiesto l’impegno del buon soggetto giuridico, oltre che la buona professionalità implicita nell’atto volontario di assumersi un impegno di lavoro. Come contraente di professione, il lavoratore, qualunque lavoratore deve quindi comportarsi a regola d’arte, a prescindere dal fatto che prometta di lavorare (ex art. 2094 c.c.) o di operare (ex art. 1655 o 2222 c.c.).

Per differenza si transita dall’agire per cortesia all’agire per obbligo e qui per specificazione dall’agire per obbligo all’agire per obbligo professionale, e ancora tra chi si comporta professionalmente lavorando (art. 2094 c.c.) e chi operando (artt. 1655 e 2222 c.c.). Si tratta di passaggi tutti governati dall’ac­cordo tra le parti, da interpretarsi tenuto conto dei parametri consegnati dalle disposizioni del codice civile sull’interpretazione del contratto: “quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole” (ex art. 1362, comma 1, c.c.), e “per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto” (ex art. 1362, comma 2, c.c.). Questa previsione trova una particolare applicazione nella giurisprudenza lavoristica sugli indici della subordinazione, in qualche misura inverata nella nuova tipologia del contratto di lavoro organizzato, poiché la qualificazione tiene conto, in modo eterodosso, dei comportamenti conseguenti alla conclusione del contratto, quasi a chiarimento della reale intenzione delle parti [66].

L’interpretazione del contratto, specialmente dei contratti di lavoro, prima ancora di addentrarsi nel dettaglio del quid e quomodo del promesso, deve misurarsi sulla volontà delle parti di decidere per la tipologia contrattuale del lavorare o dell’operare, a seconda che si voglia che il professionista impeghi la propria persona a vantaggio del titolare di una organizzazione altrui o invece a vantaggio di un committente da soddisfare tramite una organizzazione propria. La differenza che separa radicalmente il lavoratore subordinato dall’autonomo (il quale può essere solo economicamente e non giuridicamente “dipendente”) sta tutta della estraneità o meno all’organizzazione in cui il comportamento dell’impegnarsi professionalmente si innesta per l’adempimento.

Così si arriva a giustificare che l’autonomia sta tutta nella volontà originaria dei due (il creditore e il debitore), rispetto ad una organizzazione e ad una durata, nel senso che per un aspirante debitore altro è pattuire il da farsi “alle dipendenze” d’altri, per un creditore che è titolare di una organizzazione; altro è pattuire il da farsi “con lavoro prevalentemente proprio” (art. 2222 c.c.) o “con organizzazione di mezzi necessari e gestione a proprio rischio” (art. 1655 c.c.): il che implica comunque che l’organizzazione micro o macro necessaria sia propria del debitore e che l’opera e il servizio da realizzare debbano essere il frutto di un mix di impegno professionale e di altri fattori economici organizzati dal professionista stesso, a prescindere dalla entità e dalla proporzione dell’organizzazione rispetto al tanto di impegno personale, ma comunque in una situazione prevista dove il committente-cliente rimane totalmente estraneo all’organizzazione.

La mutevolezza delle esigenze dell’organizzazione, unite alla convenienza economica del patto anticipato (illuminata dall’analisi degli opportunismi, delle incertezze e delle asimmetrie informative) entrano nel pactum tramite i c.d. poteri datoriali, utili a lasciare che a contratto invariato il lavoratore possa adempiere nel tempo in modo utile all’organizzazione dove esprime la sua professionalità. Solo in questo senso si tratta del lavoratore sub-ordinato, giuridicamente dipendente, e normalmente dipendente anche in senso economico. E lo “spazio organizzativo”, come il “tempo durevole”, sono qualità situazionali di contesto che vengono prese in considerazione nel contratto originario per affermare la concorde volontà di diventare rispettivamente debitore e creditore di un quid professionale che può essere definito solo in modo generico e che attende specificazioni dal potere di conformazione previsto, voluto, accettato.

Questo dato impedisce di indurre dalla applicazione della medesima disciplina una modifica strutturale della fattispecie di subordinazione oltre la nozione pur già c.d. allargata consegnata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 30/1996 (v. infra[67]. La durata che misura la prestazione, caratteristica del contratto di lavoro subordinato, per i collaboratori organizzati non può che essere una durata “situazionale” che la norma prende in considerazione per l’ap­plicazione di una certa disciplina di tutela (anche non tutta e non senza ipotesi escluse), facendone così certo un elemento giuridico di fattispecie, ma senza mutarne la genetica. Né può dirsi che tale continuità situazionale sia incompatibile con il potere di organizzazione, se non facendo valere una nozione ugualmente situazionale del potere organizzativo, che dista da quello ora “no­mi­nato” e quindi “normato” nella fattispecie del lavoro “organizzato” [68].

La durata nelle collaborazioni non subordinate non è misura della prestazione, non mira essa stessa a soddisfare l’interesse creditorio, in vista dell’a­dempimento, ma è voluta nell’ambito di un quid predefinito cui essa stessa è strumentale; benché si faccia giuridica come elemento discretivo per l’appli­cazione della disciplina sul lavoro occasionale o invece, appunto, continuativo [69]. Quando nell’art. 2222 c.c. il legislatore ha ideato la figura dell’operatore (o contrattista d’opera) ha scritto che il comportamento promesso sarebbe consistito in una attività da svolgersi “con lavoro prevalentemente proprio”: non per dire che l’organizzazione fosse dell’uno o dell’altro ma, certi che fosse del debitore, per dire che sul piano soggettivo questi potesse farsi aiutare da apprendisti, familiari, altri, e che sul piano oggettivo l’utilizzo di una microorganizzazione propria non avrebbe tradito la sua figura di operatore trasformandolo tout court in appaltatore. La sottolineatura della prevalenza del lavoro proprio serviva ad ammettere un minimo di coonestamento soggettivo e oggettivo dell’attività professionale del debitore “operatore” per la realizzazione di un quid pre-definito in contratto. In questa situazione di autonomia si sono sviluppati i c.d. co.co.co., i lavoratori continuativi, i collaboratori, le partite IVA, i lavoratori a progetto, i parasubordinati, i co.co.pro., i lavoratori co­ordinati e ora gli “organizzati” o “etero-organizzati”.

6. Definire i lavoratori “organizzati”: il lavoro esclusivamente personale, o dell’estraneità all’organizzazione altrui

Il c.d. lavoratore continuativo non esisteva e non esiste nel codice civile. Né è una estensione semantica o differenziale del lavoratore occasionale, e neanche del lavoratore subordinato dell’art. 2094 c.c. L’organizzazione o era del creditore o era del debitore, nel codice civile, e il debitore rispettivamente o era un lavoratore (sub-ordinato al potere di conformazione) o era un operatore. Il quid è il quid: va pattuito in modo generico quando l’organizzazione è altrui e il tempo la cambia (art. 2094 c.c.), fermo che si va sotto le dipendenze altrui e che ci si assoggetta al potere non solo di conformazione ma quindi anche di controllo e disciplinare del “capo dell’impresa”, qual è l’imprenditore ex art. 2086 c.c.; o va pattuito in modo specifico quando l’organizzazione è propria (artt. 2222), e si tratta dell’opera o del servizio, senza che alcun potere unilaterale del creditore possa interferire nonostante lo scorrere del tempo.

Se poi si vuole chiamare questo operatore “lavoratore occasionale”, “lavoratore autonomo”, “imprenditore di se stesso”, licet, salva la distinzione da un lato con il collaboratore dell’art. 2094 c.c., e per altro verso con un debitore nuovo, tipico anche se solo a tratti nominato, che si afferma sulla scena economica a partire dalla metà del XX secolo, il co.co.co. Che poi sia continuativo, è credibile. Che sia economicamente dipendente anche. Che sia meritevole di qualche tutela pure. Che sia un collaboratore, senz’altro. Ma resta un signore appartenente ad un insieme di persone extravagantes dall’ordinamento codicistico, dove si erano immaginati solo lavoratori impegnati su quid generici da realizzare sub art. 2094 c.c. in una situazione di estraneità del lavoratore all’organizzazione altrui, in modo esclusivamente proprio (in senso soggettivo e oggettivo), a fronte di lavoratori impegnati su di un quid specifico di opera o servizio da realizzare sub art. 2222 c.c. con modalità previste in contratto, e altrimenti a regola d’arte.

Dal disegno del codice civile in particolare restava esclusa la destinazione utilitaristica della promessa rispetto ad una organizzazione altrui, mentre l’a­dempimento restava confinato alla effettiva realizzazione del previsto, con modalità quindi esenti da direttive altrui (se non di fatto, ma non a pena di inadempimento) e tali da ammettere che la promessa di operare bene e professionalmente si compisse “con lavoro prevalentemente proprio”, senza escludere una organizzazione dell’operatore debitore, ovviamente a sue spese.

In definitiva tra il parasubordinato tout court, ante 2015, e il parasubordinato del 2015 la differenza è questa, nelle parole del legislatore: che il primo opera in modo “prevalentemente” personale per una organizzazione altrui subendo un potere del creditore circa le modalità del “come” il suo comportamento sia utile all’organizzazione del creditore; mentre il secondo opera in modo “esclusivamente” personale per una organizzazione altrui subendo analogo potere circa le modalità del “come” il suo comportamento sia utile all’or­ganizzazione del creditore, purché si tratti di un potere che interessa tutte le modalità, comprese quelle relative al tempo e al luogo.

Ora, poiché entrambi sono contraenti che hanno definito un quid professionale specifico in contratto e non se ne possono discostare, e poiché entrambi adempiono in quanto la loro prestazione sia utile ad una organizzazione altrui (vengono infatti chiamati “collaboratori”), e poiché quindi l’estensione temporale (durevolezza, continuità o durata in senso improprio) caratterizza inevitabilmente la loro prestazione, anche senza ricorrere alle figure dei rapporti ad esecuzione periodica, differita, continuativa [70], per tutte queste ragioni si tratta di persone soggette ad “indicazioni modali” insistenti sulle caratteristiche del loro adempimento: sul come la loro attività professionale si renda effettivamente utile all’organizzazione altrui, che è in mano ad altri ed è mutevole, ovvero su quelle che vengono chiamate ore le “modalità di esecuzione”.

A tutti costoro può salvarsi l’appellativo di autonomi, senza nulla togliere all’autonomia contrattuale dei lavoratori subordinati, solo perché l’autonomia dei subordinati è minata nel tempo e nel luogo dal potere di conformazione del quid specifico che non è stato pattuito in contratto, mentre l’autonomia degli operatori dell’art. 2222 c.c. (c.d. lavoratori occasionali) e dei collaboratori del­l’art. 409 n. 3 c.p.c. (c.d. lavoratori continuativi) è salvata dalla pre-visione in contratto di un quid immodificabile da poteri altrui. Rispetto a questo il creditore può solo nel secondo caso (del lavoro continuativo) far valere l’utilità del quid ad una organizzazione propria come metro di valutazione dell’esatto adempimento, e in ragione di ciò gli vengono riconosciuti i c.d. poteri modali di coordinamento: rectius di “coordinamento” se l’attività è prevalentemente personale o di “organizzazione” se l’attività è esclusivamente personale.

Si tratta di poteri diversi che non sono però strutturali, perché non incidono sulla struttura del contratto, cioè sull’oggetto dedotto in obbligazione, su quel quid che è già fissato nell’opera o servizio descritti. Sono bensì poteri funzionali, cioè mirati a rendere funzionante il sinallagma in una situazione mutevole dove l’obiettivo della utilità ad una organizzazione altrui è assicurato dalla possibilità che il creditore indichi le modalità della esecuzione rispetto a quanto eventualmente pattuito e anche rispetto alle regole dell’arte. Il ritorno frequente in dottrina al “collegamento funzionale” non fa che confermare che ci si allontani da una questione di struttura del tipo e si proceda a definire la relazione di utilità tra la prestazione di lavoro e l’organizzazione [71].

La natura funzionale del potere di coordinamento o di organizzazione si spiega non solo in base alle analisi aziendali sulla misurazione della performance in base alla sua utilità al funzionamento organizzativo, ma anche già in base alla giurisprudenza che indica nella connessione funzionale delle prestazioni (e di qui nell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione d’impresa) un tratto decisivo per la “fattispecie” del lavoro parasubordinato (co.co.co, qui “coordinato”) [72]. E inoltre questa natura funzionale dei poteri si lega al mutamento dello scenario microeconomico che richiede già ai lavoratori subordinati ed anche agli autonomi un maggior coinvolgimento nei processi organizzativi, pur sempre in misura necessaria e sufficiente a conservarne l’utilità organizzativa, a pena di inadempimento.

Un tale coinvolgimento, riferito al parametro dell’esatto adempimento, potrebbe avere ampliato la sfera del dovuto proprio nella duplice direzione dello spazio organizzativo e del tempo durevole; fenomeno approfondito per lo stato di subordinazione ma gioco forza inerente anche alle collaborazioni non subordinate [73]. A questo può corrispondere nella normalità dello svolgersi “organizzato” dei rapporti di lavoro un mutamento nella tecnica di esercizio dei poteri datoriali che si fanno regola e indicazione in uno scenario produttivo dove i lavoratori sono più intensamente coinvolti nel processo organizzativo [74]. In tal senso l’ipotesi di distinguere i poteri di garanzia dell’adattamento reciproco in strutturali e funzionali (riservando questi al caso delle collaborazioni non subordinate) resta un punto fermo che però è alimentato dalla comprensione del fenomeno inclusivo dei lavoratori tutti nelle organizzazioni, con l’ammis­sione di un aumento di intensità del loro esercizio e quindi della plausibilità di una gradazione tra livelli minori (di “coordinamento”) e maggiori (di “organizzazione”). Questa è una idea che viene espressa di solito ricorrendo alla differenza qualitativa e non quantitativa tra il potere di conformazione della prestazione di lavoro subordinata gli altri poteri [75].

La questione decisiva riguarda allora proprio la distinzione tra il lavoro coordinato e il lavoro organizzato, il che è preliminare a considerare la diversa disciplina di tutela che ne deriva per il parasubordinato, se in base all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 le prestazioni di lavoro autonomo continuative “esclusivamente personali” e “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro” danno luogo alla applicazione delle tutele tipiche del lavoro subordinato, pur non essendolo.

Al fondo, l’intensità dei rispettivi poteri è il solo elemento di fattispecie che può distinguere il lavoro organizzato dal lavoro coordinato, tenuto conto della rationormativa per cui al primo si applicano gli effetti delle tutele lavoristiche, mentre al secondo solo alcune di esse. Di qui passando alla interpretazione della disposizione normativa, l’intenzione del legislatore è senz’altro far coincidere il livello alto del potere, quello che configura il lavoratore “organizzato”, con il concetto di “dipendenza economica”, per coniugare a questa intentio la ratio dell’applicazione della disciplina classica di tutela, pensata per la dipendenza giuridica, di cui quella economica, si è scritto esattamente, è un “effetto materiale ed extragiuridico della fattispecie di subordinazione” e, si aggiunga, eventuale [76]. Pur trattandosi di assicurare comunque un collegamento funzionale del lavoro all’organizzazione va introdotto un criterio discretivo di queste due intensità, perché l’interprete distingua il lavoro continuativo meritevole delle tutele lavoristiche del lavoro subordinato da quello affidato alla mera disciplina del contratto d’opera ex art. 2222 c.c., e ad alcune altre, poche, tutele.

Occorre allora riprendere dal concetto di subordinazione per poi tornare a quello di para-subordinazione. Ora, nel lavoro subordinato la professionalità è inserita in una causa che assume la “alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce” (Corte costituzionale sentenza n. 30/1996): nel caso in questione l’estraneità assoluta all’organizzazione veniva eretta a giustificazione dell’applicazione delle tutele lavoristiche per differenza dai contratti a comunione di scopo, dove il lavoro viene dedotto in obbligazione senza quell’elemento della “alienità” [77]. Nel dettaglio la Corte poneva un doppio requisito di alienità per la definizione della subordinazione di cui all’art. 2094 c.c. (non solo “tecnico-funzionale”, ma c.d. allargata): “l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo, essendo costituita per uno scopo in ordine al quale egli non ha alcun interesse (individuale) giuridicamente tutelato”. E riferendo questo ragionare alla para-subordinazione, e dovendo dividerne le fattispecie in quelle produttive delle tutele lavoristiche dalle altre, sembra coerente applicare il medesimo criterio della estraneità assoluta del lavoratore all’orga­nizzazione, pienamente altrui, per riconoscere il dato di fattispecie di un lavoro del tutto “organizzato” e quindi meritevole anch’esso (per razionalità e ora anche per previsione legale) delle tutele lavoristiche.

Acquisito che ogni lavoro è intrinsecamente “personale” per la implicazione della persona nell’attività promessa, e addentrandosi nelle diverse nozioni messe in gioco dal legislatore nel 1973 e nel 2015 per dividere la para-subor­dinazione in due zone diversamente protette, va sottolineato che nelle rispettive nozioni del lavoro “coordinato” e del lavoro “organizzato” la c.d. personalità della prestazione va intesa in senso pregante, come direttamente proporzionale all’assenza di una propria micro-organizzazione di lavoro: l’impegno professionale dedotto in obbligazione si acuisce nel tratto personalistico del comportamento proprio nelle condizioni fattuali dove la relazione con il destinatario è impostata sulla base di un comportamento che è “solo” personale [78]. Lo si deduce dalla diversa sensibilità con cui il legislatore stesso ha soppesato l’uso degli avverbi prevalentemente/esclusivamente e degli aggettivi proprio/per­sonale. A partire dalla lettera dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, confrontata con la lettera dell’art. 409 n. 3 c.p.c., si individuano quindi per differenza i parasubordinati “organizzati” e i parasubordinati “coordinati”, non meritevoli delle medesime tutele: nel dettaglio, il lavoro non sub-ordinato è “prevalentemente personale” nell’art. 409 n. 3 c.p.c. (lavoro “coordinato”), mentre è “esclusivamente personale” nel d.lgs. n. 81/2015 (lavoro “organizzato”).

La ratio che supera la distanza concettuale tra subordinazione e non, per riconoscere un minimo comun denominatore ai subordinati e ai parasubordinati “organizzati”, è dunque da cercarsi nella estraneità completa all’organizza­zio­ne di impresa dove la prestazione dovrà inserirsi utilmente. Un luogo simbolico di misura del bisogno della persona che orienta l’interprete nella valutazione di razionalità sulla impostazione dei campi di applicazione della disciplina protettiva, cioè sulla questione centrale del diritto del lavoro: la distribuzione delle tutele secondo un criterio di meritevolezza. È il concetto di diritti sociali che viene dunque in evidenza, mentre più che di superamento degli schemi qualificatori può dirsi in atto un processo di ridefinizione dei campi di applicazione soggettiva delle tutele [79].

7. Per un trattamento eguale dei lavoratori dipendenti

E così il lavoro sarà prevalentemente personale se la persona dispone di una sua micro-organizzazione di risorse: dal che deriva l’accettazione di un mero potere di coordinamento ex art. 409, n. 3, c.p.c. Ed invece sarà esclusivamente personale in assenza dell’impiego nella realizzazione dell’opera o servizio promesso di una pur minima micro-organizzazione propria: dal che deriva l’accettazione di un potere sempre di carattere funzionale, ma più incisivo, di “organizzazione”, ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015). Qualcosa di molto simile al criterio dell’inserimento nell’impresa, utilizzato come indice della subordinazione dalla giurisprudenza e che in dottrina era stato valorizzato come sintesi della dipendenza menzionata dall’art. 2094 c.c. proprio riunendo continuità, personalità e coordinamento spazio-temporale della prestazione [80].

Qui risiede il punto di distinzione tra la fattispecie del lavoro “coordinato”, dove il prestatore si accosta ad una organizzazione altrui munito anche di una sua micro-organizzazione, e la nuova fattispecie sub-tipica del lavoro “organizzato”: poiché vi si coglie la realtà sociale dei lavoratori che, sprovvisti di alcuna risorsa propria, si collegano ad una organizzazione altrui forti della loro professionalità e per una organizzazione cui restano del tutto estranei. Formula che, senza nulla toglierle di originalità, può anche essere letta in continuità con la previgente conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato del contratto “a-progetto-ma-senza-progetto” (ex art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/2003). Ma è solo ad un livello discorsivo che questo non esclude che ci si possa riferire anche ad un pre-concetto di subordinazione “indiretta”, in modo da far coincidere i termini della subordinazione con quelli della dipendenza anche economica [81].

La differenza tra il lavoratore coordinato e il lavoratore organizzato risiede allora in ciò. Il lavoratore coordinato è un lavoratore munito di una micro-organizzazione di risorse, soggetto ad un potere altrui funzionale a garantire l’utilità della sua prestazione nell’incontro dinamico tra due organizzazioni: quella “macro” del committente e quella “micro” del dipendente stesso. Diver­samente, il lavoratore organizzato è sprovvisto di risorse proprie e promette l’adempimento sotto un potere funzionale all’innesto utile della sua attività in una organizzazione che gli è e gli resterà estranea. Reciprocamente, se il lavoro “organizzato” è “esclusivamente personale”, anche l’organizzazione è esclu­sivamente riferibile al committente; con la conseguenza che, ripetendosi la situazione di alienità dall’organizzazione, anche al lavoratore “organizzato” si riconosce ora, con l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, la meritevolezza delle tutele lavoristiche.

Altrimenti il lavoro autonomo continuativo viene promesso per una organizzazione parzialmente altrui, con apporto organizzativo anche del collaboratore, secondo lo schema delle co.co.co. che riemerge dopo l’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto. In fondo quando la giurisprudenza rimarca il criterio dell’inserimento continuativo ed organico delle prestazioni nell’orga­nizzazione d’impresa, per decidere della subordinazione, non fa che riconoscere che l’estraneità all’organizzazione altrui indica la subordinazione e, a prevalenza dell’indice, determina la meritevolezza degli effetti di disciplina classici del diritto del lavoro. Orientamento che può riportarsi ora al caso del lavoro “organizzato” con la sola attenzione ermeneutica di distinguere fattispecie ed effetti, o, volendo, tipi e tutele: al lavoratore che si impegna per un quidpredefinito, a parità di condizioni di estraneità alla organizzazione altrui, si riconosce ora in analogia l’estensione delle tutele.

Se poi la nuova sistemazione risponda nell’impatto normativo alla intentio di far coincidere il lavoro organizzato con una nozione stringente di lavoro economicamente dipendente, perché combaci con la ratio dell’estensione delle tutele, questa è quasi una petizione di principio. Nel rispetto della discrezionalità legislativa l’interprete assume la disposizione che definisce le nozioni di fattispecie come dato positivo sul quale esercitarsi, e l’ermeneutica non può trascendere i confini della relazione tra problema e sistema fino al punto da sovrapporre una dogmatica dei concetti precostituita e diversa da quella che la disposizione normativa, e quindi la norma che ne risulta, ha consegnato [82].

Nel caso del lavoro “organizzato” la disposizione nuova sostituisce la precedente proprio in questa tecnica normativa, prima ancora che nell’impatto di disciplina, il quale andrà misurato sulla corrispondenza o meno dei casi normalmente riconducibili al lavoro subordinato in via dissimulatoria rispetto ai casi che sono e saranno (rectiussarebbero) da ritenersi compresi nella nozione di lavoro “organizzato”. Poiché a livello prognostico è plausibile che una certa corrispondenza vi sia, l’operazione legislativa sul piano dell’analisi di impatto normativo potrebbe dare per risultato una convergenza dell’area della subordinazione dissimulata e di quella ora lasciata all’autonomia “organizzata” [83].

Sul piano teorico tuttavia rimane pur sempre netta la distinzione tra il caso di chi prometta il quid astratto (da ritenersi esattamente subordinato) e di chi invece prometta il quid concreto, che erroneamente sarebbe ricondotto a subordinazione in base all’applicazione degli indici stessi. D’altronde è stata la stessa giurisprudenza che, alimentando la qualificazione ex post fondata sulla rilevazione degli indici nella relazione fattuale successiva alla conclusione del contratto, aveva già alterato i termini della questione qualificatoria e aperto la strada all’operazione legislativa [84].

E dunque sul piano pratico la novità ora elude statisticamente il momento qualificatorio e riporta al dictum giurisprudenziale, permettendo lo sviluppo delle tutele a vantaggio di coloro che ne sarebbero stati forse destinatari già in virtù dell’applicazione della tecnica degli indici. Da un punto di vista pragmaticamente deflattivo, ciò finisce allora per anticipare il contenzioso e riconoscere di diritto le medesime tutele, secondo una tendenza ordinamentale semplificante e modellata su di un metodo casistico che il legislatore ha finito per recepire [85]. Un metodo che, più che dirsi tipologico anziché sussuntivo, può dirsi di invito alla interpretazione dei comportamenti esecutivi prima ancora che del contratto [86]. In questo certo risiedono le buone ragioni di chi sottolinea una continuità nella distribuzione effettiva delle tutele [87].

La novità si colloca allora proprio a livello di definizione della fattispecie, niente meno: al sistema delle presunzioni, caratteristico delle collaborazioni già nel d.lgs. n. 276/2003 e poi nella legge n. 92/2012, che lasciava trapelare una nozione giuridica di lavoro economicamente dipendente (non senza paradosso), desunta dal rapporto di lavoro prima ancora che dal contratto, viene sostituito un sistema di definizione della nozione stessa basata direttamente sugli elementi del contratto di lavoro, e in particolare sulla intensità dei poteri funzionali di garanzia della relazione concordati, ora vero elemento di fattispecie: per dire che se il contratto, prima che il rapporto, presenti i tratti della etero-organizzazione, in continuità e con esclusività della prestazione personale, il lavoro è da qualificarsi come “organizzato”, non altrimenti [88]. Tutt’altro dal definitivo “superamento” della collaborazioni non subordinate [89].

Se tra il voluto e il fatto, se tra contratto e rapporto, una distinzione può esserci, e può darsi in termini di oggetto dell’analisi dell’interprete che resta impegnato alla valutazione degli elementi di fattispecie senz’altro, la novità allora risiede altrove [90]. Le tutele spettano certo per pari meritevolezza, ma non in base ad una nozione di dipendenza economica tout court, prima pensata in dottrina e poi realizzata nella legge (anche) sotto forma di indici presuntivi, inclusiva della subordinazione e del suo equivalente funzionale quale sarebbe il lavoro “organizzato”: seppure la disciplina si applichi “come se” costui fosse subordinato, l’argomento che dalla equivalenza di meritevolezza (strettamente legata alla c.d. “equivalenza funzionale”) induce una riconduzione al lavoro subordinato, quindi rivisto nel tipo, non convince, perché prova troppo [91].

E dunque se una nozione di dipendenza “economica” va cercata nell’or­di­namento (ma così facendosi essa stessa “giuridica”), essa risulta ma indirettamente dal coniugio della condizione di estraneità all’organizzazione altrui ravvisabile nella posizione del lavoratore etero-diretto, assoggettato a potere strutturale inerente il quid della prestazione, e di quello etero-organizzato, assoggettato ad un potere funzionale che pervade il quomodo della sua prestazione, le “modalità” tutte del suo comportarsi professionalmente.

Si tratta allora di una questione di parità sostanziale nel bisogno tra “dipendenti” definiti in base a norma di legge: i primi, secondo una nozione di dipendenza senz’altro giuridica, assoggettati al potere legale altrui di un coordinamento “dovuto” che viene garantito dalla tecnica della subordinazione, ancora e sempre sub art. 2094 c.c.; gli altri, secondo una nozione di dipendenza c.d. economica ma quindi ora anch’essa “giuridica”, legata alla estraneità dell’organizzazione per la quale si agisce e coerentemente indotta dalla libera determinazione con cui le parti, in perfetta autonomia contrattuale, hanno pattuito poteri unilaterali pervasivi in capo al titolare esclusivo dell’organizza­zio­ne entro cui la prestazione si inserisce, ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.

Si è perseguito, invero, un disegno di realizzazione della parità in espressione della eguaglianza sostanziale, il quale risponde costituzionalmente al concetto di diritti sociali fondamentali da attuarsi in progress nell’ordina­mento positivo. E l’analogia ha fatto prevalere la somiglianza della debolezza giuridica inerente alla condizione di alienità assoluta dall’organizzazione altrui, e ai relativi poteri, rispetto al ragionamento a contrario, che farebbe leva sulla distanza – pur incolmabile – tra il contraente subordinato – che acconsente ad un potere strutturale di definizione del quid, non solo del quomodo, della prestazione promessa – e non.

Tra chi lavora “sotto-ordinato” ex art. 2094 c.c. e chi lavora sotto il potere funzionale di organizzazione ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 la legge ora impone la medesima tutela perché in entrambi i casi l’alienità dall’organizza­zione altrui è assoluta. Nella legge questa totale estraneità del lavoratore “organizzato” rispetto all’impresa del committente non poteva essere meglio specificata circa le “modalità di esecuzione” della prestazione che con l’aggiunta della locuzione “anche per i tempi e il luogo di lavoro”. Ed infatti l’estensione semantica del potere sulle “modalità” alle dimensioni del tempo e dello spazio esprime il punto massimo di incidenza del potere di determinazione sul “come” il debito lavorativo debba adempiersi per essere utile, quindi esatto; e, a contrario, definisce il punto minimo di interferenza tra l’organizzazione del committente e una eventuale organizzazione del lavoratore, che quindi tende allo zero.

E così il lavoratore “organizzato” è colui che non dispone di risorse proprie, manca di una sua micro-organizzazione, promette un lavoro “esclusivamente personale”, resta del tutto estraneo all’organizzazione del committente, accetta un potere totale di definizione funzionale del quomodo della sua prestazione all’utilità per l’organizzazione altrui. Ma che pure: risponde di inadempimento in caso di un lavoro inutiliter datum, attende istruzioni sulle “modalità di esecuzione” della prestazione, acconsente in autonomia ad un potere necessario e sufficiente al buon funzionamento della relazione dinamica lavoro/organizzazione, distesa nel tempo in tutte le estensioni modali possibili, ed espressamente nel quando e nell’ubi del suo lavoro.

Per tale situazione di fattispecie, questo lavoratore prende il nome di “organizzato” e negli effetti giuridici merita le tutele lavoristiche classiche. Così interpretata la disposizione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 genera una norma intrinsecamente coerente, con una innovazione legislativa non impeccabile per logica formale, eppure condivisibile per la giustizia sostanziale realizzata.

 

 

NOTE

[1] Senz’altro dopo M. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Padova, 1966. Sul “mancato incontro” tra contrattualità dei rapporti e dibattito sulla subordinazione v. M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, Giuffrè, Milano, 1995, 1057 ss., e in Questioni di diritto del lavoro (1992-1996), Giappichelli, Torino, 3 ss., spec. 30 ss.; dopo i quali vale ora il monito al “ragionare secondo la logica contrattuale” proposto da L. NOGLER, La subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 267/2015, par. 2.

[2] V. L. NOGLER, La subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 5, e ivi la premessa che il contrattualismo ha escluso forme di potere unilaterale del datore altre rispetto al potere di cui all’art. 2104 c.c., comunque denominato.

[3] V. la ricostruzione di A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committenteWP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 272/2015, par. 1.

[4] In senso critico sulla intera legislazione che ha interessato il lavoro a progetto G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, in corso di pubblicazione, 2; L. ZOPPOLI, Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilizzazione funzionaleWP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 213/2014, par. 2; M. PERSIANI, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 827 ss., spec. 831.

[5] V. T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, in Dir. rel. ind., 2015, 155 ss., spec. 163; O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioniWP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 266/2015, par. 1.

[6] Per una valutazione della portata del sistema delle presunzioni dopo la legge n. 92/2012 v. M. MAGNANI, Autonomia, subordinazione, coordinamento nel gioco delle presunzioni, in Arg. dir. lav., 2013, 790 ss.; E. GHERA, Il lavoro autonomo nella riforma del diritto del lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2014, I, 502 ss.; volendo A. OCCHINO, Il lavoro a progetto: norme di chiusura e questioni aperte, in Scritti in memoria di Gianni Garofalo, Cacucci, Bari, 2015, 579 ss.

[7] V. T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., 160-161, 168; G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c.WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 278/2015, par. 2; e prima della riforma M. PERSIANI, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, cit., 831.

[8] V. O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 1.

[9] V. V. FERRANTE, Direzione e gerarchia nell’impresa (e nel lavoro pubblico privatizzato)sub art. 2086, in Commentario al codice civile, diretto da Busnelli, Giuffrè, Milano, 2012.

[10] V. F. DENOZZA, Il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa neo-liberale, in Riv. it. dir. lav., 2013, I, 41 ss.

[11] Cfr. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 4 e par. 6; ID., Il lavoro parasubordinato, Franco Angeli, Milano, 1979.

[12] Così di recente M. PALLINI, Il lavoro economicamente dipendente, Cedam, Padova, 2013.

[13] V. G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 3, dove si assimila l’art. 2 ad una “disposizione di normalizzazione”; O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 5, dove però il coordinamento “normato” viene inteso solo come elemento di fattispecie relativo ad una attività di reciproco adattamento e perde il carattere di potere giuridico unilaterale, di fonte né legale né convenzionale.

[14] Cfr. P. TOSI, L’art. 2, comma 1, d. lgs. n. 1/2015: una norma apparente?, in Arg. dir. lav., 2015, in corso di pubblicazione.

[15] Cfr. L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 3, alla fine, e ivi sulla finalità di “spiegare perché il singolo lavoratore subordinato sia obbligato a comportamenti non etero-determinati benché essi siano comunque qualificabili come etero-organizzati”, con crasi semantica tra linguaggio descrittivo e prescrittivo, poiché i lemmi legati all’area linguistica dell’organizzazione sembrano trasferiti immediatamente dalla scienza organizzativa a quella giuridica.

[16] V. M. PERSIANI, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, cit., 833.

[17] V. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit.; ID., Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in Dir. rel. ind., 2015, 109 ss. (già WP CSDLE “Massimo D’An­tona”.IT – 235/2014); e comunque ID., Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professio­ni intellettuali, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da A. Cicu-F. Messineo e continuato da L. Mengoni, Giuffrè, Milano, 1996.

[18] Per una ricostruzione antecedente al d.lgs. n. 81/2015, che prende avvio dai “rapporti di collaborazione che si concretino in prestazione d’opera continuativa e coordinata”, secondo la legge n. 741/1959, v. M. PERSIANI, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, cit.; e sempre a partire dal 1959 G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 1. Analiticamente sulla vicenda delle collaborazioni dagli anni novanta v. ora V. NUZZO, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutelaWP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 280/2015, par. 1.

[19] Per G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 1 e par. 6, la categoria del lavoro “parasubordinato” o “coordinato” o dei “co.co.co.” non sarebbe identificativa di una fattispecie contrattuale unitaria e tipica come lo è, invece, il lavoro subordinato”, argomentando nel senso della riconduzione sotto il tipo dell’art. 2222 c.c., il che non sembra escludere però una ulteriore sotto-tipizzazione.

[20] Senza cadere nella trappola antagonistica e/o statutaria (di classe) di cui avverte con dovizia di argomenti L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca del­l’“au­torità del punto di vista giuridico”, cit., par. 2.

[21] V. F. DENOZZA, Il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa neo-liberale, cit., 41 ss.

[22] V. O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 4.

[23] V. M. PERSIANI, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, cit., 828.

[24] In senso difforme G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 2 e 7-8, dove riferimenti al polimorfismo “acontrattuale” e alla “atipicità” della figura delle collaborazioni organizzate.

[25] V. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 2.3, O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 2, dove si insiste sulla lettera della disposizione, che fa riferimento al verbo “si applica”. Analogamente V. NUZZO, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, cit., par. 2.

[26] V. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 2.1 e 2.3, dove espressamente sul “bisogno di protezione sociale” a giustificazione dell’operazione legislativa di vantaggio per i lavoratori organizzati. Ivi v. anche i riferimenti alla proposta di Ichino del Codice semplificato del lavoro ed altre indicazioni sui disegni di legge e proposte avanzate nel tempo dalla dottrina lavoristica, oltre una analisi comparata delle legislazioni spagnola, tedesca e britannica in merito.

[27] Per una valorizzazione della disposizione di apertura anche ai fini interpretativi della risistemazione del lavoro autonomo G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 3.

[28] V. ancora A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 4, O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 1.

[29] Una ricostruzione preziosa e dettagliata della molteplicità di opinioni che si sono confrontate già nell’autunno 2015 è nella Sintesi di A. VALLEBONA, Il lavoro parasubordinato organizzato dal committenteColloqui Giuridici sul Lavoro, a sua cura, Supplemento al Mass. giur. lav., 2015, 153 ss.

[30] V. diffusamente M. DE LUCA, Rapporto di lavoro subordinato: tra “indisponibilità del tipo contrattuale”, problemi di qualificazione giuridica e nuove sfide della economia postin­dustriale, in Riv. it. dir. lav., 2014, I, 397 ss.; in precedenza R. SCOGNAMIGLIO, La disponibilità del rapporto di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 2011, I, 95 ss.; e sempre M. D’AN­TONA, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 1995, 79 ss.

[31] In questo senso T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., 162.

[32] V. T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., spec.162, con riferimento anche a M. PERSIANI, Considerazioni sulla nuova disciplina delle collaborazioni non subordinate, cit., 842; e in senso critico V. NUZZO, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, cit., par. 3.

[33] V. L. MENGONI, I diritti sociali, in Arg. dir. lav., 1998, 1 ss., ora in M. NAPOLI (a cura di), Il contratto di lavoro. Scritti di Luigi Mengoni, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 129 ss. Sulla sin­tassi storica degli interessi datoriali rispetto all’evoluzione del diritto del lavoro, a partire dalla ca­tegoria centrale della inderogabilità, rinvio a M. NAPOLI-A. ALBANESE-A. OCCHINO, interventi su La norma inderogabile, in Riv. giur. lav., 2008, I; e ora comunque a L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 2.

[34] Prefigurava già una distribuzione delle tutele L. SPAGNUOLO VIGORITA, Subordinazione e diritto del lavoro. Problemi storico-critici, Morano, Napoli, 1967, 152, a conclusione della monografia, secondo un percorso di studioso della subordinazione richiamato di recente da L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 5.

[35] V. T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., 155.

[36] V. ancora T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., 161.

[37] In senso difforme O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 4; e dubitativamente G. SANTORO-PASSA­REL­LI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 5.

[38] V. L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 5, dove si fa riferimento alla proposta De Luca Tamajo-Flammia-Persiani, 1996, sul tertium genus, commentando il suo presupposto teorico, ovvero la “differenziazione “meramente” quantitativa tra direzione e coordinamento”.

[39] V. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 2.1, dove in senso analogo si ritiene che “il dato dell’orga­nizzazione della prestazione da parte del committente … non è sovrapponibile concettualmente all’organizzazione della prestazione tramite esercizio del potere direttivo”.

[40] È il problema della “efficienza dell’organizzazione del lavoro” richiamato criticamente da L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 3. V. anche V. FERRANTE, Direzione e gerarchia nell’impresa (e nel lavoro pubblico privatizzato)sub art. 2086, cit.

[41] V. ancora L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“au­to­rità del punto di vista giuridico”, cit., par. 5, con riferimento alla incidenza dell’evoluzione tecnologica a vantaggio della maggior autonomia del lavoratore nell’esprimere la propria professionalità e così nell’ambito di una critica sul potere direttivo ex art. 2104 c.c., per dire che può svolgersi nella produzione sia di regole sia di indicazioni.

[42] V. G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 7, che sottolinea come il lavoro autonomo continuativo non sia “altro che una nuova modalità organizzativa del lavoro dipendente prestato stabilmente a favore di una struttura produttiva”.

[43] V. O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 2, che però dalla “obbligazione di comportamento” sembra tornare ad evocare una differenza tra la promessa del lavoro subordinato e non, in termini ontologici, proprio mentre richiama esattamente il superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. Il comune riferimento è a L. MENGONI, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954 (in tre parti).

[44] V. O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 4; in precedenza sui tratti orizzontali della collaborazione subordinata NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., 47 ss.; e comunque M. PEDRAZ­ZOLI, Democrazia industriale e subordinazione. Poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, Giuffrè, Milano, 1985.

[45] V. L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 3.

[46] Il richiamo è già in M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., 44, con riferi­mento puntuale a M. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit.; e ora torna in L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 3.

[47] V. G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 2.

[48] V. L. MENGONI, Commento alla “Critique du droit du travail” di Supiot, in Giornale dir. lav. rel. ind., 1995, 474 ss., ora in M. NAPOLI (a cura di), Il contratto di lavoro. Scritti di Luigi Mengoni, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 75 ss.

[49] V. F. DENOZZA, Il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa neo-liberale, cit.

[50] Rinvio a C. ALESSI, Professionalità e contratto di lavoro, Giuffrè, Milano, 2004.

[51] V. C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Giuffrè, Milano, 2015, diffusamente.

[52] V. L. MENGONI, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), cit.

[53] Questo non ha impedito la affermazione della “unitarietà del tipo contrattuale”, secondo una “nozione legale di lavoro subordinato non solo in riferimento al lavoro nell’impresa ma anche con un datore di lavoro non imprenditore”: M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., 35.

[54] V. L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Giuffrè, Milano, 1996.

[55] V. ancora G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 3.

[56] L. ZOPPOLI, Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilizzazione funzionale, cit., par. 4, con riferimento all’obiettivo annunciato della ricerca di un “ordine minimamente giusto”.

[57] V. M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., 42.

[58] I riferimenti essenziali sono a M. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, cit.; F. LISO, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, F. Angeli, Milano, 1982. V. di recente F. PANTANO, Il rendimento e la valutazione del lavoratore subordinato nell’impresa, Cedam, Padova, 2012; e volendo A. OCCHINO, Il diritto del lavoro difronte alla questione del merito, in Studi in onore di Tiziano Treu. Lavoro, istituzioni, cambiamento sociale, Jovene, Napoli, 2011, 173 ss.

[59] Insuperata la ricostruzione di L. MENGONI, Contratto di lavoro e impresa, capitolo I, Lezioni sul contratto di lavoro, Celuc, Milano, 1971, 7 ss., ora in M. NAPOLI (a cura di), Il contratto di lavoro. Scritti di Luigi Mengoni, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 3 ss.

[60] Cfr. L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 6.

[61] V. M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit., già nel titolo del saggio.

[62] V. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 5, dove si sottolinea il carattere del potere di etero-organizzazione come di “un potere qualificato dal riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. V. anche G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, in corso di pubblicazione, 3.

[63] Cfr. O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 2, sulla alternativa tra piccolo imprenditore e lavoratore esclusivamente personale; e in precedenza EAD., Lavoro prevalentemente personale e piccola impresa, Cedam, Padova, 2012.

[64] V. L. BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Società Editrice Libraria, Milano, 1901, ristampato a cura di M. NAPOLI, Vita e Pensiero, Milano, 2003, 26. Il passaggio è richiamato da L. MENGONI, L’evoluzione del pensiero di L. Barassi dalla prima alla seconda edizione del “Contratto di lavoro”, in M. NAPOLI (a cura di), La nascita del diritto del lavoro. “Il contratto di lavoro” di Lodovico Barassi cent’anni dopo. Novità, influssi, distanze, Vita e Pensiero, Milano, 2003, 13 ss., anche in M. NAPOLI (a cura di), Il contratto di lavoro. Scritti di Luigi Mengoni, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 119 ss., spec. 121.

[65] V. L. MENGONI, Obbligazioni “di risultato” e obbligazioni “di mezzi” (Studio critico), cit.

[66] V. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 5.

[67] In senso difforme L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca del­l’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 5, secondo cui “il vincolo della legge che caratterizza il discorso giuridico impone di cercare ciò che è tipico … tramite il confronto tra le discipline …: confronto, non solo tra le disposizioni che definiscono i tipi stessi, ma tra la loro intera disciplina”.

[68] Cfr. in senso diverso O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 3.

[69] V. M. PEDRAZZOLI, Prestazione d’opera e parasubordinazione, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, 545 ss., e volendo altri riferimenti in A. OCCHINO, Il tempo libero nel diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 2010, cap. IV. In senso difforme O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 3, con riferimento alla nozione di durata scritta da G. OPPO, I contratti di durata, in Riv. dir. comm, 1943, 143 ss., centrata esattamente sulla rispondenza tra “l’utile del rapporto” e la “durata proporzionale” (153), ma quindi non decisiva per la soluzione della questione definitoria delle fattispecie lavoristiche. Per G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 1, invece, la questione della “continuatività” si pone ancora come rispondenza ad un “nesso di continuità” e in relazione alla “soddisfazione dell’interesse delle parti … durevole”, il che è ravvisato sia nella durata in senso proprio sia nella continuazione della collaborazione non subordinata.

[70] V. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 1.

[71] Per tutti G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 1.

[72] V. T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., 172.

[73] V. V. BAVARO, Il tempo nel contratto di lavoro subordinato, Cacucci, Bari, 2008.

[74] Cfr. L. NOGLER, La subordinazione nel d. lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 5.

[75] V. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 1.

[76] V. A. PERULLI, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, cit., 120.

[77] Corte costituzionale, sentenza n. 30/1996, rel. Mengoni; e già L. MENGONI, Contratto di lavoro e impresa, capitolo I, Lezioni sul contratto di lavoro, Celuc, Milano, 1971, 7 ss., ora in NAPOLI (a cura di), Il contratto di lavoro. Scritti di Luigi Mengoni, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 3 ss., spec. 34; il passo della sentenza è ripreso da A. PERULLI, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, cit., 119 (e poi in A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 4).

[78] Cfr. A. SUPIOT, Critique du droit du travail, Flammarion, Paris, 1999; e in proposito G. GIUGNI-L. MENGONI-B. VENEZIANI, Tre commenti alla “Critique du droit du travail” di Supiot, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1995, 471 ss.

[79] V. T. TREU, In tema di Jobs Act. Il riordino dei tipi contrattuali, cit., 160, 170.

[80] V. P. ICHINO, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 1989; ID., Il lavoro subordinato: definizione e inquadramentosub art. 2094, in Commentario al codice civile diretto da Schlesinger, Giuffrè, Milano, 1992.

[81] Prima della riforma l’ipotesi di una nozione di subordinazione allargata alla etero-or­ganizzazione, in senso indiretto, è stata argomentata da M. PALLINI, Il lavoro economicamente dipendente, cit., 23 ss. Contra A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 2.2.

V. anche, ma in senso diverso, le recenti ricostruzioni della subordinazione alla luce delle discipline sul lavoro autonomo di M.BORZAGA,Lavorare per progetti. Uno studio su contratti di lavoro e nuove forme organizzative di impresa, Cedam, Padova, 2012; O. RAZZOLINI, Lavoro prevalentemente personale e piccola impresa, Giappichelli, Torino, 2012; F. MARTELLONI, Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza delle collaborazioni a progetto, Bononia Univ. Press, Bologna, 2013.

[82] V. L. NOGLER, Metodo tipologico e qualificazione dei rapporto di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 1990, I 876 ss.; e ora con rara finezza ID., La subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 1.

[83] V. R. PESSI, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs ActWP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 282/2015, par. 2.

[84] V. ancora R. PESSI, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, cit., par. 4.

[85] V. G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 1.

[86] Secondo G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, cit., 5, la disposizione dell’art. 2 sarebbe espressione di una “tendenza volta al superamento della tecnica definitoria-precettiva soppiantata dall’adozione di formule ricognitive-funzionali che operano per approssimazione e per similitudine e che lasciano ampio spazio all’opera ricostruttiva degli interpreti per adeguare la disciplina protettiva alla mutevole realtà sociale”.

[87] V. P. TOSI, L’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 1/2015: una norma apparente?, cit.; e in senso parzialmente analogo M. MARAZZA, Lavoro autonomo e collaborazione organizzate nel Jobs Act, supplemento de Il Sole24 Ore, luglio 2015, 8; e V. NUZZO, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, cit., par. 2.

[88] In senso difforme L. NOGLER, La subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015: alla ricerca del­l’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 4, che ravvisa nell’art. 2 una tecnica di “presunzione assoluta” tout court.

[89] Ugualmente critici L. NOGLER, La subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., par. 4; A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., par. 1; e G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., cit., par. 3.

[90] Sulla utilità di distinguere tra contratto e rapporto di lavoro, in primis L. MENGONI, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, in Giornale dir. lav. rel. ind., 1990, 5 ss., ora in M. NAPOLI (a cura di), Il contratto di lavoro. Scritti di Luigi Mengoni, Vita e Pensiero, Milano, 2004, 53 ss.; e comunque M. NAPOLI, Contratto e rapporti di lavoro, oggi, cit.

[91] La tesi è in O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, cit., par. 2; e in V. NUZZO, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, cit., par. 2. Lascia aperta l’opportunità di mantenere la distinzione, se utile all’interpretazione, L. ZOPPOLI, Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilizzazione funzionale, cit., par. 1.