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Le forme di controllo nello Statuto dei lavoratori: orientamenti giurisprudenziali e questioni di attualità

Ilaria Bresciani (Dottoranda di ricerca dell’Università di Ancona)

Le forme di controllo e i limiti al potere del datore di lavoro disciplinati dagli artt. 1, 2, 3, 5, 6 e 8 Stat. lav. sono legati a una particolare concezione dell’impresa e del modo di organizzare l’attività produttiva che riflette le esigenze e le problematiche proprie del periodo storico e culturale in cui lo Statuto fu emanato. La modernizzazione dei sistemi produttivi, l’e­voluzione del modo di fare impresa e soprattutto i cambiamenti socio-culturali hanno portato la necessità per il datore di lavoro di avvalersi di forme di controllo nuove, dall’im­piego dei più moderni strumenti tecnologici e informatici alle agenzie investigative private, con ciò determinando la nascita di nuove esigenze di tutela.

Forms of control in the Statute of workers: court reports guidelines and current issues

The forms of control and the limits to the power of the employer governed by articles 1, 2, 3, 5, 6 and 8 of the Statute of workers are tied to a particular company’s design and the way of organizing productive activity that reflects the demands and the challenges of cultural and historical period in which the Statute it was issued. The modernization of production systems, the evolution of the way of doing business and especially the socio-cultural changes have brought the need for the employer to use new forms of control, the use of the most modern technological and computer scientists tools to investigative agencies private, thereby resulting in the emergence of new protection requirements.

KeywordsWorkers’Statute, forms of control, control over the company’s assets, control on employment, control over the individual workers, power control, limits

 

1. Le forme di controllo nello Statuto dei lavoratori

La soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro comporta che il primo non si possa sottrarre a controlli e rende necessario un qualche correttivo all’esercizio del potere, in un’ottica di tutela dei valori fondamentali della persona [1].

La situazione di squilibrio tra le parti è un caratteristica fisiologica del contratto che non si può ritenere colmata dal fatto che oggi in molti casi il lavoratore possieda una certa professionalità, magari di grado elevato; egli dovrà comunque rispondere sulla corretta esecuzione della prestazione e, pertanto, il tema dei limiti al potere di controllo deve essere oggetto di continua attenzione, adeguamento e contemperamento con le nuove necessità legate alla modernizzazione dei sistemi produttivi e soprattutto ai cambiamenti socio-culturali.

L’attività di controllo, intesa quale osservazione in senso ampio, può essere finalizzata ad accertare aspetti diversi relativi alla prestazione lavorativa oppure alla persona del lavoratore, e può essere svolta in vario modo, per esempio il datore di lavoro può osservare in prima persona il lavoratore nello svolgimento delle sue mansioni, oppure può incaricare altri soggetti, o ancora può servirsi dell’ausilio di sistemi e strumenti di controllo a distanza [2].

Il radicale mutamento del contesto in cui gli artt. 1, 2, 3, 5, 6 e 8 dello Statuto trovano applicazione, ovvero l’organizzazione produttiva del datore di lavoro, per effetto soprattutto della modernizzazione delle tecniche e degli strumenti impiegati che ha portato a una riorganizzazione dello stesso ambiente e delle modalità di lavoro, impone una rilettura dei poteri di controllo datoriali finalizzata a individuare se vi siano e quali siano i profili di attualità o di obsolescenza di tali disposizioni. Indice significativo in tal senso sono le decisioni giurisprudenziali grazie alle quali si possono trarre considerazioni circa la loro applicazione nei casi pratici [3].

2. Libertà di manifestazione del pensiero e divieto di indagini sulle opinioni

L’art. 1 dello Statuto impone al datore di lavoro di astenersi dall’ostacolare la libera espressione del pensiero dei propri dipendenti, tuttavia, la formulazio­ne generica della norma ha da sempre posto il problema di individuarne i limiti, finora ricondotti dalla giurisprudenza al rispetto della libertà di organizzazione dell’impresa, all’obbligo del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in conformità alle direttive impartite dall’imprenditore, e al rispetto degli obblighi secondari che discendono dal rapporto di lavoro [4].

Ripercorrendo la casistica giurisprudenziale sull’art. 1 dello Statuto, emerge che la norma, fin dalla sua entrata in vigore, ha trovato applicazione in prevalenza con riguardo a due aspetti: il primo relativo all’esercizio dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e il secondo con riguardo all’esercizio del diritto di critica, spesso ad opera di lavoratori nell’esercizio della propria funzione sindacale [5].

In particolare, le pronunce giurisprudenziali hanno affermato il divieto di discriminazione per aver espresso opinioni politiche, sindacali o religiose e la conseguente illegittimità del licenziamento eventualmente comminato sulla base di tali ragioni [6]; la ammissibilità della affissione di manifesti di associazioni sindacali o la distribuzione di volantini, purché con modalità tali da non incidere sul normale svolgimento dell’attività lavorativa [7]; la legittimità dello svol­gimento di referendum nei locali aziendali anche non su tematiche strettamente sindacali, qualora le modalità e i tempi di svolgimento non arrecassero pregiudizio allo svolgimento dell’attività [8]; e, infine, l’ammissibilità, a certe condizioni, dell’esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro [9].

La scarsa applicazione giurisprudenziale può essere ricondotta al fatto che si tratta di una norma di principio e che i valori ivi espressi trovano protezione già ad opera sia dell’art. 8 che dell’art. 15 Stat. lav. [10].

Tuttavia, il valore fondamentale affermato dall’art. 1 Stat. lav. non può essere considerato quale mero frutto di un retaggio culturale del passato, di un modo di concepire l’organizzazione che non fa più parte dei nostri giorni; la norma fa trasparire tutta la sua attualità sol che si pensi che non è indirizzata solo al datore di lavoro che deve tollerare le libere manifestazioni del pensiero, ma bensì a tutti i lavoratori che tra di loro devono rispettare le opinioni di ciascuno. Oggi, fenomeni come la globalizzazione, i decentramenti produttivi in Paesi stranieri, e soprattutto l’immigrazione fanno sì che persone con identità, storie, culture, lingue e religioni, anche molto diverse, siano fianco a fianco sul posto di lavoro per la maggior parte del loro tempo. Pertanto, l’esigenza di affermare nei luoghi di lavoro con forza valori preminenti quali la dignità, l’eguaglianza e la libertà è da ritenersi più che mai ancora attuale [11].

A garanzia di tali principi, l’art. 8 dello Statuto impone al datore di lavoro un divieto di indagine inderogabile e indisponibile, da cui discende il diritto a mantenere il riserbo su alcune questioni relative alla propria sfera privata e alla protezione di quest’ultima, tanto che il dibattito dottrinale e giurisprudenziale ha da sempre interessato la individuazione dei limiti al potere di controllo al fine di stabilire la legittimità o meno delle indagini condotte dal datore di lavoro [12].

La maggior parte della giurisprudenza sull’art. 8 dello Statuto ne conferma la prevalente finalità anti-discriminatoria [13], quale norma inderogabile che vieta al datore di lavoro, sia in fase di assunzione che nel corso del rapporto, di effettuare indagini che non siano rilevanti ai fini della valutazione della attitudine professionale del lavoratore, al fine di evitare che tali informazioni possano essere fonte di provvedimenti discriminatori [14].

Da alcune sentenze emerge l’illegittimità di clausole di contratti collettivi del settore bancario che subordinino la assunzione del lavoratore al fatto che non vi siano vincoli di parentela con altri dipendenti del medesimo istituto di credito [15], oppure di clausole di bandi di concorso pubblici o privati per l’as­sunzione di lavoratori sulla base della residenza o dell’esistenza di vincoli di parentela o di matrimonio [16]. Interessante è una recente pronuncia che ha affermato l’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato sulla base di dati acquisiti mediante pedinamento di agenti investigativi privati incaricati dal datore di lavoro di svolgere indagini e accertamenti non legati alla valutazione professionale del lavoratore stesso [17].

Spesso il datore di lavoro agisce in violazione del divieto di indagine quando è mosso da intenti discriminatori nei confronti di un lavoratore; ciò che spinge a travalicare i limiti dei propri poteri è la ricerca di informazioni estranee al rapporto relative alla personalità e a fatti della vita privata, non attinenti alla prestazione, da poter utilizzare sul piano disciplinare.

Un “punto debole” dell’art. 8 Stat. lav. è che solo ad indagine avvenuta si può sapere con certezza che tipo di informazioni sono state raccolte e dunque oramai apprese dal datore di lavoro; se poi quest’ultimo non le utilizzasse, il lavoratore potrebbe anche non sapere mai che il datore le possiede ed è per tale ragione che l’art. 8 viene in rilievo solo qualora il datore agisca sul piano disciplinare nei confronti del lavoratore mosso da un intento discriminatorio [18].

Infine, l’art. 8 dello Statuto, quale norma anti-discriminatoria, è spesso invocato dalla giurisprudenza a corredo della violazione di altre norme statutarie che prevedono limiti al potere di controllo datoriale, quasi come norma di chiusura, che consente di assistere con sanzione penale anche la violazione di disposizioni non richiamate dall’art. 38, legge n. 300/1970.

La scarsa applicazione giurisprudenziale della norma può portare a opposte conclusioni: essa può dipendere dal fatto che le realtà aziendali si sono oramai adeguate alle prescrizioni dello Statuto riconoscendo in via automatica e pacifica al lavoratore la tutela della propria libertà e dignità, oppure può essere dovuta alle modificazioni della realtà e delle strategie aziendali che possono avere inciso sulle forme di esercizio del potere di controllo del datore di lavoro rendendo obsoleta la disciplina degli anni ’70 [19].

In effetti, dopo quasi mezzo secolo dalla sua emanazione, l’organizzazione non può che essere molto differente dalle situazioni e dalle esigenze a cui guardavano le disposizioni dello Statuto negli anni ’70 e ciò comporta la necessità di ridefinire i limiti al potere di indagine del datore di lavoro e ricercare nuovi equilibri di conciliazione tra i valori fondamentali del lavoratore e le mutate esigenze di organizzazione dell’impresa [20].

L’impiego delle più moderne tecnologie informatiche ha mutato in modo radicale gli stessi meccanismi di acquisizione delle informazioni, incidendo sulle modalità e gli strumenti di indagine, e la facilità con cui oggi il datore di lavoro può venire in possesso di informazioni personali, soprattutto per mezzo dei c.d. social networks, rende la tutela della riservatezza del lavoratore molto più complessa [21].

A tal fine è necessario cogliere il significato e la portata del divieto di indagine per tentare di stabilire i limiti all’odierna capacità di conoscenza del datore di lavoro, con la consapevolezza della difficoltà di rintracciare un esatto confine tra le informazioni che rientrano nella sfera di libertà individuale e quelle che possono essere importanti per l’imprenditore per valutare l’assun­zione o il mantenimento nella propria organizzazione di un lavoratore [22].

Peraltro, la modernizzazione non ha inciso sulla struttura del contratto di lavoro, il quale, determinando uno squilibrio tra le parti a vantaggio del datore di lavoro, continua a porre il lavoratore o l’aspirante tale in una condizione di vulnerabilità, accentuata dalla recente crisi economica, dalla difficoltà di reperire una occupazione e di mantenere il posto di lavoro.

Per questo si può ritenere ancora attuale la tecnica normativa utilizzata dal legislatore storico, il quale ha previsto una tutela forte nell’art. 8 dello Statuto, con una norma inderogabile, sottratta alla disponibilità delle parti e assistita da sanzione penale in caso di violazione del divieto [23].

L’introduzione della disciplina sul trattamento dei dati personali non ha inciso sulla portata applicativa dell’art. 8 Stat. lav., lasciando pressoché invariata la scarna casistica giurisprudenziale descritta [24].

Tuttavia, la norma potrebbe trarre un nuovo vigore applicativo a seguito della riforma dell’art. 4 Stat. lav. Tale disposizione prevede che gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione lavorativa, anche se consentono un controllo a distanza, possono essere impiegati senza le limitazioni previste dal com­ma 1. Se si considera che, ai sensi del comma 3, le informazioni così raccolte sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che il lavoratore sia stato informato sulle modalità con cui gli è consentito l’uso di tali strumenti e sull’effettuazione dei controlli, l’unico limite alla ampiezza del potere di controllo per mezzo delle tecnologie informatiche potrebbe essere rappresentato dall’art. 8 dello Statuto. Pertanto, l’avvenuta “liberalizzazione” dell’utilizzo delle tecnologie informatiche, che di fatto consente con maggiore facilità il reperimento di informazioni anche di natura personale, trova un correttivo nel divieto di indagini che non siano funzionali alla valutazione dell’at­titudine professionale. La norma può continuare a garantire la protezione della sfera privata del lavoratore grazie alla ampiezza del significato attribuibile del termine “indagini”. Infatti, il divieto espresso dalla norma si rivolge ad una pluralità di comportamenti indeterminati tutti riassumibili nella medesima nozione qualora finalizzati alla conoscenza e, pertanto, l’accesso alle numerose informazioni contenute nelle molteplici banche dati on line o la visualizzazione di profili di social networks, intrisi di contenuti estranei alla prestazione lavorativa, se finalizzati alla consapevole ricerca di informazioni sul lavoratore, rientrano tra le indagini che devono essere ritenute illegittime ai sensi dell’art. 8 Stat. lav. [25].

2.1. La tutela della privacy del lavoratore nel codice in materia di protezione dei dati personali

Il richiamo della disposizione operato dalle norme in materia di protezione dei dati personali che ad essa rinviano rende necessario un coordinamento sulla base del criterio della specialità della norma lavoristica [26].

Infatti, l’art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 196/2003, identifica come dati sen­sibili, ovvero particolarmente meritevoli di tutela, gli stessi elementi personali del lavoratore, attinenti alle opinioni politiche, sindacali e religiose, che nella norma statutaria sono oggetto di un divieto di indagine assoluto. Tuttavia, mentre l’art. 8 Stat. lav. contiene una presunzione ex lege di non rilevanza di tali informazioni ai fini della valutazione professionale del lavoratore, l’art. 26, comma 4, lett. d), d.lgs. n. 196/2003, qualora la conoscenza dei dati sensibili sia indispensabile per la gestione stessa del rapporto, ammette il loro trattamento previa autorizzazione del Garante e senza che sia richiesto il consenso del lavoratore [27].

Ma il “trattamento” dei dati personali non coincide con il “potere di indagine”, né il primo ricomprende il secondo; se così fosse bisognerebbe ritenere che le indagini entro i limiti dettati dal provvedimento autorizzativo del Garante per l’assolvimento degli obblighi di legge in capo al datore di lavoro sono sempre legittime, con una grave violazione della disciplina statutaria [28].

Invece, stante la differente ratio che ispira le normative, le disposizioni in materia di protezione dei dati personali devono essere viste in un’ottica di rafforzamento del divieto di indagine posto dall’art. 8 dello Statuto, in quanto qualora le notizie si possano considerare ottenute in modo legittimo ai sensi della norma statutaria, il datore di lavoro sarà soggetto agli ulteriori limiti derivanti dal codice della privacy relativi alla catalogazione dei dati sensibili per mezzo di strumenti informatici.

Tuttavia, sul fatto che il codice in materia di protezione dei dati personali abbia rafforzato la disposizione statutaria, confermandone l’attualità e l’impor­tanza, si potrebbe obiettare che mentre fino all’entrata in vigore del codice, la violazione dell’art. 8 dello Statuto comportava una sanzione penale ai sensi dell’art. 38 dello Statuto, il successivo art. 179, d.lgs. n. 196/2003 ha eliminato dall’art. 38 il riferimento all’art. 8, facendo sì che la violazione della norma rilevasse solo sotto il profilo civilistico del risarcimento del danno connesso al­l’illegittima acquisizione delle informazioni vietate e indipendentemente dalla loro utilizzazione. Sempre il codice, all’art. 170, ha previsto la sanzione penale della reclusione per chiunque, essendovi tenuto, non osservi il provvedimento di autorizzazione adottato dal Garante ai sensi dell’art. 26. In questo modo il legislatore ha mostrato di ritenere più grave il trattamento illegittimo dei dati rispetto alla acquisizione in modo illegittimo degli stessi, spostando il rischio di una condanna penale per il datore al momento successivo rispetto a quello dell’indagine. Forse le ragioni della scelta si possono rintracciare nella difficoltà di individuare con certezza i limiti entro cui il datore può indagare in mo­do legittimo, soprattutto avendo riguardo alla informatizzazione degli strumenti di lavoro che di fatto consentono un flusso continuo di conoscenze e di informa­zioni di ogni tipo sul lavoratore.

Di recente il legislatore ha fatto un passo indietro per questo aspetto sanzionatorio e ha disposto, con l’art. 23, comma 2, d.lgs. n. 151/2015, la modifica dell’art. 171, d.lgs. n. 196/2003, a partire dal 24 settembre 2015, stabilendo che la violazione delle disposizioni di cui all’art. 113, ovvero la norma che richiama l’art. 8 dello Statuto, e di cui all’art. 4, commi 1 e 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’art. 38 dello Statuto, il che sembrerebbe voler ridare conseguenze sul piano penale alla violazione del divieto di indagini. Certo si sarebbe potuto rendere il significato più chiaro andando a modificare l’art. 179 del codice che aveva cancellato l’art. 8 dal­l’art. 38, mentre, in questo modo, all’interno del codice e nello stesso capo relativo agli illeciti penali, abbiamo due disposizioni che si contraddicono l’una con l’altra, ma essendo la modifica all’art. 171 successiva dovrebbe prevalere sulla disposizione dell’art. 179 che si dovrebbe considerare implicitamente abrogata.

Il ripristino della sanzione penale in caso di violazione del divieto di indagine può essere motivato dalla esigenza di ristabilire quell’equilibrio tra le parti del rapporto che rischia di essere scardinato dalla intervenuta riforma dell’art. 4 dello Statuto, norma a cui pure è stata ridata valenza penale. Il legame tra il ritorno ad una tutela forte della riservatezza e la liberazione dell’impresa da vincoli con riguardo all’impiego degli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione, emerge con chiarezza dalla stessa formulazione dell’art. 23, d.lgs. n. 151/2015, il quale al comma 1 riscrive l’art. 4 dello Statuto, mentre al comma 2 ripristina le conseguenze penali per la violazione sia dell’art. 4 che dell’art. 8 dello Statuto. Ne deriva che, da una parte, l’im­prenditore potrà impiegare strumenti da cui deriva anche la possibilità di controllo a distanza, se necessari allo svolgimento della prestazione, senza il rispetto dei limiti di cui al comma 1, e potrà servirsene per controllare l’attività del lavoratore purché previa comunicazione delle modalità di utilizzo degli strumenti e di quelle di controllo sugli stessi, ma, dall’altra parte, qualora egli svolga una attività di indagine su fatti che non hanno alcuna connessione diretta con le mansioni del lavoratore incorrerà in conseguenze di rilievo penale [29].

3. Il controllo sul patrimonio aziendale e sull’attività del lavoratore

Gli artt. 2 e 3 dello Statuto non definiscono in modo esauriente le specifiche modalità con cui debba svolgersi il controllo legittimo sul patrimonio azien­dale o sull’attività lavorativa e, pertanto, queste devono essere fissate di volta in volta in base alle circostanze del caso concreto, nel rispetto della libertà e della dignità del lavoratore e del principio di buona fede, senza che l’interesse del lavoratore sia sacrificato oltre la misura sufficiente a raggiungere lo scopo del controllo [30].

Così, come si evince dalla rubrica dell’art. 2 dello Statuto, il legislatore non ha inteso disciplinare il controllo sul patrimonio aziendale, bensì ha voluto limitare la particolare circostanza in cui il datore di lavoro decida di servirsi di guardie giurate, stabilendo quali attività possono compiere e cosa può essere oggetto del loro controllo [31]. Al di fuori di tale ipotesi il datore di lavoro resta libero di controllare e tutelare il patrimonio aziendale come meglio ritiene, nel rispetto del principio di buona fede [32].

Allo stesso modo l’art. 3 dello Statuto non intende disciplinare il controllo sulla attività lavorativa ma quella particolare situazione in cui esso sia affidato al proprio personale dipendente [33].

L’esercizio del potere di controllo da parte di soggetti a ciò deputati, quali le guardie giurate o il personale di vigilanza, aveva un ruolo centrale negli anni ’70, quando la tecnologia non era ancora ai livelli dei nostri giorni e soprattutto gli elevati costi facevano sì che non potesse essere alla portata di tutti. Il fatto che oggi la tecnologia sia diffusa e consenta di controllare luoghi e persone senza l’ausilio di altri soggetti, porta a chiedersi se gli artt. 2 e 3 dello Statuto si possano considerare ancora norme attuali o se siano da ritenere oramai sorpassate da metodi più moderni.

Nonostante le aziende di certe dimensioni si avvalgano anche oggi dell’au­silio dei c.d. vigilantes, ovvero guardie giurate deputate al controllo dei locali aziendali soprattutto di notte e nei giorni festivi, non si rinvengono in tempi recenti decisioni su controversie relative a casi di sconfinamento dei limiti del loro operare. Il passare del tempo ha chiarito i ruoli e nonostante la presenza di guardie giurate in divisa e armate queste non hanno un atteggiamento “poliziesco” o di minaccia nei confronti dei lavoratori dell’impresa in cui eseguono il controllo. Per questo aspetto si può affermare che la norma ha raggiunto il suo scopo.

Tra gli anni ’80 e gli anni ’90 la giurisprudenza è stata in prevalenza finalizzata a circoscrivere l’oggetto del controllo esercitato per mezzo delle guardie giurate, che doveva attenere alla tutela del patrimonio aziendale, composto da beni mobili e immobili, e seppure l’orientamento prevalente era nel senso di ritenere che si incorresse in violazione della norma tutte le volte in cui alla tutela del patrimonio si accompagnava un’ulteriore finalità non consentita [34], non sono mancate pronunce tolleranti verso un controllo estensivo delle guardie giurate qualora un prestatore di lavoro avesse posto in essere un’attività illecita a danno del patrimonio aziendale [35].

Altre pronunce hanno ribadito che l’art. 2 Stat. lav. si limita a circoscrivere il comportamento delle guardie giurate, senza porre limiti a forme di controllo diretto o mediante la propria organizzazione sul patrimonio aziendale, che ben può avvenire sia all’interno che all’esterno dei locali dell’impresa e anche in maniera occulta, ovvero all’insaputa dei lavoratori che ivi prestano la propria attività [36].

Infine, si rinvengono pronunce atte a chiarire la portata della sanzione penale in caso di violazione dell’art. 2 affermando che essa grava sia sulla guardia giurata che sul datore di lavoro anche congiuntamente, sul primo in quanto autore della violazione e sul secondo per aver tollerato il comportamento illegittimo del primo [37].

In passato la norma ha avuto un ruolo importante nella affermazione del principio per cui il lavoratore non deve subire controlli di carattere poliziesco nel rispetto della libertà e della dignità della persona [38]. E anche se per certi versi la disposizione può considerarsi assestata e forse obsoleta in virtù di uno sviluppo tecnologico che ha mutato il modo di effettuare i controlli, soprattutto per mezzo dei c.d. controlli a distanza, essa ha mantenuto un certo vigore applicativo quale fondamento del principio per cui la tutela del patrimonio aziendale può essere affidata anche a soggetti esterni alla realtà produttiva, diversi dalle guardie giurate, quali per esempio le agenzie di investigazione, non essendovi limitazioni in tal senso, tuttavia innescando un inevitabile intreccio tra controlli difensivi e controlli occulti vietati dall’art. 3 dello Statuto [39].

Il divieto di controlli occulti sulla attività lavorativa dei dipendenti, stante l’obbligo del datore di lavoro di comunicare ai lavoratori interessati i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa, non esclude il potere del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare in via diretta o mediante la propria organizzazione gerarchica l’adempimento delle prestazioni da parte dei lavoratori, anche con modalità occulte, senza che vi ostino i principi di correttezza e buona fede [40].

A parte tali aspetti, oggetto di uno scarso numero di pronunce se si considera l’arco di tempo da cui le disposizioni sono in vigore, l’aspetto su cui si è concentrata una grande produzione giurisprudenziale è quello relativo ai limiti al divieto di controlli occulti sull’attività lavorativa qualora il datore di lavoro incarichi della vigilanza soggetti esterni all’organizzazione aziendale e pertanto sconosciuti ai lavoratori quali gli agenti investigativi privati [41].

Si può ipotizzare che proprio la rigidità degli artt. 2 e 3 dello Statuto, comprensibile per l’epoca e le ragioni per cui le norme sono state pensate, abbia portato il datore di lavoro ad affidare i controlli sul suo patrimonio e sui lavoratori alle agenzie investigative, quale personale esterno all’organizzazione imprenditoriale non considerato in modo diretto dalle norme statutarie.

Il cambiamento dei soggetti a cui l’imprenditore si rivolge sempre più spesso per delegare l’attività di controllo può significare, inoltre, che nonostante gli strumenti tecnologici di cui il datore di lavoro potrebbe facilmente servirsi, soprattutto dopo la riscrittura dell’art. 4 dello Statuto, il controllo eseguito per mezzo di personale appositamente incaricato sembra non poter essere sostituito e rimane una componente fondamentale della estrinsecazione del potere di controllo del datore di lavoro.

3.1. Il controllo esercitato per mezzo degli agenti di investigazione

La copiosa giurisprudenza e il vivace dibattito dottrinale sui controlli ad opera di agenti incaricati dal datore di lavoro di investigare su ciò che accade nell’organizzazione produttiva testimoniano che nel diritto vivente il dibattito sui controlli occulti non è certo sopito, nonostante siano passati quasi cinquanta anni dalla emanazione dello Statuto, e tali tecniche di vigilanza rendono difficile il compito dell’interprete di rintracciare una linea di confine tra i controlli leciti e illeciti [42].

Il problema deriva dal fatto che i controlli di questo genere di fatto implicano una sorveglianza sull’attività lavorativa svolta dal dipendente, per un certo lasso di tempo non predeterminabile perché non è dato sapere se e quando il lavoratore reitererà il comportamento che ha dato luogo ad un sospetto da parte del datore di lavoro.

L’orientamento prevalente nella giurisprudenza è che il controllo occulto dell’agente investigativo diretto ad accertare la commissione di illeciti, seppure compiuti in occasione della prestazione lavorativa, esula dal campo di applicazione dell’art. 3, relativo alla vigilanza sull’adempimento delle direttive imprenditoriali, mentre è applicabile il principio che si ricava da una lettura a contrario dell’art. 2 dello Statuto, ovvero della libertà delle forme di controllo che riguardano la tutela del patrimonio, salvo che siano poste in essere dalle guardie giurate [43].

Ma se tali ipotesi non sono assoggettate ai limiti previsti dagli artt. 2 e 3 dello Statuto, allora bisogna chiedersi quali sono le norme che tutelano il lavoratore.

È indubbio che ci debba essere un contemperamento e coordinamento tra le ragioni organizzative ed economiche dell’impresa e i valori e i principi che i­spirano l’ordinamento del lavoro, quali la libertà, la dignità e la riservatezza dei lavoratori, ed è in questa ottica che deve essere valutata la liceità di tali forme di vigilanza non previste in maniera espressa dalla norme statutarie [44].

Infatti, se la tutela del patrimonio viene attuata per mezzo del controllo sul­l’attività dei lavoratori, non è possibile prescindere dalla ratio dell’art. 3, destinato a proteggere i lavoratori dai controlli occulti. Tanto che la giurisprudenza più recente richiede che i controlli effettuati dagli agenti investigativi non siano subdoli, capziosi e sleali e che l’agente si limiti a comportarsi come se fosse un normale cliente accorto, dovendo la vigilanza avere a oggetto i soli elementi estrinseci del comportamento del lavoratore, verificabili da qualsiasi altro soggetto, e in connessione con la condotta illecita che si intente accertare [45]. Inoltre, i controlli occulti sono ammessi solo quale extrema ratio, in presenza di determinate circostanze, gravi ragioni e fondati indizi, quale unico modo possibile e indispensabile per l’accertamento dell’illecito, commesso o in corso di esecuzione, onde evitare di incaricare agenti investigativi al solo scopo di realizzare un controllo occulto sullo svolgimento dell’attività di lavoro [46].

Se l’agente agisse al di fuori di tali regole di condotta ispirate alla buona fede si avrebbe una lesione della dignità del lavoratore soprattutto nel caso in cui il sospetto del datore di lavoro non risultasse fondato; viceversa, nel rispetto delle regole individuate dalla giurisprudenza e entro a cui è consentito all’agente investigativo lavorare in incognito, né il lavoratore destinatario del controllo né i colleghi potranno accorgersi della sua presenza, e se al termine delle indagini non emerge nulla di illecito a carico del dipendente quest’ultimo con buona probabilità non verrà mai a sapere di essere stato oggetto di un controllo.

D’altra parte, senza la possibilità di incaricare personale esterno ad hoc, il controllo occulto è vietato (e se fosse posto in essere dal datore di lavoro o dai superiori gerarchici non si potrebbe nemmeno parlare di controllo occulto). Infatti, nonostante l’art. 3 Stat. lav. parli di controllo sull’attività senza altre pre­cisazioni, la giurisprudenza, fin dagli anni ’80, proprio al fine di legittimare il controllo occulto da parte degli agenti investigativi, ha distinto tra controllo della prestazione in senso stretto, inteso come il rispetto delle direttive e l’utilizzo della diligenza richiesta, e controllo di atti che esulano dalle normali mansioni, pur compiuti in occasione di lavoro. Da ciò dovrebbe ricavarsi che il personale di vigilanza, incaricato dall’imprenditore ai sensi dell’art. 3 Stat. lav. non potrebbe effettuare il controllo su fattori extra-lavorativi da cui discenda la commissione di illeciti in occasione della prestazione lavorativa, ma dovrebbe essere incaricato solo del controllo sull’attività lavorativa intesa in senso stretto.

In realtà, questa interpretazione ha un senso nell’ottica dell’art. 3 dello Statuto, volto a limitare il potere di controllo sull’attività lavorativa, ma con riferimento al controllo sui fatti illeciti extra-lavorativi occorre rilevare che esso è ammesso ai fini della tutela del patrimonio, non dell’attività, e quindi devono trovare applicazione i principi desumibili dall’art. 2 Stat. lav.; in questa ottica vi potrebbe essere uno spazio per consentire anche al personale di vigilanza di essere adibito alla tutela del patrimonio aziendale, e senza l’obbligo di comunicare nomi e mansioni, posto che ben può svolgersi in forma occulta [47]. Infatti, dall’art. 2 Stat. lav. si ricava che il patrimonio aziendale può essere tutelato in ogni modo e senza alcun limite a meno che il datore non si voglia avvalere delle guardie giurate.

Sono molti gli aspetti di incertezza che vengono in rilievo quando come in questo caso si deve procedere al contemperamento di esigenze opposte con stru­menti che non essendo stati pensati per tali situazioni rivelano tutta la loro inadeguatezza a far fronte ai cambiamenti organizzativi.

Certo, seguendo l’orientamento giurisprudenziale prevalente viene da chiedersi che cosa resti dell’art. 3 dello Statuto dei lavoratori. Infatti, in presenza di controlli occulti compiuti da agenti investigativi la norma viene ritenuta non applicabile stante la diversa finalità di tutela del patrimonio, ma è inevitabile che la legittimità dei controlli, anche di quelli più penetranti, non può essere valutata ex ante sulla base di una analisi ricognitiva, ma al contrario sarà valutata solo ex post, dando luogo a un giudizio inficiato dal fatto che quei controlli avranno già dimostrato di aver raggiunto lo scopo, ovvero di aver provato l’avvenuta commissione di un illecito in occasione di lavoro [48].

La gravità del fatto accertato sembra far venire meno l’interesse ad entrare nel merito del tipo di controllo messo in atto mediante una attenta ricostruzione dei limiti e delle modalità che i controllanti devono rispettare.

Di fatto basta un debole sospetto nutrito dal datore di lavoro per sottoporre il lavoratore a controlli anche penetranti che per forza di cose coinvolgono tutta l’attività lavorativa del soggetto controllato, e, pertanto, per l’agente investigativo sarà inevitabile venire in possesso di altre informazioni quali il livello di produttività, la diligenza o la regolarità dell’operato del lavoratore.

Posto che entrambe le norme statutarie che vengono in questione sono contenute nel Titolo I dello Statuto che tutela la libertà e la dignità del lavoratore, a protezione dei lavoratori, gli elementi raccolti dagli investigatori sul mancato esatto svolgimento della prestazione lavorativa che non integrino un illecito lesivo del patrimonio aziendale dovrebbero ritenersi inutilizzabili a fini discipli­nari [49]. Mentre occorre chiedersi se la violazione dei limiti elaborati dalla giurisprudenza alle modalità operative degli agenti investigativi possa comportare conseguenze penali, ovvero, se il fatto che la fattispecie si inserisca negli spazi concessi dall’art. 2 Stat. lav. può comportare l’estensione delle conseguenze penali ivi previste per le violazioni commesse da parte delle guardie giurate.

I dubbi e le criticità che sono emersi portano a riflettere sulla attualità e sulla necessità del dibattito sui poteri e sui limiti all’impiego delle agenzie investigative private.

In particolare, volgendo lo sguardo al modo in cui è cambiato il mondo del lavoro, e lo stesso diritto del lavoro, ci si può chiedere se le riforme degli ultimi anni hanno avuto o potranno avere dei riflessi sul fenomeno dei controlli per mezzo degli agenti privati.

Se si considera che dalla legge n. 92/2012 al d.lgs. n. 23/2015 il legislatore ha reso sempre più facile per il datore di lavoro decidere di licenziare un lavoratore, in una qualche misura il primo potrebbe trovare conveniente procedere al licenziamento del dipendente sospettato, e sopportare il rischio di conseguenze economiche predeterminate in caso di illegittimità del licenziamento, anziché assoldare e remunerare un investigatore privato per un tempo e un risultato che non è in grado di prevedere, non potendo sapere con certezza se e quando il lavoratore terrà il comportamento illecito.

Al contrario, invece, appare difficile che possa incidere sull’ampio utilizzo del controllo esercitato per mezzo di persone, la modifica apportata dal legislatore all’art. 4 dello Statuto, in quanto vi sono casi, come quelli che formano oggetto del maggior numero di controversie sul tema, per esempio accertare se il cassiere emetta tutti gli scontrini oppure si procuri un ingiusto guadagno a danno del datore di lavoro, che difficilmente potrebbero essere accertati con strumenti tecnologici o informatici necessari al lavoratore per svolgere la propria prestazione.

4. I controlli sullo stato di malattia e le perquisizioni sulla persona del lavoratore e riflessioni conclusive

Gli artt. 5 e 6 Stat. lav. perseguono finalità molto diverse ma una trattazione comune è possibile in quanto entrambi disciplinano poteri di controllo del datore di lavoro che coinvolgono la dimensione personale fisica del lavoratore e non hanno ad oggetto la prestazione lavorativa intesa in senso stretto, anche se non per questo non si debbono considerare quale espressione del potere tipico del datore di lavoro di direzione e organizzazione, essendo rivolte a verificare la correttezza del lavoratore stesso [50].

L’art. 5 Stat. lav. persegue una finalità di obiettività dell’accertamento medico e è volto a prevenire eventuali atteggiamenti discriminatori del datore di lavoro.

In coerenza con quello che dovrebbe essere l’interesse del datore di lavoro di verificare se vi sia o meno un inadempimento contrattuale da parte del lavoratore ai fini disciplinari, la possibilità di conoscenza della patologia che affligge il lavoratore è esclusa sia dalla lettera della norma, che consente solo un controllo sulle assenze del lavoratore, sia dalla disciplina sul trattamento dei dati sensibili, tra cui di certo rientra anche lo stato di salute del dipendente, così come dall’art. 8 dello Statuto, che vieta ogni indagine che non sia rilevante ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.

Allo stesso modo anche eventuali indagini non mediche comunque finalizzate ad accertare lo stato di salute del dipendente sono da ritenere ammissibili solo entro i limiti di cui all’art. 8 dello Statuto [51].

In questo senso la norma sembra ammettere i controlli da parte di agenti investigativi privati finalizzati a accertare se il lavoratore assente per malattia svolga attività incompatibili con l’asserito stato di salute [52]; infatti, se le indagini sono rivolte ad accertare la veridicità dello stato di malattia non si dovrebbe rinvenire una violazione dell’art. 8 Stat. lav. posto che si tratterebbe di accertamenti diretti alla sussistenza della correttezza del lavoratore e dunque legati al corretto adempimento della prestazione, seppure posti in essere in un particolare momento in cui il rapporto di lavoro si trova sospeso. Al contrario, essi dovrebbero essere vietati, sia ai sensi dello stesso art. 5 che dell’art. 8, qualora diretti ad accertare il tipo di patologia ovvero quando sia tratti di accertamenti di tipo sanitario [53].

Anche quando il controllo investe la idoneità fisica [54], occorre ricercare un coordinamento tra l’art. 5 e l’art. 8 dello Statuto in quanto, sia che il rapporto sia già costituito, sia che si tratti di un accertamento preassuntivo, l’idoneità fisica ad eseguire la prestazione rientra tra i fatti rilevanti “ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore” su cui si può indagare seppure con tutti i limiti legati alla tutela della riservatezza.

La questione non è di poco conto, tanto che la casistica giurisprudenziale sull’art. 5 Stat. lav. è per lo più relativa alla ammissibilità delle visite mediche preassuntive atte a indagare la idoneità fisica del candidato lavoratore [55].

In un’ottica di coerenza del sistema, è possibile riproporre gli argomenti so­stenuti con riguardo all’art. 8 Stat. lav. e che hanno portato ad ammettere l’ap­plicazione della norma anche prima della costituzione del rapporto di lavoro, nel momento deputato alla scelta del candidato migliore per un certo posto di lavoro [56]. Una volta che gli accertamenti siano stati predisposti nel rispetto degli artt. 5 e 8 dello Statuto, si pone un problema di coordinamento anche con la legge sulla protezione dei dati personali, stante la loro natura di dati sensibili in quanto volti a rivelate lo stato di salute [57], per cui gli obblighi dettati dalla disciplina sulla privacy si aggiungono a quelli già previsti dallo Statuto [58].

La portata applicativa della norma è stata condizionata da due circostanze. Con riguardo alle visite sulla idoneità fisica del lavoratore preventive rispetto alla costituzione del rapporto, occorre rilevare che con l’avvenuta liberalizzazione del sistema di assunzione diretta operata dall’art. 9-bis del d.l. n. 510/1996, conv. in legge n. 608/1996, il datore di lavoro privato è libero di assumere il candidato che ritiene, scegliendo tra i diversi aspiranti al posto di lavoro quello che secondo lui è maggiormente idoneo. Pertanto, qualora il datore di lavoro non sia convinto della idoneità fisica dell’aspirante lavoratore potrà semplicemente non assumere quel candidato.

Invece, con riguardo alla verifica delle assenze per malattia o infortunio dei propri dipendenti, la legittimità di indagini da parte di investigatori privati, seppure non di carattere sanitario, comporta che la norma abbia di fatto una applicazione residua; infatti, il datore di lavoro, piuttosto che rischiare di incorrere nella violazione degli stringenti limiti posti dall’art. 5 Stat. lav., sarà tentato di procedere, quantomeno in via preventiva, a cercare di verificare la effettività dello stato di malattia del lavoratore attraverso mezzi che possa impiegare liberamente, che non richiedono la collaborazione del lavoratore, e che sono sufficienti a fargli acquisire le informazioni che interessano ai fini disciplinari. Ciò che il datore di lavoro aspira a sapere è se il lavoratore sia assente dal lavoro perché effettivamente malato oppure no, in quanto egli si trova a dover sostenere dei costi, sia di retribuzione ex art. 2110, sia di sostituzione con altro lavoratore, soprattutto se il periodo di assenza si protrae per un certo periodo.

Pertanto, è probabile che la norma continui ad avere una importante rilevanza applicativa nel caso in cui egli non riesca a soddisfare la sua conoscenza per altre vie se non mediante un accertamento di tipo medico. In tal caso il datore di lavoro non potrà prescindere dal rispetto rigoroso dei limiti posti dal­l’art. 5 Stat. lav. al suo potere di indagine.

Anche la giurisprudenza di legittimità sull’art. 6 dello Statuto è piuttosto scarna già a partire dagli anni successivi l’entrata in vigore dello Statuto, nonostante la norma abbia posto non pochi problemi interpretativi [59].

Quanto all’oggetto della perquisizione, l’orientamento più recente e divenuto prevalente ha privilegiato una interpretazione estensiva della norma atta a ricomprendere nell’oggetto della perquisizione anche gli oggetti che il lavoratore abbia con sé, quali per esempio borse o borsette [60].

Questione cruciale è stata la individuazione dei limiti alle modalità di svolgimento del controllo sulla persona in un’ottica di tutela della riservatezza e della dignità del lavoratore. La necessità di tutelare il riserbo e l’intimità del dipendente ha portato la giurisprudenza a ritenere non ammissibili quelle visite personali che si risolvono in una ingerenza nell’intimità anche fisica del soggetto, ovvero quando le forme di perquisizione sono tali da poter creare nel lavoratore un particolare senso di disagio e di degradazione psicologica, tanto che in tal caso il lavoratore che rifiuti la visita personale non può essere destinatario di sanzioni sul piano disciplinare [61]. Controversa è stata la questione relativa a se la visita personale potesse consistere in una vera e propria perquisizione corporale, mediante la palpitazione del soggetto, o se dovesse esaurirsi in un mero invito a esibire gli oggetti portati addosso o se ci si potesse spingere fino a chiedere al lavoratore di spogliarsi degli indumenti indossati [62]. Al riguardo, stante la necessità di salvaguardare la dignità dei lavoratori, si è ritenuta ammissibile la palpazione del soggetto solo qualora sia indispensabile per la tutela del patrimonio e il sacrificio della riservatezza del lavoratore sia proporzionale al valore dei beni aziendali da proteggere, diversamente dovrebbe essere solo consentito invitare il lavoratore a esibire le cose portate addosso [63].

Qualche problema potrebbe derivare dalla circostanza che la norma (a differenza dei precedenti articoli) nulla dice a proposito di chi siano i soggetti che possono eseguire le perquisizioni personali sui lavoratori, l’individuazione dei quali dovrà pertanto avvenire in sede di accordo sindacale o pubblico. Si tratta di un passaggio delicato, alla stregua della individuazione dei casi e delle modalità del controllo, in quanto l’alto grado di invasività della sfera personale comporta che non ogni persona che si trovi alle dipendenze del datore di lavoro possa essere idonea a eseguire la perquisizione, e il fatto stesso di essere perquisiti da colleghi e colleghe non solo sulla persona ma anche sugli effetti personali potrebbe certo ingenerare un qualche imbarazzo se non eseguita con una certa sensibilità e discrezione.

A tal proposito, posto che il potere di controllo di cui all’art. 6 si inserisce tra quelli deputati alla tutela del patrimonio, occorre chiedersi se la perquisizione personale possa essere effettuata dal personale di vigilanza di cui all’art. 3 o ancora dalle guardie giurate di cui all’art. 2. Il fatto che le visite personali possano essere eseguite solo all’uscita dei luoghi di lavoro o dei singoli reparti comporta che queste non possano avvenire né nel luogo di lavoro né durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, formulazione questa che richiama quella contenuta nell’art. 2 Stat. lav. che vieta la presenza delle guardie giurate all’interno dei luoghi di lavoro durante lo svolgimento dell’attività lavorativa se non in casi eccezionali.

Nemmeno con riguardo all’eventualità che le perquisizioni siano eseguite da parte del personale di vigilanza si rinviene alcuna preclusione da parte della norma; anzi, qualora esso operi nell’azienda solo con funzioni di tutela del patrimonio non trovano applicazione i limiti e le garanzie previste dall’art. 3 Stat. lav., il quale richiede solo la pubblicità dei soggetti incaricati del controllo sulla attività lavorativa [64].

Qualche perplessità desta la ammissibilità di siffatto controllo operato per il tramite di dipendenti di una agenzia investigativa privata. Al riguardo, il controllo da parte di investigatori privati, seppure in generale diretto a scoprire o prevenire furti e sottrazioni di denaro in varie forme, senza un vero e proprio controllo sullo svolgimento dell’attività lavorativa ma al solo fine della tutela del patrimonio, si riferisce ad una tipologia di controllo per sua natura occulto, atto a cogliere il lavoratore in flagranza, e è ammesso dalla giurisprudenza pur­ché si svolga secondo precise modalità tra cui l’avere le caratteristiche del comportamento di un normale cliente, caratteristiche che sembra non poter avere una attività quale quella della perquisizione personale.

La genericità della lettera della norma lascia notevole spazio alla contrattazione tra il datore di lavoro e i rappresentanti sindacali per l’individuazione in concreto dei limiti del potere nell’organizzazione. Ferma la necessità che ricorrano tutti gli i requisiti oggettivi richiesti dalla norma, elementi quali l’indispen­sabilità, la necessità, l’eccessiva invasività o la giustificazione di modalità maggiormente penetranti del controllo devono essere valutati in base alla realtà organizzativa, all’attività svolta, alle materie trattate, e alla sussistenza della possibilità di pervenire agli stessi risultati con altre forme di controllo. L’art. 6 devolve il compito di stabilire casi e modalità delle visite personali ai soggetti collettivi o pubblici, più vicini alla realtà aziendale.

Dalla casistica delle decisioni giurisprudenziali, seppure vi siano importanti questioni interpretative rimaste controverse, emerge che l’applicazione della norma nelle aule giudiziarie diventa sempre più rara già a partire dalla fine degli anni ’90. In effetti, l’avvento delle più moderne tecnologie, come la possibilità di installare metal detector o apparecchiature di screening che permettano di visualizzare il contenuto di borse e borsette, può aver contribuito a una diminuzione dell’utilizzo delle visite personali quale forma di controllo del datore di lavoro sui propri dipendenti.

Così, ancora una volta le norme dello Statuto dimostrano di essere strettamente connesse alle situazioni percepite come fortemente ingiuste dai lavoratori nelle fabbriche negli anni della sua emanazione; infatti, tanto la pratica dei controlli per mano dei medici di fabbrica, tanto le perquisizioni personali dei lavoratori erano massicce e invasive e, soprattutto, spesso venivano perpetrate con modalità non sempre rispettose della dignità e con evidenti fini discriminatori [65].

In generale, le forme di controllo disciplinate dallo Statuto dei lavoratori sono legate a una particolare concezione dell’impresa e del modo di organizzare l’attività produttiva che riflette le esigenze e le problematiche proprie del periodo storico e culturale in cui la legge fu emanata.

In effetti, ripercorrendo la casistica giurisprudenziale sull’applicazione delle norme dello Statuto si può rilevare un trend negativo al decorrere del tempo, nel senso che mano a mano che ci si allontana dal periodo successivo la sua entrata in vigore, vi è una continua diminuzione dei casi giurisprudenziali in cui le disposizione trovano applicazione. Da ciò possono derivare due opposte considerazioni: o si può ipotizzare il superamento di certe forme di controllo o, al contrario, si può sostenere che le prescrizioni siano attuali ma oramai consolidate.

In realtà entrambe le affermazioni rischiano di essere vere a seconda del tipo di attività, della organizzazione, della dimensione e di altri fattori attinenti al tipologia dell’impresa. Così, vi sono attività produttive in cui la modernizzazione ha portato alla adozione di forme di controllo nuove da parte del datore di lavoro, dall’impiego dei più moderni strumenti tecnologici e informatici alle agenzie investigative private, determinando la nascita di nuove esigenze di tutela dei lavoratori; oppure, vi sono realtà aziendali, più tradizionali o di piccole dimensioni, in cui le forme di controllo previste dallo Statuto sono ben adattabili, senza tuttavia dare adito a problemi applicativi, in quanto sia l’evo­luzione che i cambiamenti socio-culturali hanno conferito stabilità e pacifico riconoscimento ai valori fondamentali della persona orientati alla tutela della libertà, dignità e riservatezza del lavoratore.

 

NOTE

[1] G. DE SIMONE, Poteri del datore di lavoro e obblighi del lavoratore, in F. CARINCI (a cura di), Il lavoro subordinato, tomo III, Il rapporto individuale di lavoro: estinzione e garanzie dei diritti, in M. BESSONE(diretto da), Trattato di diritto privato, XXIV, Giappichelli, Torino, 2007, 249 ss.; Sul potere di controllo quale componente fisiologica del rapporto di lavoro subordinato, v. G. GHEZZI, U. ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro, 2a ed., Zanichelli, Bologna, 1987; M. GRANDI, voce Rapporto di lavoro, in Enc. dir., XXXVIII, 1987; A. PERULLI, Il potere direttivo dell’im­prenditore, Giuffrè, Milano, 1992; M. PERSIANI, Considerazioni sulla nozione e sulla funzione del contratto di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 2010, 455 ss.; V. FERRANTE, Controllo sui lavoratori, difesa della loro dignità e potere disciplinare, in Riv. it. dir. lav., 2011, 73 ss.

[2] A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, Giappichelli, Torino, 1995, 4; A. CATAUDELLA, voce Dignità e riservatezza del lavoratore (tutela della), in Enc. giur., XI, 1989; T. TREU, voce Statuto dei lavoratori, in Enc. dir., XLIII, 1990.

[3] Sulla tutela dei diritti della persona nel diritto del lavoro v., M. MAGNANI, Diritti della persona e contratto di lavoro. L’esperienza italiana, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1994, 43; M. NAPOLI, Lo Statuto dei lavoratori ha quarant’anni, ben portati, in Lav. dir., 2010, 123 ss.; L. ZOPPOLI, Le rughe dello Statuto e le maschere del futuro, in Lav. dir., 2010, 59 ss.; A. BELLAVISTA, Dignità e riservatezza del lavoratore, in N. IRTI (promosso da), Dizionario di diritto privato, in P. LAMBERTUCCI (a cura di), Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2010; P. ICHINO, La tutela della riservatezza del prestatore di lavoro nello statuto dei lavoratori (artt. 2, 3, 4, 5, 6 e 8), in Riv. giur. lav. prev. soc., 1978, I, 819 ss.

[4] P. LAMBERTUCCI, I controlli del datore di lavoro e la tutela della privacy, in G. SANTORO PASSARELLI (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, Utet, Torino, 2014; M. GRANDI, G. PERA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, 3a ed., Cedam, Milano, 2005, 655 ss.; G. GIUGNI, sub Art. 1, in G. GIUGNI (diretto da), Lo statuto dei lavoratori. Commentario, Giuffrè, Milano, 1979, 3; R. SANTAGATA,Libertà di opinione nei luoghi di lavoro, in Dir. lav. merc., 2010, 559 ss.; E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, Giappichelli, Torino, 1996, 80 ss.; A. GARILLI, Tutela della persona e della sfera privata nel rapporto di lavoro, in Riv. crit. dir. priv., 1992, 322 ss.; A. BELLAVISTA, Diritti della persona e contratto di lavoro nella elaborazione giurisprudenziale, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1994, 232 ss.

[5] La libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, intesa anche quale libera manifestazione del pensiero, deve svolgersi nel rispetto del normale andamento dell’attività lavorativa e deve essere compatibile con l’obbligo del lavoratore di adempiere la propria prestazione e di non intralciare quella dei colleghi, v. Cass. 22 febbraio 1983, n. 1325; Pret. Cassino, 11 dicembre 1995; Trib. Reggio Emilia, 13 dicembre 1979; G. GIUGNI,op. cit., 3 ss.

[6] Pret. Roma, 30 maggio 1980.

[7] Pret. La Spezia, 29 marzo 1982.

[8] Cass. 19 agosto 1986, n. 5089; Pret. Reggio Emilia, 12 giugno 1979; Pret. Milano, 19 marzo 1984; Pret. Milano, 21 agosto 1984; Trib. Milano, 15 aprile 1986.

[9] Cass. 22 ottobre 1998, n. 10511; Cass. 22 agosto 1997, n. 7884; Cass. 25 febbraio 1986, n. 1173; Pret. Gallarate, 14 novembre 1986; Pret. Torino, 18 luglio 1991; Pret. Nuoro, 21 novem­bre 1996; Trib. Cagliari, 8 agosto 2002; App. Cagliari, 3 agosto 2004. In particolare, al fine di considerare o meno legittimo l’esercizio del diritto di critica occorre considerare cinque fattori: a) se vi sia una lesione della reputazione dell’impresa e dei suoi dirigenti, b) se le accuse sia state espresse per la realizzazione di interessi giuridicamente rilevanti, c) se le modalità e l’ambito di diffusione delle notizie siano adeguati alla protezione di tali interessi, d) la veridicità dei fatti denunziati, e) se la condotta del lavoratore, valutata con riferimento al requisito della fiducia, sia compatibile o meno con la prosecuzione del rapporto di lavoro.

[10] G. PERA, Libertà e dignità dei lavoratori, in Nov. Dig. it., Appendice, IV, Utet, Torino, 1989; U. ROMAGNOLI, sub Art. 1, in Statuto dei diritti dei lavoratori: artt. 1-13, in A. SCIALOJA, G. BRANCA (a cura di), Commentario al codice civile, V, Del Lavoro, 2a ed., Zanichelli-Foro italiano, Bologna-Roma, 1979; L. DE FELICE, La tutela della persona del lavoratore (La giurisprudenza sugli artt. 1, 2, 3, 5, 6, 8 dello Statuto), in Quad. dir. lav. rel. ind., 1989, 111.

[11] L. GAETA, La dignità del lavoratore e i “turbamenti” dell’innovazione, in Lav. dir., 1990, 205 ss.; L. GAETA, Che cosa è oggi lo Statuto dei lavoratori, in Lav. dir., 2010, 53 ss.

[12] M.T. SALIMBENI, sub Art. 8, in R. DE LUCA TAMAJO, O. MAZZOTTA, Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, Padova, 2013, 744 ss.; S. SCIARRA, sub Art. 8, in G. GIUGNI, opcit., 88; A. CATAUDELLA, opcit.; G. AMOROSO, V. DI CERBO, A. MARESCA, sub Art. 8, in Il diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2001, 243 ss.; M. DE CRISTOFARO, Il divieto di indagini su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore, in Riv. it. dir. lav., 1983, 31 ss.; A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, cit., 80 ss. La giurisprudenza ha attribuito rilievo a condotte extra-lavorative se illecite, così come ha ammesso l’indagine sulla presenza di condanne o di procedimenti penali a carico del lavoratore, v. Cass., sez. un., 23 luglio 1981, n. 4736; Cass. 23 maggio 1992, n. 6180; Cass. 29 luglio 1992, n. 9076; Cass. 19 maggio 1990, n. 4552; Cass. 3 aprile 1990, n. 2683; Cass. 24 febbraio 1986, n. 1141; Cass. 24 marzo 1987, n. 2867.

[13] Cass. 15 aprile 1981, n. 2271, in cui si afferma che la norma non consente discriminazioni nemmeno in sede di assunzione del lavoratore in base a criteri estranei alle attitudini professionali; nello stesso senso, sulla irrilevanza degli eventi della vita privata del lavoratore che non influiscono sulla valutazione della sua attitudine professionale, v. Cass. 12 giugno 1982, n. 3592, in Giur. it., 1983, I, 50, con nota di P. LAMBERTUCCI, Bando di concorso dell’enel, requisito della “buona condotta” e costituzione automatica del rapporto ex art. 2932 c.c.; Cass. 2 marzo 1988, n. 2225, in Riv. giur. lav., 1989, 322, con nota di L. FIORI, Divieto di indagine sulle opinioni: una particolare applicazione ad un caso di assunzioni obbligatorie; sulla legittimità di indagini attitudinali purché siano strettamente funzionali alla valutazione dell’attitudine alle mansioni, v. Cass. 16 febbraio 2011, n. 3821, in Lav. giur., 2011, 903, con nota di P. DUI, Test attitudinali e violazione presunta della privacy e del divieto di indagini sulle opinioni; Pret. Pisa, 30 marzo 1999, in Riv. it. dir. lav., 2000, 80, con nota di P. ALBI, Indagini motivazionali e tecniche di tutela della libertà e dignità dei lavoratori.

[14] Cass. 23 marzo 1991, n. 3120; Cass. 8 marzo 1991, n. 2430; Pret. Milano, 16 gennaio 1996, in Riv. it. dir. lav., 1997, 75, con nota di A. BELLAVISTA, A proposito di un caso di indagini illecite sulla sfera privata dei lavoratori; Cass. 13 dicembre 1985, n. 6317, in Giur. it., 1987, I, 316 con nota di M. BROLLO, Il rilievo del comportamento «privato» del lavoratore nel «pubblico» del rapporto di lavoro. Il divieto assoluto di indagine subisce una deroga con riguardo alle organizzazioni di tendenza, v. P. OLIVELLI, Le organizzazioni di tendenza e la Cassazione, in Arg. dir. lav., 1995, 237; A. BELLAVISTA, Organizzazioni di tendenza e vita privata dei lavoratori, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1995, 615.

[15] Cass. 23 luglio 1981, n. 4736, in Giust. civ., 1981, I, 2193, con nota di G. PERA, Sull’in­compatibilità tra parenti, amministratori e dipendenti, delle casse di risparmio; L. DE FELICE, opcit., 121; A. BELLAVISTA, Diritti della persona e contratto di lavoro nella elaborazione giurisprudenziale, cit., 222.

[16] Cass. 28 marzo 1984, n. 2052; Cass. 19 giugno 1984, n. 3640; Cass. 16 novembre 1985, n. 5650; Cass., sez. un., 29 novembre 1986, n. 7081; Cass. 19 gennaio 2002, n. 570.

[17] Cass. 26 novembre 2014, n. 25162; Pret. Milano, 16 gennaio 1996, cit., in cui si afferma la illegittimità del comportamento del datore di lavoro che invii il lavoratore a frequentare un corso ove il medesimo venga sottoposto a indagini volte ad accertare fatti non rilevanti al fine della valutazione dell’attitudine professionale.

[18] A. CAUTADELLA, Commento all’art. 8, in U. PROSPERETTI (diretto da), Commentario dello Statuto del lavoratori, Giuffrè, Milano, 1975, 236 ss.

[19] R. ROMEI, Diritto alla riservatezza del lavoratore ed innovazione tecnologica, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1994, 67 ss.

[20] G. GHEZZI, Computer e controllo dei lavoratori, in Dir. rel. ind., 1986, 354; F. LISO, Computer e controllo dei lavoratori, in Dir. rel. ind., 1986, 386.

[21] A. TROJSI, Dalla tutela della sfera privata alla protezione dei dati personali del lavoratore, in Dir. lav. merc., 2010, 645; E. GRAGNOLI, Dalla tutela della libertà alla tutela della dignità e della riservatezza dei lavoratori, in Arg. dir. lav., 2007, 1211 ss.; E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, cit., 107; F. IAQUINTA, A. INGRAO, La privacy e i dati sensibili del lavoratore legati all’utilizzo di social networks. Quando prevenire è meglio che curare, in Dir. rel. ind., 2014, 1027 ss.

[22] La tutela della sfera privata del lavoratore non è garantita solo durante lo svolgimento del rapporto di lavoro, ma anche nel momento di instaurazione dello stesso, e debbono ritenersi illegittime sia le indagini svolte in modo diretto dal datore di lavoro o da suoi collaboratori che quelle poste in essere da terzi quali per esempio le agenzie private di investigazione, v. A. TROJSI, opcit., 646.

[23] G. LEO, Le disposizioni penali dello Statuto dei lavoratori, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1981, 727.

[24] A. TROJSI, opcit., 653.

[25] Le tecnologie informatiche potranno essere impiegate solo per quelle indagini relative alla idoneità professionale del lavoratore, in modo da acquisire dati che siano rilevanti per la valutazione dell’attività lavorativa, anche attinenti alla vita privata e all’ambito extra lavorativo, purché funzionali e necessarie a valutare la capacità del soggetto di rendere la prestazione lavo­rativa, v. E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, cit., 134.

[26] L’art. 113 del codice sulla privacy fa salvo quanto previsto dall’art. 8 dello Statuto dei lavoratori. L’art. 8 dello Statuto è stata la prima norma dell’ordinamento italiano ad occuparsi di ciò che oggi è chiamato privacy e che altro non è se non la riservatezza a cui tendeva il legislatore storico; successivamente la materia della privacy è stata disciplinata sul piano generale al di fuori della normativa lavoristica, seppure richiamando quest’ultima, dalla legge n. 675/1996 e, in seguito, dal d.lgs. n. 196/2003, v. T. TREU, Lo Statuto dei lavoratori vent’anni dopo, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1989, 27 ss.; M. MAGNANI, opcit., 50; S. RODOTÀ, Privacy e costruzione della sfera privata. Ipotesi e prospettive, in Pol. dir., 1991, 525 ss.; P. LAMBERTUCCI, I controlli del datore di lavoro e la tutela della privacy, cit., 821 ss.; A. BELLAVISTA, I poteri dell’impren­ditore e la privacy del lavoratore, in Dir. lav., 2003, 169; P. LAMBERTUCCI, I dati personali nel rapporto di lavoro, in V. CUFFARO, V. RICCIUTO (a cura di), Il trattamento dei dati personali. Profili applicativi, Giappichelli, Torino, 1999, 115.

[27] Trattasi di informazioni, quali l’orientamento politico, l’iscrizione a un sindacato o la fede religiosa, che di solito non sono segrete, ma pubbliche; A. TORRICE, Il diritto alla riservatezza del lavoratore e la disciplina contenuta nel codice sulla protezione dei dati personali, in Riv. crit. dir. lav., 2005, 349 ss.; provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali, 5 ottobre 2006, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 374, con nota di C. FALERI, Sulla tutela della riservatezza del lavoratore nelle indagini preliminari al procedimento disciplinare: un intervento del garante per la protezione dei dati personali.

[28] L’art. 4, d.lgs. n. 196/2003, comma 1, definisce cosa debba intendersi per “trattamento”, ricomprendendo nel significato del termine «qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l’ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la conservazione, la consultazione, l’elaborazione, la modificazione, la selezio­ne, l’estrazione, il raffronto, l’utilizzo, l’interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati»; E. GRAGNOLI, Dalla tutela della libertà alla tutela della dignità e della riservatezza dei lavoratori, cit., 1225; P. LAMBERTUCCI, Trattamento dei dati personali e disciplina del rapporto di lavoro: i primi interventi del Garante e della giurisprudenza, in Arg. dir. lav., 1998, 101; P. LAMBERTUCCI, Svolgimento del rapporto di lavoro e tutela dei dati personali, in Quad. dir. lav. rel. ind., 2000, 62; E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, cit., 125; A. VALLEBONA, Istituzioni di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2012, 300.

[29] La vigenza del “vecchio” testo dell’art. 4 Stat. lav., che assoggettava a limitazioni l’uso di computer e strumenti informatici, aveva portato il legislatore del 2003 a ritenere forse troppo eccessiva una sanzione penale, posto che qualsiasi organizzazione lavorativa non può più fare a meno della tecnologia e dell’informatica. Al contrario, oggi, siccome per l’utilizzo di tali strumenti i limiti sono venuti meno, il legislatore ha inteso bilanciare gli interessi ripristinando la sanzione penale, la quale tuttavia rischia di essere solo formale con riguardo al comma 2 dell’art. 4 dello Statuto, dato che il comma 3 della norma consente che le informazioni così raccolte possano essere usate a tutti i fini del rapporto di lavoro se il lavoratore sia stato preventivamente informato delle modalità di utilizzo degli strumenti e del controllo.

[30] L’intensità della sorveglianza deve essere commisurata alla gravità del fatto da accertare o all’importanza e al valore dei beni da proteggere, mentre è esclusa la legittimità di controlli arbitrari, non imparziali e iniqui, che siano indiscriminati ed estesi anche a fatti non pertinenti e tali regole devono essere rispettate sia dal personale di vigilanza che dai superiori gerarchici e dallo stesso datore di lavoro v. A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, cit., 41.

[31] G. GHEZZI, Polizia privata nelle imprese e tutela dei diritti costituzionali dei lavoratori. Rilettura di un saggio del 1956 con emozioni attuali, in Lav. giur., 2004, 624 ss.; P. ICHINO, opcit., 819 ss.; P. SARACINI, Guardie giurate e dignità della persona: una feconda esperienza giurisprudenziale, in Dir. lav. merc., 2010, 571 ss.; G.C. PERONE, Lo statuto dei lavoratori, 3a ed., Utet, Torino, 2010, 25 ss.; G. PERA, subArt. 2, in C. ASSANTI, G. PERA (a cura di), Commento allo Statuto dei diritti dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972; La norma non esclude la legittimità di intervento delle guardie giurate nei confronti dei lavoratori, purché in ragione della tutela del patrimonio aziendale, in quanto non opera una distinzione a seconda che l’aggressione al patrimonio provenga da terzi o dagli stessi lavoratori dell’azienda, v. A. CATAUDELLA, opcit.; Cass. 17 gennaio 1990, n. 905; Cass. 5 luglio 1991, n. 7455, in Riv. it. dir. lav., 1992, II, 659, con nota di V.A. POSO, Le indagini delle guardie giurate e i limiti all’acquisizione delle prove.

[32] Cass. 18 febbraio 1997, n. 1455 in Dir. lav., 1997, 439 ss. con nota di M. MARAZZA, Ancora sui controlli del datore di lavoro ex artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970, in cui si afferma che il datore di lavoro può all’interno dell’azienda adibire a mansioni di vigilanza e tutela del patrimonio aziendale anche propri dipendenti e a mezzo degli stessi può altresì controllare anche in modo occulto l’attività lavorativa di altro dipendente al solo fine di accertare il comportamento fraudolento di quest’ultimo che esuli dalla prestazione lavorativa e che incida sul­l’integrità del patrimonio aziendale.

[33] M. GRANDI, opcit.; A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, cit., 23 ss.; A. PERULLI, op. cit.; T. TREU, voce Statuto dei lavoratori, cit.; E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, cit., 151; U. ROMAGNOLI, sub Art. 3, in G. GHEZZI, G.F. MANCINI, L. MONTUSCHI, U. ROMAGNOLI (a cura di), Statuto dei diritti dei lavoratori: art. 1-41, Zanichelli-Foro Italiano, Bologna-Roma, 1972, 14.

[34] L’orientamento giurisprudenziale più restrittivo e prevalente ribadisce il divieto per le guar­die giurate di accedere ai locali in cui si svolge l’attività di lavoro e ne chiarisce la natura strumentale rispetto al divieto principale di controllare l’attività lavorativa, rafforzato dalla afferma­zione della inutilizzabilità sul piano disciplinare degli accertamenti eventualmente compiuti dalle guardie in violazione dell’art. 2, v. Pret. Milano, 20 marzo 1981; Pret. Torino, 10 luglio 1972, in Riv. giur. lav., 1973, 498; Pret. Cassino, 9 dicembre 1982 in Giust. civ., 1983, I, 1345; Cass. 27 novembre 1992, n. 12675 in Riv. giur. lav., 1993, 324, con nota di F. PETRACCI, Sui limiti di utilizzabilità a fini disciplinari degli accertamenti delle guardie giurate, in cui si reputano utilizzabili a fini disciplinari come “fatti storici” le situazioni oggettive che coinvolgono un lavoratore accertate dalle guardie giurate al di fuori del luogo di svolgimento della prestazione.

[35] P. SARACINI, opcit., 573; Cass. 5 luglio 1991, n. 7455, cit.; Cass. 7 giugno 2003, n. 9167, in Mass. Giur. lav., 2004, 13.

[36] Cass. 7 febbraio 1983, n. 1031, in Riv. it. dir. lav., 1983, 633 con nota di G. GALLI, Guardie giurate e personale di vigilanza ex artt. 2-3 l. 20 maggio 1970, n. 300; Cass. 24 marzo 19683, n. 2042 in Giur. it., 1984, I, 33; Cass. 18 febbraio 1997, n. 1455, in Giust. civ., 1997, I, 1263, con nota di G. PERA, Il furto del lavoratore denunciato da colleghi; Cass. 14 luglio 2001, n. 9576; Cass. 10 maggio 2005, n. 9722.

[37] Pret. Torino, 10 luglio 1972, cit.; Pret. Milano, 6 novembre 1979, in Orient. giur. lav., 1979, 924; Pret. Milano, 20 marzo 1981, cit.; Cass., sez. pen., 29 marzo 1983, n. 5509.

[38] M. NAPOLI, opcit., 125 ss.; Cass. 22 giugno 1999, n. 6390, in Lav. giur., 2000, 137, con nota di A.M. D’ANGELO, Vigilanza, direzione e gerarchia nell’impresa, in cui si afferma che «Gli artt. 2, 3 e 4 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), lungi dall’eli­minare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile (artt. 2086 e 2104, comma 2), ne hanno disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza dell’impresa solo degli aspetti “polizieschi”».

[39] Cass. 9 luglio 2008, n. 18821; Cass. 17 ottobre 1998, n. 10313, in Lav. prev. oggi, 1999, 144; Cass. 24 marzo 1983, n. 2042, in Foro it., 1985, I, 439.

[40] Cass. 3 luglio 2001, n. 8998; Cass. 2 marzo 2002, n. 3039, in Riv. it. dir. lav., 2002, 873 con nota di S. PASSERINI, Ancora sul controllo in incognito della prestazione lavorativa; Cass. 10 luglio 2009, n. 16196.

[41] Il problema è stato affrontato fin dagli anni ’80 passando da un orientamento permissivo ad uno tollerante solo nel caso in cui il controllo fosse finalizzato ad accertare la realizzazione da parte dei dipendenti di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa pur se commessi nel corso della stessa (Cass. 18 settembre 1995, n. 9836, in Dir. lav., 1997, con nota di G. GENTILE, I controlli occulti sui lavoratori, cit.; G. LEO, opcit., 679), fino ad arrivare al­l’orientamento più recente e maggioritario secondo cui la fattispecie non rientrerebbe nel­l’ambito di applicazione dell’art. 3, e, pertanto, il controllo anche se occulto sarebbe ammesso in quanto diretto a tutelare il patrimonio aziendale e non lo svolgimento dell’attività lavorativa (tra le altre v. Cass. 23 giugno 2011, n. 13789; Cass. 9 giugno 2011, n. 12568; Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590).

[42] P. MONDA, Il personale di vigilanza: divieto di controlli occulti e possibili controlli difensivi, in Dir. lav. merc., 2010, 579 ss.; G. GENTILE, Appunti sui controlli del datore di lavoro ex artt. 2 e 3 St. lav., in Dir. lav., 1996, 107 ss.

[43] Cass. 24 marzo 1983, n. 2042, in Dir. lav., 1984, II, 496 con nota di A. FONTANA, Tutela del patrimonio aziendale e vigilanza occulta; Cass. 3 maggio 1984, n. 2697; Cass. 10 maggio 1985, n. 2933; Cass. 9 giugno 1989, n. 2813; Cass. 17 ottobre 1998, n. 10313; Cass. 5 maggio 2000, n. 5629, in Lav. prev. oggi, 2000, 1684, con nota di M. MEUCCI, Sorveglianza dei lavora­tori, con mansioni esterne, a mezzo di investigatori privati; ID., in Dir. rel. ind., 2002, 27, con nota di C. CARNIELLI, Statuto dei lavoratori e controlli sui lavoratori: alcuni casi pratici e qualche riflessione; Cass. 3 novembre 2000, n. 14383; Cass. 14 luglio 2001, n. 9576; Cass. 12 giugno 2002, n. 8388; Cass. 7 giugno 2003, n. 9167; Cass. 9 luglio 2008, n. 18821; Cass. 10 luglio 2009, n. 16196; Cass. 18 novembre 2010, n. 23303, in Lav. prev. oggi, 2011, 349, con nota di M. DIFRANCESCO, Legittimità del controllo dell’attività lavorativa mediante investigatori privati; ID., in Lav. giur., 2011, 684, con nota di F. BARRACCA, I dipendenti possono essere spiati a loro insaputa; Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590; Cass. 9 giugno 2011, n. 12568; Cass. 23 giugno 2011, n. 13789; Cass. 4 dicembre 2014, n. 25674; Cass. 12 ottobre 2015, n. 20440.

[44] P. MONDA, opcit., 584.

[45] Cass. 25 gennaio 1992, n. 829; Cass. 23 agosto 1996, n. 776; Cass. 3 novembre 1997, n. 10761; Cass. 9 luglio 2008, n. 18821; Pret. Monza, 24 maggio 1995, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 541, con nota di A. BELLAVISTA, Investigatori privati e controlli occulti sui lavoratori.

[46] Cass. 17 luglio 2007, n. 15892.

[47] Cass. 22 novembre 2012, n. 20613, in Arg. dir. lav., 2013, 196, con nota di C.V. VACCHIANO, Il controllo occulto svolto dal datore di lavoro per il tramite di agenzia di investigazione è legittimo se finalizzato alla tutela del patrimonio aziendale o all’accertamento di illeciti da parte del lavoratore.

[48] C. CARNIELLI, opcit., 36.

[49] C.V. VACCHIANO, op. cit.

[50] P. ICHINO, opcit., 826.

[51] C. LAZZARI, Visite preassuntive e privacy, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2000, 127.

[52] Il dipendente può svolgere altre attività durante l’assenza per malattia ma evitando di peggiorare l’andamento della stessa, compromettere la guarigione e pregiudicare la possibilità dei futuri adempimenti lavorativi, v. Cass. 9 dicembre 1977, n. 5338; Cass. 16 giugno 1976, n. 2244; Cass. 14 aprile 1987, n. 3074; Cass. 12 aprile 1985, n. 2434.

[53] La questione è stata oggetto di ampio dibattito in giurisprudenza che ha portato ad ammettere che l’insussistenza dello stato di malattia o la sua inidoneità a determinare lo stato di in­capacità lavorativa rappresentato dal lavoratore possa essere provata dal datore di lavoro mediante il pedinamento eseguito da una apposita agenzia investigativa, v. Cass. 26 novembre 2014, n. 25162; Cass. 3 maggio 2001, n. 6236 in Riv. giur. lav., 2002, II, 55 con nota di L. VALENTE, Accertamento della malattia e tutela della riservatezza: sui limiti del potere datoriale di utilizzare investigatori privati per contrastare il fenomeno dell’assenteismo abusivo; Cass. 14 aprile 1987, n. 3704 in Giust. civ., 1987, I, 2576, con nota di M. MARIANI, Accertamenti non sanitari sulla malattia del lavoratore. Sull’accertamento svolto dal personale di vigilanza v. Cass. 26 febbraio 1994, n. 1974, in Dir. lav., 1994, 152, con nota di C. DE MARCHIS, Presupposti dell’o­nere di pubblicità del codice disciplinare; Pret. Milano, 6 novembre 1980, in Lav. 80, 1981, 229.

[54] Cass. 28 agosto 2003, n. 12637.

[55] Secondo un primo orientamento formatosi negli anni ’80 la norma non trovava applicazione nei confronti dei soggetti non ancora assunti sulla base del rilievo che il comma 3 era solo integrativo e specificativo del primo il quale conteneva un riferimento espresso ai soli lavoratori dipendenti, v. Cass. 14 aprile 1976, n. 706; Cass. 28 novembre 1974, n. 288; al contrario, per un secondo orientamento occorreva riconoscere carattere autonomo al comma 3 rispetto al primo perché il concetto generico di lavoratore doveva abbracciare anche gli aspiranti tali, v. Cass. 16 marzo 1988, n. 2461; Cass. 15 luglio 1987, n. 6224; Cass. 19 marzo 1986, n. 1917; Cass. 5 novembre 1985, n. 5387; Cass. 4 maggio 1984, n. 2729. La portata del dato normativo fu chiarita dalla sentenza Cass., sez. pen., 27 gennaio 1999 con la quale si affermò che anche le visite mediche preassuntive dovevano essere svolte da enti pubblici e istituti specializzati di diritto pubblico, sulla base del fatto che la necessità di protezione della libertà e della dignità del lavoratore contro gli abusi del datore di lavoro sussisteva tanto prima quanto dopo la costituzione del rapporto di lavoro, v. Cass., sez. pen., 27 gennaio 1999, in Lav. giur., 1999, 353 con nota di V. BAVARO, Anche la Cassazione penale dichiara illegittime le visite mediche di preassunzione; Cass. 15 luglio 1987, n. 6224; Cass. 30 ottobre 1986, n. 6404, in Orient. giur. lav., 1987, 11; Pret. pen. Pavia, 6 dicembre 1979, in Riv. giur. lav., 1980, 438, con nota di M. ZANOTTI, Ancora in tema di controlli sanitari sul lavoratore.

[56] C. LAZZARI, opcit., 127.

[57] S. SCIARRA, opcit., 98.

[58] C. LAZZARI, op. cit., 140.

[59] A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, cit., 162; A. BELLAVISTA, Diritti della persona e contratto di lavoro nella elaborazione giurisprudenziale, cit., 217 ss.; R. DE LUCA TAMAJO, I controlli sui lavoratori, in G. ZILIO GRANDI (a cura di), I poteri del datore di lavoro nell’im­presa, Atti del Convegno di Studi, Venezia, 12 aprile 2002, Cedam, Padova, 2002, 27 ss.; G. PERA, sub Art. 6, in C. ASSANTI, G. PERA, opcit., 67 ss.; B. VENEZIANI, sub Art. 6, in G. GIUGNI, opcit., 57 ss.; E. GRAGNOLI, L’informazione nel rapporto di lavoro, cit., 157.

[60] Cass. 29 ottobre 1999, n. 12197; Pret. Milano, 21 agosto 1980; Trib. Milano, 12 aprile 1979; in realtà, anche se in questi casi non si applicasse l’art. 6, tali controlli non potrebbero avvenire senza alcun limite, ma il potere dovrà comunque essere esercitato in modo da non ledere la dignità e la riservatezza del lavoratore, v. A. CATAUDELLA, opcit., 7.

[61] Cass. 19 novembre 1984, n. 5902, cit.; qualora la visita avvenga con modi sconvenienti e offensivi il rifiuto del dipendente di sottoporvisi è giustificato, v. Trib. Milano, 12 aprile 1979, in Orient. giur. lav., 1979, 927.

[62] Nel senso che la visita personale possa consistere solo in una richiesta di esibizione, v. Pret. Forlì, 10 dicembre 1979, in Foro it., 1980, I, 849; Pret. Milano, 29 dicembre 1976, in Foro it., 1977, I, 1822.

[63] A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, cit., 173; L. DE FELICE, opcit., 118 ss.; Cass. 10 febbraio 1988, n. 1461, in Orient. giur. lav., 1988, 310; contra v. Cass. 19 settembre 1984, n. 5902.

[64] A. CATAUDELLA, opcit., 7.

[65] O. MAZZOTTA, Accertamenti sanitari, eccessiva morbilità e contratto di lavoro, in Dir. rel. ind., 1983, 2 ss.; G. PERA, sub Art. 5, in C. ASSANTI, G. PERA, opcit., 42 ss.; L. MENGONI, I poteri dell’imprenditore, ora in ID., Diritto e valori, il Mulino, Bologna, 1985, 402 ss.; G.F. MANCINI, Lo Statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in Pol. dir., 1970, 57 ss.; Sulla questione di legittimità dell’art. 6 Stat. lav. in relazione all’art. 13 Cost., v. A. BELLAVISTA, Il controllo sui lavoratori, cit., 163 ss.; Corte Cost., 5 febbraio 1975, n. 23, in Foro it., 1975, I, 249; Corte Cost. 25 giugno 1980, n. 99, in Foro it., 1980, I, 1817.