Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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La via italiana al whistleblowing tra obbligo di fedeltà e "diritto alla legalità" (di Stefano Corso (Dottore di ricerca in diritto dell’impresa dell’Università Bocconi di Milano))


Il saggio analizza lo sviluppo dell’istituto del whistleblowing in Italia e le peculiarità delle sue applicazioni nel settore pubblico e privato, quali l’impatto sull’organizzazione delle imprese, il diritto al contraddittorio di fronte alle segnalazioni anonime e, soprattutto, la ne­cessità di una maggiore ed effettiva tutela del prestatore d’opera che segnali illeciti, disfunzioni organizzative o situazioni di rischio.

The italian way to whistleblowing between duty of loyalty and "right to legalty"

The paper analyzes the development of the institute of whistleblowing in Italy and the peculiarities of its application between public and private sectors such as the impact on enterprises’ organization, anonymity facing the right to confrontation and, above all, the need to guarantee larger protection to employees who report unlawful behaviours, organizational dysfunctions or risks.

1. Il whistleblowing come espressione del controllo sociale sull’attività economica Da sempre ci si interroga circa i contenuti dell’obbligo di fedeltà in capo al prestatore d’opera quale conseguenza del rapporto di lavoro inter partes e, tra i numerosi profili esaminati, una problematica già emersa concerne il potere/diritto/dovere del dipendente di segnalare situazioni critiche (o censurabili) ravvisate in ambito aziendale. Un contributo ad un ulteriore approfondimento per la delicata tematica può essere colto nei più recenti interventi del legislatore. La rubrica della legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, dichiara – a ben vedere – minus quam voluit in quanto introduce una disciplina specifica anche per il settore privato e prevede strumenti destinati a riflettersi fuori dal settore pubblico come modello per assicurare il buon andamento di tutte le attività economiche, da chiunque svolte. Sotto il primo profilo, costituisce disciplina specifica la norma apparentemente “stravagante” del nuovo art. 2635 c.c. che, introducendo la “corruzione tra privati” [1], sanziona la violazione di doveri derivanti da norme giuridiche o contrattuali, ma anche la violazione di un più generico dovere di “fedeltà” da ritenersi immanente in tutti i rapporti tra privati, specie se tra datore di lavoro e lavoratore [2]. Nella diversa prospettiva dei meccanismi volti ad assicurare un efficace contrasto alla corruzione ed all’illegalità agendo “dall’interno” si richiama, invece, la sollecitazione verso i dipendenti pubblici affinché segnalino situazioni illecite e non trasparenti percepite in ambito lavorativo, previa offerta di riservatezza e protezione (art. 54 bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, introdotto dall’art. 1, comma 51, legge n. 190 citata) [3]. La eadem ratio alla base della repressione della corruzione pubblica e privata induce a chiedersi se e quali spazi di applicazione nel settore privato possa avere la disciplina del whistleblowingqui calibrata sul rapporto di pubblico impiego, ma introdotta in esecuzione di obblighi convenzionali di adozione delle misure “legislative o di altro tipo” ritenute “necessarie per garantire una protezione effettiva ed adeguata … alle persone che forniscono informazioni relative a reati determinati” o che “collaborano in qualsiasi altro modo con le autorità incaricate di investigazioni” [4]. L’idea di coinvolgere il lavoratore nell’attività di contrasto a quanto compromette la corretta amministrazione, distorce la concorrenza, ostacola lo sviluppo economico [continua..]

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SOMMARIO:

1. Il whistleblowing come espressione del controllo sociale sull'attività economica - 2. Segnalazione di illeciti in ambito aziendale e "diritto alla legalità" - 3. La tutela del dipendente pubblico segnalatore (anche anonimo) di illeciti: un modello esportabile nel settore privato? - 4. La tutela delle condizioni di lavoro di colui che segnala illeciti - 5. Conclusioni - NOTE


1. Il whistleblowing come espressione del controllo sociale sull'attività economica

Da sempre ci si interroga circa i contenuti dell’obbligo di fedeltà in capo al prestatore d’opera quale conseguenza del rapporto di lavoro inter partes e, tra i numerosi profili esaminati, una problematica già emersa concerne il potere/diritto/dovere del dipendente di segnalare situazioni critiche (o censurabili) ravvisate in ambito aziendale. Un contributo ad un ulteriore approfondimento per la delicata tematica può essere colto nei più recenti interventi del legislatore. La rubrica della legge 6 novembre 2012, n. 190, recante “disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, dichiara – a ben vedere – minus quam voluit in quanto introduce una disciplina specifica anche per il settore privato e prevede strumenti destinati a riflettersi fuori dal settore pubblico come modello per assicurare il buon andamento di tutte le attività economiche, da chiunque svolte. Sotto il primo profilo, costituisce disciplina specifica la norma apparentemente “stravagante” del nuovo art. 2635 c.c. che, introducendo la “corruzione tra privati” [1], sanziona la violazione di doveri derivanti da norme giuridiche o contrattuali, ma anche la violazione di un più generico dovere di “fedeltà” da ritenersi immanente in tutti i rapporti tra privati, specie se tra datore di lavoro e lavoratore [2]. Nella diversa prospettiva dei meccanismi volti ad assicurare un efficace contrasto alla corruzione ed all’illegalità agendo “dall’interno” si richiama, invece, la sollecitazione verso i dipendenti pubblici affinché segnalino situazioni illecite e non trasparenti percepite in ambito lavorativo, previa offerta di riservatezza e protezione (art. 54 bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, introdotto dall’art. 1, comma 51, legge n. 190 citata) [3]. La eadem ratio alla base della repressione della corruzione pubblica e privata induce a chiedersi se e quali spazi di applicazione nel settore privato possa avere la disciplina del whistleblowing qui calibrata sul rapporto di pubblico impiego, ma introdotta in esecuzione di obblighi convenzionali di adozione delle misure “legislative o di altro tipo” ritenute “necessarie per garantire una protezione effettiva ed adeguata [continua ..]


2. Segnalazione di illeciti in ambito aziendale e "diritto alla legalità"

La configurazione di un potere/dovere del dipendente privato di segnalare illeciti e/o anomalie è rinvenibile – come si è già ricordato – nel sistema del d.lgs. n. 231/2001 che ha introdotto nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa “da reato” degli enti. In base a detto intervento normativo l’ente che sia datore di lavoro deve prevedere dei modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire (almeno) la commissione di reati presupposto e deve richiedere ai suoi collaboratori a vario titolo di non commettere illeciti nemmeno se ritenuti “nel­l’interesse o a vantaggio” dell’ente e di segnalare attraverso procedure espressamente previste situazioni di illegalità o di poca trasparenza, così da consentire la prevenzione o la efficace tempestiva repressione dell’illecito e la rimozione delle possibili causali. La corretta attuazione del disposto dell’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 apre la strada alla causa di esenzione dalla responsabilità amministrativa “da reato” [32] esattamente come avviene, limitatamente alla materia prevenzionistica, ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. Almeno nel settore della sicurezza e igiene del lavoro, è acquisito che il lavoratore – creditore della sicurezza – possa segnalare situazioni di carente applicazione o di violazione della normativa a tutela della sua integrità fisica e psichica e una forma indiretta di tutela contro eventuali reazioni datoriali improprie o pregiudizievoli per il singolo prestatore d’opera è ravvisabile nelle organizzazioni collettive o nei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza che possono assurgere a portatori impersonali di specifiche segnalazioni, richieste o denunce. Con l’art. 6 citato si afferma la volontà legislativa di dar corso ad uno specifico strumento di controllo endoaziendale finalizzato alla segnalazione degli illeciti nei rapporti tra privati quale riconoscimento del diritto di ogni lavoratore ad operare in un ambiente di lavoro, non solo sicuro e igienico, ma anche moralmente pulito e trasparente [33]. Questo costituisce un importante indizio della volontà dell’ordinamento di considerare come un vero e proprio diritto del lavoratore la segnalazione degli illeciti, a prescindere dal fatto che tale [continua ..]


3. La tutela del dipendente pubblico segnalatore (anche anonimo) di illeciti: un modello esportabile nel settore privato?

Alla luce di questo quadro certamente frammentato si può passare ad analizzare l’unica norma nell’ordinamento italiano che disciplini espressamente la segnalazione di illeciti da parte dei lavoratori, pubblici in questo caso, ossia l’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001 introdotto ai sensi dell’art. 1, comma 51, legge n. 190/2012 e rubricato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”. Se le sanzioni penali hanno rappresentato nel tempo la modalità più comune nel contrasto delle condotte volte a danneggiare il “buon andamento e l’imparzialità” degli uffici pubblici, negli ultimi anni si è assistito a soluzioni certamente innovative, volte a privilegiare un’attività di prevenzione “interna” ed autonoma degli enti pubblici in uno spirito di cooperazione tra la giustizia penale, quella contabile e l’impegno in prima persona delle singole amministrazioni ad intervenire, anche per mezzo del potere disciplinare ad esse attribuito. I comuni cittadini sono chiamati a collaborare segnalando quanto, a loro avviso, contrasta con il buon andamento della pubblica amministrazione; l’autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria possono anche di iniziativa raccogliere la notizia di reato e procedere agli accertamenti, senza che vi sia formalmente un denunciante; il legislatore si aspetta, però, che sia la stessa pubblica amministrazione ad autotutelarsi, chiamando ogni dipendente a segnalare quanto di anomalo percepito nell’andamento del pubblico ufficio e ciò non per “lavare i panni sporchi in famiglia”, ma per consentire un più radicale intervento di contrasto della mala gestio [51]. In quest’opera di responsabilizzazione si colloca l’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001 che, rafforzando il ruolo di ogni dipendente pubblico nell’attività di contrasto agli illeciti e alle disfunzioni, pone le basi per un maggior coinvolgimento di questi ultimi nel perseguire una maggior legalità e trasparenza dei pubblici uffici e si preoccupa di incentivare questa essenziale collaborazione “dall’interno” [52]. La prospettiva non è nuova, ha radici profonde nel passato ma, anche in ordine a quanto in precedenza affermato in relazione all’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001, sconta una certa dose di [continua ..]


4. La tutela delle condizioni di lavoro di colui che segnala illeciti

Se è pur vero che la segnalazione del tutto anonima potrebbe escludere ab origine ogni problematica circa possibili comportamenti ritorsivi nell’am­bien­te lavorativo e nel rapporto di lavoro, si è osservato che possono ben verificarsi sia casi di segnalazioni il cui mittente è destinato a rimanere segreto ma solo nei limiti in precedenza indicati, sia di segnalazioni che per espressa volontà del dipendente pubblico segnalante contemplano anche il suo nominativo. Proprio con riguardo a queste due ipotesi, particolarmente meritevoli non solo dal punto di vista morale ma anche in quanto molto più qualificate in senso probatorio, il legislatore ha ritenuto opportuno predisporre forme di tutela delle condizioni di lavoro del segnalante. La scelta, anche sul piano dei principi, è apprezzabile e si pone in continuità con quanto da tempo consolidatosi in dottrina e giurisprudenza circa il divieto di condotte discriminatorie o ritorsive. L’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2001 stabilisce che il denunciante “non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia” (comma 1). Questa forma di tutela deve essere fornita da tutti i soggetti che ricevono le segnalazioni. Difficile ma non da escludere è che sia la stessa amministrazione di appartenenza ad adottare provvedimenti disciplinari, conservativi e non, nei confronti di colui che ha segnalato una (altrui) condotta illecita alla autorità giudiziaria, alla Corte di conti, all’ANAC o al superiore gerarchico e motivi il prov­vedimento con il fatto di aver collaborato al ripristino della legalità nella pubblica amministrazione. In tale evenienza, all’illegittimità del provvedimento adottato seguirebbe l’immediata nullità dello stesso per espressa contrarietà con quanto previsto dall’art. 54 bis, a prescindere da ogni ulteriore valutazione di motivi discriminatori che, di volta in volta, potrebbero ravvisarsi. Con l’eccezione delle ipotesi di denuncia risultata calunniosa, diffamatoria o altrimenti lesiva, il dipendente pubblico, che si sente ingiustamente colpito o discriminato, potrà chiedere il riconoscimento della tutela di cui all’art. 54 bis comma 1 [continua ..]


5. Conclusioni

Il rinvenire, nel settore del lavoro pubblico, una specifica normativa a tutela del dipendente che intenda segnalare anomalie o illeciti in cui si è imbattuto nell’espletamento del suo lavoro, pone in luce due rilievi: il primo è nel senso che nulla di simile è reperibile nella disciplina del rapporto di lavoro privato; il secondo è l’interrogativo se – e in che limiti – l’art. 54 bis possa estendersi al lavoratore privato o, sotto un altro profilo, se sia escogitabile un qualche meccanismo che, ricalcando la struttura dell’art. 54 bis, consenta di riconoscere qualche tutela al prestatore d’opera privato che abbia il coraggio civico di segnalare illeciti endoaziendali (del datore di lavoro o in danno del datore di lavoro). L’introduzione dell’art. 2635 c.c. ha, nell’ambito del rapporto di lavoro privato, certamente sanzionato l’infedeltà dietro promessa o dazione di corrispettivo ma non ha delineato alcun contenuto innovativo di detto obbligo e non consente, quindi, di ricomprendervi un obbligo (sostanzialmente contrattuale) di segnalazione – all’interno o all’esterno dell’ente privato datore di lavoro – di situazioni anomale e/o illecite da prevenire, rimuovere e sanzionare. Men che meno è rinvenibile nell’art. 2635 c.c. una qualche preoccupazione di tutela del prestatore d’opera che si induca a segnalare un qualsiasi illecito o, almeno, la “corruzione tra privati”. La disamina della portata applicativa dell’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 non consente alcun significativo progresso in tale direzione: il prestatore d’opera viene in rilievo come “soggetto sottoposto all’altrui direzione” (art. 7) cui si chiede di non commettere reati d’iniziativa, di non ottemperare all’ordine di commettere reati, di segnalare “significative violazioni delle prescrizioni” contenute nel modello organizzativo o “situazioni di rischio”, cui si comminano sanzioni disciplinari per un deficit nella collaborazione, ma al quale non viene riconosciuta alcuna specifica tutela avverso le possibili ricadute negative del non aver tenuto per sé situazioni anomale o illecite che doveva non vedere o fingere di non aver visto o, almeno, non divulgare. La legge n. 190/2012 esaurisce il suo interesse al rapporto di lavoro privato [continua ..]


NOTE