Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Giusta causa ed "illiceità" delle condotte extralavorative: alla ricerca di un difficile equilibrio (di Stefano Maria Corso (Dottore di ricerca in diritto dell’impresa dell’Università L. Bocconi di Milano))


Il saggio analizza la crescente rilevanza assunta nell’ordinamento dai comportamenti extralavorativi “illeciti” quale giusta causa di licenziamento, l’ampia ricostruzione della casistica giurisprudenziale, le sue ricadute sul potere giudiziale di valutazione e, soprattutto, la necessità di garantire per i lavoratori una maggior consapevolezza e protezione dal fenomeno.

Just cause and "unlawfulness" in extra work behaviors: looking for a difficult balance

The essay analyzes the growing relevance of unlawful extra-work behaviors in dismissals justified by just cause, the ample case law, its implications for the judicial power and, above all, the need to guarantee a larger knowledge and awareness of this phenomenon among employees.

1. La rilevanza del comportamento extralavorativo come “giusta causa” La stabilità del posto di lavoro è un valore in sé perché è garanzia perdurante nel tempo di una “esistenza libera e dignitosa” (art. 36, comma 1, Cost.) [1]. Ciò spiega l’evoluzione costante della normativa alla ricerca del miglior equilibrio tra tutela del lavoro e libertà di iniziativa economica privata, avendo ben presente l’auspicio – ripreso dalla stessa Corte costituzionale – di una previsione normativa che limiti per tutti i lavoratori il licenziamento ad ipotesi tipiche e “giustificate”, in particolare dalla presenza di una giusta causa [2]. In tale sistema ruolo centrale ha assunto la giurisprudenza, chiamata non solo a identificare le condotte astrattamente riconducibili nell’alveo dell’art. 2119 c.c. ma, in concreto, ad adattare tale nozione alle risultanze fattuali emerse caso per caso, sindacando la proporzionalità della sanzione del licenziamento rispetto ai comportamenti effettivamente posti in essere [3]. Ope iudicis in sostanza, a prescindere dalla rilevanza (dibattuta ma) riconosciuta in tema di giusta causa, si è giunti a costituire una sorta di “coperta di Linus” a tutela del prestatore d’opera valorizzando – nel giudizio di proporzionalità – elementi quali la natura e qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, le mansioni espletate, il grado di fiducia richiesto dalla struttura dell’impresa o dalla qualifica, il grado di intenzionalità, l’effettivo pregiudizio patito e il rispetto del criterio di sussidiarietà. Le recenti riforme con la legge 28 giugno 2012, n. 92 e con il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, ridimensionando (o comunque volendo ridimensionare) di molto il ruolo di bilanciamento del giudice al momento dell’atto espulsivo [4], modificano tale prospettiva ed aggravano, in particolare, il rischio di una eccessiva valorizzazione delle condotte extralavorative, ossia di fatti non deducibili o diversi dalle obbligazioni ex contractu. Del resto, già all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile vi è stato chi, ottimisticamente, ha colto nell’art. 2087 c.c. una svolta di assoluto rilievo per quanto concerne i reciproci obblighi nascenti dal contratto inter partes: “nei rapporti estranei al lavoro cessa di regola ogni ingerenza del datore di lavoro, ma in quanto non vi sia ripercussione sul lavoro stesso” [5]. Senonché è emerso immediatamente che quanto asseritamente escluso, almeno in via tendenziale, dall’art. 2087 c.c. poteva rientrare a pieno titolo in forza di altre norme codicistiche. Il riferimento è precipuamente all’art. 2119 c.c. che definisce la giusta causa di recesso dal contratto di [continua..]

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