Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il mancato rispetto dell'art. 36, comma 1, Cost.: prassi scorretta dell'impresa illecita o sacrificio sull'altare dell'efficienza dei mercati concorrenziali? (di Renato Greco (già Presidente della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Catanzaro))


Il saggio descrive le modalità vecchie e nuove con cui si concretizza il mancato rispetto del principio del giusto salario in una società di mercato ispirata all’equilibrio generale concorrenziale; verifica la tensione tra l’art. 36 Cost. e le esigenze di competitività dell’impresa e gli effetti sulla contrattazione collettiva e sulla giurisprudenza; mette in risalto il contrasto culturale e assiologico tra i principi di tutela del lavoro della Carta costituzionale e le libertà economiche dei trattati europei, anche alla luce del dogmatismo neoliberista della Corte di Giustizia Europea; analizza le prassi elusive del principio costituzionale dell’equa retribuzione che vanno dal tradizionale lavoro nero alle molteplici forme di lavoro precario o sottopagato fino al lavoro gratuito, in un contesto in cui il diritto del lavoro sembra mutare paradigma.

Failure to comply with art. 36, first paragraph, Const.: Incorrect practice of the illicit enterprise or sacrifice on the altar of the competitive markets efficiency?

The essay describes the old and new ways in which the failure to respect the fair salary principle is expressed in a market society inspired by the general competitive equilibrium; it verifies the tension between the Italian Constitution art. 36  and the company’s competitiveness needs and the effects on collective bargaining and jurisprudence; it highlights the cultural and axiological contrast between the protection of work principles in a Constitutional perspective and the European treaties’ economic freedoms, also in light of the neoliberal dogmatism of the European Court of Justice; it analyzes the elusive practices of fair pay’s constitutional principle ranging from traditional black labor to multiple forms of precarious or underpaid work to free labor, in a context in which labor law seems to change its paradigms.

SOMMARIO:

1. La questione salariale nella "società aperta fortemente competitiva" - 2. La retribuzione qualificata nell'impianto costituzionale - 3. L'attuazione del disegno costituzionale e il dogma dell'efficienza dei mercati concorrenziali: la parabola della contrattazione collettiva - 4. Segue: e la risposta flessibile della giurisprudenza - 5. Il diritto all'equa retribuzione e le libertà economiche dei trattati europei - 6. Le modalità di elusione del precetto costituzionale nella deriva concorrenziale e nella perdita della centralità etica e antropologica del lavoro - NOTE


1. La questione salariale nella "società aperta fortemente competitiva"

La violazione dell’obbligo di corrispondere al lavoratore una retribuzione proporzionata e sufficiente può oggi essere considerata da due punti di vista distinti anche se connessi. Il primo, tradizionale, concerne la verifica degli aspetti, per così dire, patologici del sistema, ossia le modalità vecchie e nuove con le quali l’impresa illecita tenta di aggirare la regola costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente, facendo ricorso al lavoro nero o sottopagato, con effetti che si traducono sul duplice versante della violazione di diritti fondamentali dei lavoratori e dell’alterazione del corretto regime di concorrenza tra imprese e tra lavoratori in un mercato aperto sempre più competitivo. L’altro riguarda la compatibilità della regola costituzionale con la “moderna fisiologia” del sistema economico e produttivo nella quale il contenimento dei salari e in particolare la loro flessibilità verso il basso appaiono un necessario meccanismo di aggiustamento degli eventuali squilibri macroeconomici e di incremento della competitività d’impresa: un aspetto di evidente attualità in una fase storica in cui l’intero diritto del lavoro, ripensato nell’ottica di una relazione di mercato, sembra avviato verso un profondo mutamento del suo paradigma scientifico [1]. La globalizzazione, infatti, con il suo effetto di denazionalizzazione dei processi economici e di allargamento dell’arena concorrenziale, ha messo in crisi lo storico ruolo regolativo del diritto e il principio fondativo di ogni ordinamento come sistema radicato sul nesso tra Ordnung e Ortung [2] e, in un nuovo corso normativo orientato all’economicismo, tende a relegare in secondo piano anche precetti che affermano diritti fondamentali, come l’art. 36 Cost. il quale, al pari di altre norme costituzionali, “si colloca all’incrocio fra la centralità antropologica, la centralità etica e la centralità economica del lavoro” [3]. Questo mutamento di paradigma, che tende ad assegnare al diritto del lavoro la funzione di organizzazione di forme esteriori delle dinamiche economiche e di mercato limitandone, però, la capacità di orientarle in senso sociale, è frutto della nuova “valutazione assiologica presente nella cultura e nell’ordinamento dell’Unione [continua ..]


2. La retribuzione qualificata nell'impianto costituzionale

Il “principio lavorista” [8] che connota la nostra Carta costituzionale ha molteplici implicazioni, fra le quali spicca il valore etico del lavoro quale espressione primaria della partecipazione del singolo al consesso sociale e strumento che contribuisce a rinsaldare il vincolo comunitario [9]. Questa dimensione assiologica del lavoro, inteso come tratto tipico della condizione umana, è collegata dalla Costituzione alla dignità della persona concreta e situata nell’ambiente di lavoro, “strappata all’ingannevole assolutezza delle categorie astratte” [10], tipica delle costituzioni ottocentesche [11]. Letto in questa ottica, l’art. 36 Cost. può essere considerata la norma che dà senso alla nuova antropologia desumibile dall’art. 1 Cost., tratteggiando “il lavoratore come figura che dà diretta concretezza all’homo dignus” [12], e che si fa carico della garanzia di giustizia sociale imprimendo alla retribuzione anche “una finalità etico-sociale estranea all’ambito contrattuale, attuando una felice sintesi tra i valori negoziali e i principi di libertà e dignità” [13]. Per tali motivi, rilevava non a caso un classico commento alla norma costituzionale, la retribuzione equa delineata dall’art. 36 Cost. “qualifica l’orientamento complessivo del nostro sistema normativo” [14]: la sua attuazione consente, da un lato, di affermare e tutelare il valore della libertà e dignità della persona direttamente nell’ambito dei rapporti tra privati e, dall’altro, contribuisce a delineare le caratteristiche del sistema economico-sociale. La regola costituzionale che impone la ‘giusta retribuzione’, infatti, concorre incisivamente alla formazione del modello economico disegnato dalla Carta costituzionale. In un sistema improntato alla libertà di iniziativa economica privata, (art. 41, comma 1, Cost.), sarebbe incompatibile con il modo di produzione capitalistico qualsiasi intervento che tendesse a forzare i livelli di retribuzione oltre la soglia dello spontaneo equilibrio dei fattori di produzione nel mercato, se non vi fosse il limite rappresentato dal nesso che lega il secondo comma dell’art. 41 (utilità sociale dell’iniziativa privata e rispetto della libertà e dignità umana) e gli art. 4 e 36 [continua ..]


3. L'attuazione del disegno costituzionale e il dogma dell'efficienza dei mercati concorrenziali: la parabola della contrattazione collettiva

Di fronte ad una norma che lasciava indeterminata la scelta sul se e sul come attuare e rendere vincolante il principio costituzionale della giusta retribuzione, il legislatore ha preferito astenersi dall’intervenire manifestando la propensione a favore dell’autonoma determinazione delle parti sociali, implicitamente riconoscendo la prevalente se non esclusiva competenza delle associazioni di categoria a regolare gli interessi patrimoniali dei lavoratori nel senso voluto dalla Carta costituzionale, attraverso atti giuridici rilevanti come i contratti collettivi. Alla negoziazione collettiva in tal modo è stato assegnato il compito di concretizzare la duplice funzione che si propone la norma costituzionale: la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente e la regolazione della concorrenza. Il mero rinvio alla contrattazione collettiva, se si considerano i profili di universalismo e egualitarismo impliciti nell’art. 36 Cost., qualche perplessità la solleva. Questo meccanismo, infatti, ha come conseguenza che la retribuzione adeguata e sufficiente è, di volta in volta, determinata nell’ambito delle diverse categorie e dei relativi contratti collettivi, per cui è inevitabile che “per funzioni omogenee, in differenti settori produttivi, il compenso idoneo a tutelare la dignità del dipendente e la stessa esistenza della sua famiglia è disomogeneo, a seconda della natura merceologica del datore di lavoro” [21]. L’ancoraggio della sufficienza della retribuzione alle condizioni negoziali che portano alla conclusione dei diversi contratti nazionali fa sfumare il nesso con il nucleo forte dell’art. 36 Cost., in quanto il principio della retribuzione come strumento di garanzia della libertà e dignità del lavoratore e della sua famiglia “avrebbe presupposto una determinazione universalistica, in quanto la categoria della dignità (da cogliere in una proiezione etica e non solo giuridica) sfugge alle dinamiche rivendicative di ciascuna organizzazione nazionale” [22]. Per altro verso la negoziazione sindacale appare inidonea a garantire un’adeguata retribuzione nei casi di prestazioni di alta professionalità e di pregio qualitativo ritenuti meritevoli di livelli retributivi superiori agli standard eventualmente stabiliti dal contratto collettivo. In questi casi, in effetti, è la contrattazione [continua ..]


4. Segue: e la risposta flessibile della giurisprudenza

La responsabilità di attuare il precetto costituzionale anche nei riguardi di coloro che non sono tenuti al rispetto di determinate prescrizioni contrattuali (in virtù delle regole di diritto comune che disciplinano i contratti collettivi e della libertà dell’imprenditore di scegliere se e quale contratto adottare), in carenza di strumenti vincolanti quali una legge ad hoc o norme inerenti alla valenza erga omnes della contrattazione collettiva, è stata assunta dalla magistratura. Superando di slancio la “falsa contrapposizione” e la “speciosa” questione della natura programmatica o precettiva dell’art. 36, comma 1, Cost. [32], la giurisprudenza ha realizzato il più vistoso e ‘fortunato’ esempio di creatività normativa per via giurisdizionale, che non ha eguali neppure in Paesi nei quali sono vigenti norme assimilabili al nostro art. 36 Cost. [33], e ha materializzato la disposizione costituzionale mediante la trasformazione in regola di un principio che rischiava di restare sulla carta [34]. Il canone ermeneutico utilizzato – dovendosi conciliare il dato della mancata attuazione del meccanismo previsto dall’art. 39 Cost. per l’efficacia erga omnes della contrattazione collettiva con l’esigenza di affermare in concreto per tutti i prestatori di lavoro il diritto ad una retribuzione adeguata – è stato quello di considerare le tariffe negoziate in sede sindacale come parametro e di imporle come il più valido criterio di riferimento per la determinazione del dovuto. Questo indirizzo ha consentito di superare l’impasse della mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e ha permesso al giudice di intervenire in tutti i casi in cui tra la retribuzione corrisposta e quella contrattuale vi era uno scarto considerevole, tale da violare la libertà e la dignità del lavoratore e della sua famiglia, riuscendo anche a stanare le varie forme di lavoro nero o irregolare, con le quali l’impresa illecita tende a farsi strada nel mercato. Il ricorso a tale meccanismo di supplenza giudiziale si presta a censure di vario genere, prima fra tutte quella che una politica del diritto che si incentri sull’intervento della magistratura non può che risentire delle inevitabili diversità di accentuazioni e applicazioni, a seconda delle diversità [continua ..]


5. Il diritto all'equa retribuzione e le libertà economiche dei trattati europei

Il diritto a un trattamento economico che abbia i requisiti prescritti dall’art. 36 della nostra Costituzione, siano essi intesi in base alla purezza formale del dettato costituzionale o alla attuazione modulata della contrattazione e della giurisprudenza, incontra serie difficoltà ad affermarsi nel contesto dell’Unione europea in quanto il diritto comunitario, condizionato dalla teoria dell’equilibrio generale concorrenziale, mira a valorizzare le libertà economiche e non il loro contenimento. Ma non è sempre stato così. I trattati istitutivi delle comunità europee erano finalizzati alla creazione di un mercato comune affidato alle libertà garantite dal diritto comunitario e, nel contempo, radicato nelle istituzioni sociali degli Stati membri. Nella disciplina comunitaria, formata da policies e regole, la concorrenza era un obiettivo, una policy, uno strumento privilegiato del progresso economico (teoricamente sostituibile da altri mezzi), garantito dalle regole che impedivano che fosse falsata (inserite nella terza parte del Trattato di Roma). L’equilibrio tra le libertà dei trattati europei e i diritti sociali e del lavoro dei singoli Stati si compendiava nella formula dell’embedded liberalism, nel senso che i diritti del lavoro previsti dagli Stati membri non dipendevano dal funzionamento del mercato comune; al contrario era quest’ultimo a doversi armonizzare, secondo una logica di coerenza, con il progresso dei sistemi sociali nazionali, secondo la formula dell’art. 117 del Trattato CEE. Quindi la “legittimità dell’integrazione del mercato comune attraverso il diritto europeo riposava … sulla forza di legittimazione materiale dei sistemi di diritto del lavoro e di protezione sociale nazionali” [54]. La logica duale del sistema comunitario dura fino all’Atto unico del 1986 con il quale, nella prospettiva dell’abbattimento degli ostacoli alla libertà di movimento dei fattori produttivi, si avvia la trasformazione dei rapporti tra le regole del mercato interno e i diritti del lavoro nazionali, i quali tendono a perdere autonomia in una logica di concorrenza tra ordinamenti. Tuttavia la Corte di Giustizia riesce ancora a neutralizzare il potenziale effetto deregolativo del nuovo corso, evitando la totale scissione tra la sfera dell’integrazione mercantile e quella [continua ..]


6. Le modalità di elusione del precetto costituzionale nella deriva concorrenziale e nella perdita della centralità etica e antropologica del lavoro

Malgrado le forti spinte verso la decrescita salariale provenienti dai mercati e dalla governance europea, nel nostro ordinamento il principio costituzionale del comma 1 dell’art. 36 non è messo in discussione sul piano formale, anche se spesso riletto con sospetta elasticità. Così come è ancora ribadito, indirettamente o esplicitamente, dal legislatore il ruolo di preminenza della negoziazione collettiva nella materia salariale. Lo dimostrano il perdurante indirizzo di condizionare il riconoscimento alle imprese di sgravi e incentivi all’applicazione della contrattazione collettiva delle organizzazioni maggiormente rappresentative e tutti casi in cui, pur in assenza di una legislazione sui minimi retributivi, sono state imposte indicazioni vincolanti sui livelli salariali per alcuni tipi di lavoro non standard, attraverso l’obbligo di corrispondere compensi e trattamenti commisurati ai livelli retributivi previsti dalla contrattazione collettiva di categoria riferibile alla tipologia del rapporto. Sono le ipotesi, come è noto, del lavoro somministrato, del lavoro intermittente, del distacco, del trattamento retributivo dei soci lavoratori e anche di fattispecie diverse dal lavoro subordinato, come è stato per il lavoro a progetto, in ordine al quale i compensi dovevano essere parametrati a quelli previsti dalla contrattazione collettiva al “corrispondente” lavoratore subordinato, e per l’equo compenso per i giornalisti non titolari di un rapporto di lavoro subordinato, in merito al quale la legge n. 233/2012 fa espresso riferimento all’attuazione dell’art. 36, comma 1, Cost. Tutte ipotesi di introduzione “per relationem” di un salario minimo rispondente ai requisiti richiesti dal precetto costituzionale come attuato dalla negoziazione collettiva [71]. Ma vi è di più. Si può registrare addirittura un irrigidimento del legislatore nella tutela del giusto salario, mediante la repressione anche penale delle forme più gravi di sfruttamento del lavoro attuate con violazione dei livelli salariali stabiliti in sede di negoziazione collettiva e del criterio di adeguatezza dell’art. 36 Cost. In questa ottica può essere letto il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, art. 603-bis c.p., introdotto con la legge n. 148/2011, riformulata con la legge n. [continua ..]


NOTE