Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il diritto antidiscriminatorio come antidoto alla flessibilità. Il caso del lavoro intermittente, tra istanze di tutela e limiti regolativi (di Gabriele Franza - Professore Associato di diritto del lavoro nell’Università di Macerata)


Al termine di una rapida vicenda giudiziale, la disciplina italiana che consente il lavoro intermittente per sole ragioni di età è stata ritenuta giustificata da legittime finalità di politica occupazionale. Il contributo intende verificare, anche attraverso l’analisi del processo valutativo richiesto dal diritto antidiscriminatorio, i motivi per cui la Corte di Giustizia sembra essersi discostata dal suo precedente orientamento, nonché se esistano diversi margini di tutela nella materia.

The anti-discrimination law as an antidote to the flexibility. The case of job on call, between protection claims and lack of rules

At the end of a rapid judicial case, the Italian law that allows job on call for reasons of age was considered justified by legitimate purposes of employment policy. The article intends to verify, also through the analysis of the evaluation process required by the anti-discrimination law, the reasons for which the European Court of Justice seems to have departed from its previous orientation, as well as if there are different margins of protection in the matter.

SOMMARIO:

1. Il lavoro a chiamata per ragioni soggettive discrimina, ma è legittimo - 2. Da Mangold ad Abercrombie: cosa cambia nella valutazione della Corte di Giustizia - 3. Il problema della comparazione rispetto alla flessibilità funzionale nel lavoro intermittente - 4. L'estinzione del rapporto per ragioni anagrafiche, tra forma e sostanza - NOTE


1. Il lavoro a chiamata per ragioni soggettive discrimina, ma è legittimo

Nell’ambita transizione da vulnus a leva per l’effettività dei diritti fondamentali [1], il sistema multilivello di norme e tutele selettive oramai noto come diritto antidiscriminatorio [2], e segnatamente quello incentrato sul fattore età, ha subìto una pesante battuta d’arresto nel noto caso Abercrombie. Si discute della disciplina italiana del lavoro intermittente nella sua variante “soggettiva”, cioè quella che, a seguito delle modifiche apportate nel 2005 con l’eliminazione della natura sperimentale e di altri requisiti (stato di disoccupazione; espulsione dal ciclo produttivo; iscrizione alle liste di mobilità), consentiva “in ogni caso” l’assunzione con questa tipologia contrattuale di soggetti con meno di 25 anni o più di 45 (art. 34, comma 2, d.lgs. n. 276/2003). Dopo la parentesi dell’abrogazione e successivo ripristino della fattispecie, questo limite di età è stato elevato a 55 anni e, rispettivamente, ridotto a 24 dalla legge Fornero, fermo restando che, per i giovani, “le prestazioni devono essere svolte entro il venticinquesimo anno”. Il d.l. n. 76/2013 ha poi introdotto un limite quantitativo di quattrocento giornate di lavoro effettivo, alle dipendenze dello stesso datore, nell’arco di un triennio solare. La specifica disciplina è infine confluita, senza modifiche sostanziali, nell’art. 13, d.lgs. n. 81/2015 [3]. Usualmente collocato tra le forme di lavoro subordinato non standard, il lavoro intermittente ha immediatamente impegnato la dottrina nell’elaborazione dogmatica di una fattispecie non solo priva di unitarietà, in quanto diversificata in base all’esistenza o meno di un obbligo di risposta, ma nel primo caso comunque incentrata sull’elemento della disponibilità all’esecuzione della prestazione che – diversamente dal lavoro somministrato di cui quello a chiamata costituiva ideale evoluzione – ha indotto a dubitare, con varie impostazioni, della sua stessa riconducibilità nell’alveo della struttura obbligatoria della subordinazione [4]. Se nella dimensione plurale, ovvero nella logica del mercato, il lavoro intermittente sconta una valutazione in termini di occupazione marginale, il suo sottotipo fondato sulla ricordata causale “soggettiva” è giudicato, non a [continua ..]


2. Da Mangold ad Abercrombie: cosa cambia nella valutazione della Corte di Giustizia

La soluzione del giudice comunitario ha frustato molte aspettative, prestando il fianco a critiche, in buona parte condivisibili [14], sia rispetto all’accertamento di idonee finalità occupazionali, accusato di fondarsi su assunti ambigui e generici (ben lontani dalla difesa tecnica, ipotizzata in dottrina, incentrata sulla prova di una complessiva rivisitazione di tutti i modelli contrattuali [15]) e quindi tale da attestare un evidente abbassamento dell’onere probatorio gravante sugli Stati membri [16]; sia e soprattutto in relazione ai criteri di necessità e appropriatezza dei mezzi utilizzati, ritenuti rispettati sulla scorta di una valutazione prognostica, avulsa dalla realtà espressa dai dati statistici, ovvero in forza di una comparazione al ribasso con lo stato di disoccupazione [17]. La reazione alla sentenza non si è però manifestata attraverso le sole critiche al metodo, cioè con l’auspicio che Abercrombie si riveli un caso isolato rispetto al rigore che ha finora caratterizzato l’interpretazione delle deroghe al divieto di discriminazione e alla consolidata scelta di rimessione dell’accertamento concreto al giudice domestico, bensì anche rispetto al merito della specifica vicenda in esame, di cui si è invocato un nuovo scrutinio del giudice interno, con conseguente ulteriore rinvio pregiudiziale o ricorso alla disapplicazione, almeno per aspetti (come quello inerente ai rapporti non di primo impiego, o quello relativo alla cessazione del rapporto al compimento del venticinquesimo anno) ritenuti estranei o non correttamente sottoposti all’esame della Corte di Giustizia. Richiesta che tuttavia – a non volere cogliere, tra le righe della sentenza della Cassazione, qualcosa di diverso dal rilevato contrasto col nuovo orientamento della Consulta – non sembra essere stata accolta rispetto alle specifiche questioni sollevate in quella sede. Ciò nonostante, in una prospettiva di merito utile a comprendere anche le ragioni di opportunità sottese al metodo utilizzato dal giudice sovranazionale, appare necessario svolgere qualche ulteriore considerazione. Il fatto è che Abercrombie si distingue dalla ingente giurisprudenza formatasi in materia per un aspetto decisivo e, a volte meditatamente, sottovalutato. Nella circostanza, infatti, attraverso il fattore di discriminazione [continua ..]


3. Il problema della comparazione rispetto alla flessibilità funzionale nel lavoro intermittente

Queste considerazioni ricevono significative conferme dall’analisi del processo di comparazione, che costituisce un passaggio logico fondamentale nell’accertamento dell’esistenza di una discriminazione in sede di pregiudiziale comunitaria. La questione peraltro si complica rispetto al conseguente o alternativo esercizio di disapplicazione consentito ai giudici domestici. Infatti, se il giudice comune può non applicare la disposizione interna contrastante col diritto comunitario, nel caso della violazione del principio di non discriminazione resta il problema di stabilire cosa debba essere applicato, in quanto il principio generale, benché munito di efficacia diretta ed orizzontale, di per sé non indica quale disciplina debba sostituirsi a quella disapplicata. A tale problema pone rimedio il diritto derivato mediante la comparazione [34], che quindi svolge la duplice e contestuale funzione di consentire, a monte, la verifica della disparità di trattamento e, a valle, di individuare la normativa applicabile nella disciplina che regola la situazione assunta a raffronto. Sicché, a ben vedere, nonostante il meccanismo si fondi su presupposti antitetici a quelli del c.d. effetto di esclusione (qui ricorrendo un principio generale immediatamente precettivo, invece di una norma comunitaria non auto-applicativa [35]), gli effetti di sostituzione non sembrano divergere, consistendo comunque nell’applicazione di altra norma interna, purché conforme al diritto comunitario o addirittura radicata in sue specifiche discipline, come appunto accade per le regole di parità di trattamento previste, a determinate condizioni, per alcune forme di lavoro flessibile. Occorre allora capire in che modo questo processo (ed annesso metodo) di comparazione possa essere svolto in relazione ad una tipologia di lavoro di cui si contesta in radice l’illegittimità per contrasto col principio di non discriminazione. Nella prospettiva sovranazionale la Corte di Giustizia, di certo non aiutata dall’ordinanza di rimessione, ha finito per svolgere una valutazione complessiva delle caratteristiche della fattispecie in commento, ritenendo che introduca una disparità di trattamento per età – ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a) direttiva n. 2000/78, cioè per discriminazione diretta – nel raffronto con la versione a causale “oggettiva” del [continua ..]


4. L'estinzione del rapporto per ragioni anagrafiche, tra forma e sostanza

Il ragionamento si diversifica ulteriormente nell’analisi della flessibilità tipologica della fattispecie, in quanto incentrata su un accesso libero a causale meramente “soggettiva” ad una forma di lavoro non standard, che a sua volta è collegato ad una causa di estinzione del rapporto che può essere predeterminata dalle parti con l’apposizione del termine ovvero, come nel caso Abercrombie, imposta per legge nonostante la formale costituzione di un rapporto a tempo indeterminato. Per la prima ipotesi va ribadito che la disciplina nazionale del lavoro intermittente a tempo determinato, non essendo collegata ad alcuna specifica formazione professionale, non può sottrarsi al campo di applicazione previsto dall’art. 2 della direttiva n. 99/70. L’originaria opinione contraria del Ministero del lavoro, fondata sulla diversità delle “causali” di accesso ai due istituti [49], è oramai sconfessata – adesso, stando al d.l. n. 87/2018, almeno per i primi dodici mesi – dalla liberalizzazione dell’apposizione del termine, a cui fa da contraltare la versione “soggettiva” del lavoro a chiamata, epurata da ogni ulteriore requisito. Del resto, l’argomento per cui la disciplina del lavoro intermittente non richiamava quella del d.lgs. n. 368/2001 era del tutto inconferente rispetto alla verifica di conformità alla fonte sovranazionale, semmai rilevando, in senso opposto, la sua mancata indicazione tra le “esclusioni” all’epoca previste dalla legislazione di recepimento e, ora, dall’art. 29, d.lgs. n. 81/2015 [50]. Per quanto già osservato, ne dovrebbe derivare la sottoposizione al giudizio di conformità comunitaria – in relazione alle prescrizioni in materia e (se si vuole) anche rispetto ai divieti di discriminazione, per i quali il termine di comparazione è agevolmente individuabile nella forma comune dei rapporti di lavoro – di una normativa che tuttora consente, nonostante il diverso limite di 400 giornate di lavoro nel triennio solare (a maggior ragione se spendibile nella forma del tempo parziale), la reiterazione di contratti di lavoro intermittente in un arco temporale di dieci anni per i giovani, e quasi illimitato per gli ultra-cinquantacinquenni, con analogia ancora più evidente rispetto al caso Mangold. La questione non è di poco [continua ..]


NOTE