Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

08/12/2018 - Licenziamento per giusta causa: la Suprema Corte afferma che č illegittimo il licenziamento del lavoratore che offende il datore di lavoro nel corso di una conversazione su una chat privata di Facebook.

argomento: Editoriale

Ai fini della giusta causa di licenziamento, la condotta del lavoratore deve essere caratterizzata dalla antigiuridicità. Pertanto, il lavoratore che apostrofa il proprio datore di lavoro con espressioni volgari offese in una chat privata di Facebook non può essere licenziato per giusta causa per mancanza di antigiuridicità della condotta. Infatti, l’intento di escludere i terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio – ravvisato nel messaggio inoltrato unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo – fa escludere qualsiasi intenzione o idonea modalità di diffusione denigratoria (massima redazionale).

» visualizza: il documento (Cass. 10 settembre 2018, n. 21965) scarica file

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di Dott.ssa Marta Selicorni

Con la ordinanza in commento la Suprema Corte ha affrontato il tema della sussistenza della giusta causa di licenziamento nel caso in cui il lavoratore utilizzi espressioni volgari di dissenso e di offesa nei confronti del datore di lavoro su una chat del noto social network Facebook.

La Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte territoriale, ritenendo illegittimo il licenziamento, per mancanza di antigiuridicità della condotta addebitata al lavoratore. Il dipendente (il quale, al tempo della condotta, rivestiva la carica di Rsa) era stato licenziamento per giusta causa, dopo che il datore di lavoro era venuto a conoscenza delle espressioni volgari e delle offese con le quali era stato apostrofato in una chat privata di Facebook. Di particolare rilevanza, nel caso di specie, è stato il fatto che alla suddetta chat aderivano solo componenti del sindacato di appartenenza del lavoratore. Preso atto dei motivi del ricorso, i Giudici di legittimità hanno ravvisato due rationes decidendi, esaminando per priorità logica la questione sulla “idoneità – a monte – della condotta contestata a integrare giusta causa di licenziamento”.

Accertata la “volontà dei partecipanti alla chat di non diffusione all’esterno delle conversazioni ivi svolte” e l’effetto della “esimente della provocazione connessa ad una iniziativa datoriale (…) lesiva della libertà sindacale”, la Suprema Corte ha analizzato il contemperamento tra la tutela della dignità della persona e il diritto di critica. Infatti, la condotta diffamatoria “lede il bene giuridico della reputazione, cioè l’opinione positiva che i consociati hanno di una determinata persona, dal punto di vista etico e sociale”. La lesione di tale bene giuridico richiede “la comunicazione con più persone”, poiché, quando la comunicazione avviene in un ambito privato, essa è protetta dal principio costituzionale della libertà e della segretezza delle comunicazioni. L’intento di “escludere i terzi dalla sfera di conoscibilità del messaggio”, ravvisato nel messaggio inoltrato “non ad una moltitudine indistinta di persone, ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo” fa escludere “qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria”.

La mancanza di antigiuridicità della condotta del lavoratore ha assorbito le altre questioni di diritto e, in particolare, “ogni profilo di rispetto o meno della continenza nell’esercizio del diritto di critica”. Pertanto, il Giudice di legittimità ha rigettato il ricorso del datore di lavoro, sussumendo il caso di specie nell’ipotesi in cui “il fatto contestato risulti materialmente esistente, ma privo del carattere di illiceità”.

La criticità della ordinanza in esame risiede nella mancata valutazione della continenza nell’esercizio del diritto di critica. Infatti, se è vero che le comunicazioni a mezzo social network sono tutelate dalle garanzie degli artt. 15 e 21 Cost., è anche vero che il prestatore di lavoro subordinato incontra dei limiti nella sua facoltà di espressione del pensiero connessi alle peculiarità del rapporto di lavoro. Gli obblighi di diligenza (art. 2104 cod. civ.), fedeltà e riservatezza (2105 cod. civ.) incombono sul dipendente e limitano la sua libertà di pensiero: infatti, il prestatore subordinato è soggetto a un particolare rapporto fiduciario.

Parificando le dichiarazioni formulate sui social network a quelle rese a mezzo degli strumenti di comunicazione pubblica del pensiero, la Cassazione ha più volte confermato l’orientamento per cui il diritto di critica (in costanza del rapporto di lavoro subordinato) soggiace ai limiti della continenza verbale, della continenza sostanziale e della rilevanza sociale delle dichiarazioni rispetto allo status del dichiarante e alla platea di riferimento (cfr., ex multis, Cass. 6 giugno 2018, n. 14527; Cass. 17 gennaio 2017, n. 996; Cass. 29 novembre 2016, n. 24260).

Nel caso di specie, è pacifico che le affermazioni sono state rese in una chat privata, anche se, non si è a conoscenza del numero di persone aderenti a tale chat, numero che, se fosse stato elevato, avrebbe determinato la presenza di una “comunicazione a più persone”. Tuttavia, ciò che rileva ai fini del diritto di critica, è il fatto che la chat fosse composta unicamente dagli appartenenti un sindacato che intesse relazioni industriali con la Società. Alla luce della particolare platea di riferimento e della relazione tra gli appartenenti la chat di Facebook e il datore di lavoro, ci si chiede come sia possibile che le affermazioni volgari e offensive di un dipendente che riveste una carica sindacale non ledano “l’opinione positiva che” gli altri appartenenti il sindacato hanno del datore di lavoro stesso “in particolare, dal punto di vista etico e sociale”.

Il tema del licenziamento per giusta causa del lavoratore che pubblica contenuti diffamanti sui social network è certamente una novità degli ultimi anni, tuttavia, la giurisprudenza ha iniziato a trattare la questione. Infatti, in altri casi, si è affermato che “è giustificato il licenziamento intimato per giusta causa al lavoratore che abbia postato su Facebook frasi offensive coinvolgenti i colleghi e il datore di lavoro, non integrando, nel caso di specie, reazione legittima ad una provocazione posta in essere dal datore di lavoro o dai colleghi” (cfr. Trib. Ivrea, 28 gennaio 2015, in Lav. Giur., 2015, 8 – 9, 83). Inoltre, si è affermato anche che la condotta del lavoratore (che pubblica sulla pagina Facebook dell’azienda affermazioni che mettono in dubbio l’effettività della politica aziendale ispirata al rispetto della legalità e alla tutela dei diritti del lavoratori), “avuto altresì riguardo alla potenzialità divulgativa dello strumento utilizzato per la manifestazione della propria opinione, risulta indubbiamente lesiva dell’immagine e della reputazione della datrice di lavoro e, perciò, in grado di ledere il vincolo fiduciario che necessariamente lega le parti nel rapporto di lavoro, integrando una giusta causa di licenziamento” (cfr. Trib Palermo, 21 luglio 2017, n. 2404, in www.dirittolavorovariazioni.com). Tuttavia, questa giurisprudenza si è sviluppata facendo riferimento a situazioni in parte differenti rispetto al caso dell’ordinanza in commento, poiché, in entrambi i casi, le frasi diffamanti la Società o le persone che la compongono sono state pubblicate in chat pubbliche o sulle bacheche pubbliche del social network Facebook.

È evidente come, nella analisi della liceità della condotta materiale, risulta fondamentale il carattere pubblico o privato della chat o del gruppo del social network sul quale si pubblicano le affermazioni diffamanti. A riguardo, la Cassazione ha affermato che è lecita la “limitata diffusione della vignetta” satirica (riguardante l’immagine aziendale) “tra i dieci partecipanti alla chat”, anche per “l’assenza di prova di una sua divulgazione all’esterno dell’ambiente di lavoro” (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2499).

In conclusione, per rendere una analisi compiuta della ordinanza sarebbe necessario conoscere sia il numero di persone coinvolte nella chat privata di Facebook (che, pur se non indeterminato, avrebbe rilevanza se raggiungesse numeri elevati), sia la consistenza dei comportamenti aziendali che avrebbero dato origine alla reazione del lavoratore, per potere verificare se egli ha esercitato un legittimo diritto di critica in reazione a comportamenti lesivi della libertà sindacale posti in atto dal datore di lavoro.