L’A. affronta il tema del rapporto tra diritto alla felicità e Stato sociale partendo da un’analisi dell’evoluzione del concetto di felicità nel divenire storico e, in particolare, nel passaggio dalla concezione individuale alla concezione pubblica della stessa. Si sofferma sulla svolta culturale illuministica che ha qualificato il diritto alla felicità come diritto naturale e affronta il tema dello Stato sociale e dei valori posti a fondamento delle moderne Costituzioni fondate sulla centralità del lavoro. Il saggio si conclude con una considerazione: dopo la crisi “della società del lavoro”, la possibilità di intravedere un principio costituzionale che ricordi il diritto alla felicità non può che fondarsi sulla valorizzazione dei diritti sociali e della tutela della dignità umana in ogni circostanza.
The a. analyzes the relationship between the right to happiness and welfare state, developing the concept of happiness in its historical evolution and, in particular, through the passage from an individual conception to a public conception.Then, the essay highlights the cultural turning point that, in the enlightenment period, qualified the right to happiness as a natural right, and the welfare state – with its values and relations focused on the centrality of work – which represents the cornerstone of modern constitutions.The essay concludes that, after the crisis of the so-called “labor society”, the possible introduction of a constitutional principles that remember the right to happiness should be based on the enhancement of social rights and human dignity in every circumstances.
Keywords: Right to happiness – Welfare State – Labour – Protection of the human dignity.
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Il 28 giugno 2012 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito “la giornata internazionale della felicità”, da celebrare in tutto il mondo il 20 marzo, nella prospettiva di «un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le nazioni» [1]. Oggi, in un passaggio d’epoca in cui aumentano a dismisura la miseria, le povertà e le disuguaglianze per effetto dei mutamenti del sistema economico, dei cambiamenti climatici dagli effetti catastrofici, dei radicalismi religiosi e dei conflitti che generano morte e violenza, nonché degli inarrestabili fenomeni migratori dalle aree più povere del pianeta (senza parlare della diffusione di una pandemia che rende ancora più angoscianti le miserie dei popoli), l’iniziativa dell’ONU potrebbe apparire un’ingenua e velleitaria fiducia “nelle magnifiche sorti e progressive” del genere umano. Ma non è così. Perché la ricerca della felicità è insita nella natura umana, poiché in qualsiasi condizione – economica, sociale, ambientale, affettiva – ogni persona cerca il suo percorso verso la felicità, tentando di ridurre la distanza tra la realtà come è e la realtà che desidera. Non a caso nella storia del pensiero umano non c’è filosofo, letterato o poeta che non si sia confrontato con la tematica della felicità considerata sotto molteplici profili legati all’individuo, alle condizioni ambientali, politiche, economiche e sociali, in determinati momenti storici. E molteplici possono essere i filoni di indagine che il tema suggerisce. Ma se è rapportato all’intera umanità o anche ad una comunità organizzata, l’astratto concetto di felicità diventa inafferrabile, più complesso e aleatorio, poiché «è molto più facile, per ciascuno di noi, rispondere alla domanda: che cosa mi rende felice? piuttosto che alla delicata questione cosa è la felicità?» [2]. Il tentativo di una definita connotazione del diritto al perseguimento della felicità riferito ai popoli della terra incontra non solo le difficoltà insite in ogni diritto a contenuto indeterminato, ma [continua ..]
Dopo la Dichiarazione di Filadelfia il termine felicità compare anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, ma rispetto all’esperienza americana la Rivoluzione francese è ancora più incisiva. A essere considerato diritto è la felicità, non la ricerca della felicità; inoltre la locuzione acquisisce un’esplicita dimensione pubblica, che viene ulteriormente formalizzata nella Costituzione emanata il 24 giugno 1793 dalla Convenzione nazionale giacobina, il cui primo articolo sancisce: “Lo scopo della società è la felicità comune”. È un passaggio importante perché la felicità diventa un diritto naturale, un diritto inalienabile dell’uomo, il prodotto della tradizione giusnaturalistica proiettato al futuro e idoneo a permeare di sé i modelli di governo dell’Ottocento. Ma la stessa Costituzione del 1793, includendo tra i diritti fondamentali e imprescrittibili della persona umana, oltre all’uguaglianza, alla libertà e alla sicurezza, anche la proprietà, non si avvede che il collegamento tra libertà e proprietà sarà destinato a pesare non poco sulle aspettative della felicità comune, stante la intrinseca assolutezza dei poteri proprietari [21]. L’associazione di due concetti strutturalmente diversi – i diritti fondamentali di libertà, spettanti ugualmente a tutti solo perché persone e, quindi, in quanto tali, universali, indisponibili e inviolabili, e i diritti patrimoniali di proprietà, spettanti singolarmente a ciascuno con esclusione degli altri e, quindi, singolari, alienabili e disponibili – frutto di una mistificazione culminata con il Codice Napoleone attraverso il loro inserimento indistinto nella categoria dei “diritti civili” (in contrapposizione ai diritti politici), ha inciso profondamente sul concetto di felicità che il giusnaturalismo del Settecento e l’Illuminismo avevano introdotto. Nella società borghese, che subentra all’assolutismo dell’ancien régime, il peso del diritto alla proprietà come diritto fondamentale personale, che esclude tutti gli altri, e che intende tutelare l’uomo proprietario anche dall’ingerenza dei pubblici poteri, inevitabilmente attribuisce alla ricerca della felicità una [continua ..]
È solo dopo gli orrori dei totalitarismi del Novecento che si fa strada nel mondo della politica e della cultura giuridica l’esigenza di porre al centro dei meccanismi di governo delle società democratiche una tutela più incisiva della persona umana e della sua dignità. È un percorso virtuoso che ha alcune tappe fondamentali individuabili nel discorso di Roosevelt delle “quattro libertà” del 6 gennaio 1941 [30]; nel Rapporto Beveridge [31] sul sistema di sicurezza sociale del 1942; nella Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite varata il 10 dicembre 1948 a S. Francisco. Un percorso che ha cambiato il corso della storia ed è stato il punto di partenza per l’approvazione delle successive varie Carte internazionali dei diritti, fra le quali va ricordata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, avente «lo stesso valore giuridico dei trattati» (art. 6, TUE). In sostanza, è stata una svolta politico-culturale a favorire il riconoscimento, in molte Costituzioni europee, di nuovi diritti sociali a tutela della dignità della persona, o meglio la previsione di nuovi modelli di garanzia degli stessi, facendo sì che lo Stato sociale raggiungesse la sua forma più compiuta [32]: un nuovo welfare state o stato del benessere, ispirato ai principi di sicurezza sociale e caratterizzato da assicurazioni nazionali a carattere universalistico, che prescindono dalle condizioni personali degli individui [33]. L’inserimento dei diritti sociali nel catalogo dei diritti fondamentali [34] e la loro collocazione, non più nella seconda parte delle Costituzioni, bensì nella prima, è un indice della carica innovativa delle Costituzioni del secondo dopoguerra. È importante tener presente che tali diritti sono riconosciuti all’uomo non come individuo isolato, ma come persona sociale, cioè in un’ottica relazionale e collettiva, che implica un rapporto con gli altri. Da ciò consegue che il versante deontologico dell’esercizio dei diritti fondamentali è «rappresentato dai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale enunciati dallo stesso articolo 2 non tanto come limiti intriseci dei diritti inviolabili, quanto come il loro rovescio, e in questo senso come limiti esterni» [35]. Lo storico [continua ..]
Se il lavoro è il più importante tra i diritti sociali, occorre chiedersi a quale tipo di lavoro faccia riferimento la Costituzione. Infatti, «nella dimensione costituzionale il lavoro non è un lavoro qualsiasi, un’unità occupazionale generica da contabilizzare, non è un lavoretto. I Costituenti pensavano a un lavoro in grado di dare dignità sociale al prestatore, qualificandolo in termini di cittadinanza professionale» [54]. Il lavoro identifica la persona e crea le condizioni per assicurare un’esistenza libera e dignitosa all’intero nucleo familiare del lavoratore [55]. In sostanza, nella logica della Costituzione sarebbero state la piena occupazione e la garanzia di un lavoro dignitoso a garantire quelle condizioni materiali che, se non sono espressione del riconoscimento di un diritto alla felicità, certamente ne costituiscono le premesse indispensabili. L’obiettivo di una piena occupazione e di una retribuzione adeguata per tutti ha però mostrato presto il suo carattere illusorio. Verso la fine del “trentennio glorioso”, durante il quale il boom economico aveva dato vita ad una crescita significativa dell’occupazione, ci si è resi conto che non ci sarebbe stato lavoro per tutti e che i mercati del lavoro avrebbero dovuto convivere con un tasso di disoccupazione/inoccupazione strutturale. Con la conseguenza che «i sistemi di sicurezza sociale si sarebbero dovuti far carico dei bisogni crescenti di coorti di individui privi dello scudo offerto dal lavoro, e da strumenti previdenziali ad essi inaccessibili, e dunque esposti sempre più al rischio di povertà» [56]. Tale situazione non è ascrivibile solo a ragioni contingenti, come la “crisi economica”, ma trova fondamento nel cambiamento del sistema produttivo e del mercato del lavoro determinato dai mutamenti tecnologici [57]. Oggi la crescita economica e la produttività non si accompagnano più ad una corrispondente crescita dell’occupazione. In un mondo in cui l’economia recita il ruolo di produttore assoluto di scopi e valori a cui sottomettere ogni anfratto della dimensione umana [58], la pura forza dell’avere succhia l’essere della persona che lavora, nel silenzio della cornice pubblica. E così, all’impresa che decentra, esternalizza, flessibilizza nella [continua ..]