Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il magistero di Mario Grandi sul rapporto tra legge e libertà sindacale e i recenti disegni di legge in materia di rappresentanza, rappresentatività, salario minimo. Una lettura critica (di Barbara de Mozzi, Professoressa associata in Diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Padova)


Nel presente lavoro si sottopongono a vaglio critico i recenti disegni di legge, in materia di rappresentanza, rappresentatività ed in materia di minimo salariale, pendenti alla Camera ed al Senato, tenendo conto degli insegnamenti e delle indicazioni che provengono dal pensiero di Mario Grandi circa il rapporto tra legge e libertà sindacale, circa il ruolo di “autogoverno” della contrattazione collettiva e circa la disciplina dei minimi salariali.

Mario Grandi’s teaching on the relationship between law and trade union freedom and the recent draft laws on representation, representativeness and minimum wage. A critical review

This paper critically examines the recent bills on representation, representativeness and minimum wage pending in the Chamber of Deputies and Senate, taking into account the teachings and indications originating from Mario Grandi’s thought on the relationship between law and trade union freedom, the “self-government” role of collective bargaining and the regulation of minimum wages.

SOMMARIO:

1. L’attualità del pensiero di Mario Grandi - 1.1. In particolare: la critica al processo di trasformazione del sindacato in un soggetto (di potere) politico o di classe - 1.2. Azione economico-sociale del sindacato e politiche salariali - 2. Lo scenario attuale: rappresentanza, rappresentatività, e minimo salariale: un cantiere aperto - 3. I disegni di legge in tema di rappresentanza e rappresentatività. Il nodo dei perimetri - 4. I disegni di legge in materia di minimo salariale: l’alternativa tra salario minimo ex lege e salario minimo determinato tramite rinvio ai contratti collettivi - 4.1. Salario minimo legale ex lege e clausole sociali - 4.2. La prospettiva di un salario minimo determinato tramite rinvio ai contratti collettivi: l’individuazione dei sindacati abilitati alla stipula del c.c.n.l. “parametro” - 4.3. “Valore-soglia” della retribuzione minima sufficiente e contratti pirata - 4.4. Le possibili ricadute positive di un intervento sui minimi - 5. Considerazioni conclusive - NOTE


1. L’attualità del pensiero di Mario Grandi

Numerosissimi sono gli scritti di Mario Grandi dedicati alla materia sin­da­cale. Ed, in effetti, scorrendo la sua biografia, leggendo i suoi scritti e leggendo i documenti sindacali della Cisl del periodo della sua collaborazione presso l’ufficio studi, si potrebbe forse dire che – in relazione biunivoca – non solo l’esperienza di Mario Grandi presso la Cisl abbia potuto avere influenza sui suoi scritti scientifici, ma anche che il pensiero di Mario Grandi abbia contribuito in certa misura alla formulazione del “pensiero della Cisl” quale, in particolare, elaborato in un primo stadio di sviluppo, nel documento del 1964, licenziato dall’associazione sindacale a fronte dei primi progetti di Statuto dei lavoratori [1]. In tale documento è condensata la posizione assunta, in tale epoca storica, dalla Cisl in materia di rapporto tra legge, contrattazione collettiva e libertà sindacale. E cioè quella della priorità del contratto rispetto alla legge, quale strumento di sostegno e di tutela dei diritti dei lavoratori [2]. Stretto è l’intreccio tra i diversi temi del diritto sindacale (anche di livello europeo) che sono al centro della riflessione di Mario Grandi. Tra questi spicca e merita particolare attenzione la proposta (poi in effetti concretizzatasi) – che traspare da vari suoi scritti di epoche successive – di un accordo quadro sulla contrattazione collettiva, nel quale la negoziazione collettiva nazionale e integrativa venisse disciplinata tramite l’individuazione di opportuni collegamenti tra i diversi livelli. Un accordo, cioè, in grado di costruire un sistema contrattuale articolato, ordinato attraverso regole concordate tra le parti, in cui il conflitto fosse (prioritariamente) governato in base all’effettiva volontà delle parti sociali stesse. Significativamente, secondo l’Autore, detto accordo quadro avrebbe dovuto affrontare questioni nevralgiche nella materia sindacale quali, in particolare, la messa a punto di “procedure per la risoluzione delle controversie” [3]; il problema dell’agente negoziale a livello aziendale; il problema dei rapporti tra di­versi livelli di contrattazione. Centrale è, in tale assetto, la prefigurazione – quali assi portanti di detto accordo – di «clausole di rinvio o di collegamento tra il livello nazionale e quello [continua ..]


1.1. In particolare: la critica al processo di trasformazione del sindacato in un soggetto (di potere) politico o di classe

Tali riflessioni si accompagnano alla denuncia, che egli fa, della marginalizzazione che invece va subendo, negli anni, l’associazionismo sindacale. Egli legge tale fenomeno quale conseguenza dell’affermazione del sindacato, sempre più, come «soggetto (di potere) politico o di classe necessitante di una rap­presentatività adeguata a questo ruolo e rafforzata dalla pratica unitaria a tutti i livelli» [20]. In sostanza, da convinto fautore delle teoriche associative-organizzative della rappresentanza, egli appare critico nei confronti delle teoriche del “potere originario” del sindacato, derivante «da una fattispecie complessa della quale deve ritenersi che l’elemento qualificante sia la stessa organizzazione» [21]; posizioni che, secondo l’Autore, sottendono una concezione “unitaria” dell’in­teresse collettivo [22], la quale presuppone una omogeneità degli interessi professionali. Vero è, tuttavia, che storicamente, tale concezione del sindacato come «soggetto di interessi collettivi propri» [23] (titolare dell’interesse sindacale), si salda e trova alimento nell’affermarsi del ruolo egemone delle confederazioni sindacali “maggiormente (e/o comparativamente più) rappresentative”, capaci di interpretare efficacemente anche interessi di altri gruppi, potenzialmente in conflitto con quelli dei propri associati. Pur a fronte dell’assunzione, da parte della contrattazione, di funzioni «regolative delegate o di rinvio che implicano la produzione di effetti di intensità e d’estensione pari a quelle dell’atto normativo o legislativo» [24], egli critica la «riduzione della rappresentanza a rappresentatività o la teorizzazione della medesima come rappresentanza politico istituzionale degli interessi collettivi» [25]. Secondo Grandi, l’associazione sindacale, quale formazione sociale entro la quale “si svolge la personalità umana”, deve – bensì – aspirare a diventare attore di primo piano rispetto ai problemi dell’organizzazione economica e sociale, sia tramite la sua azione nel campo salariale, sia attraverso un complesso di altre iniziative correlate alla natura, «complessa e multiforme della politica di sviluppo» [26], nell’ottica [continua ..]


1.2. Azione economico-sociale del sindacato e politiche salariali

Con specifico riferimento alle politiche salariali, egli richiama all’esigenza di «collegare funzionalmente i processi di contrattazione collettiva a tutti i livelli all’orientamento delle politiche economiche generali, da formulare e da attuare con il contributo attivo del sindacato» [27]. Egli individua, cioè, nel sindacato il principale artefice delle politiche di distribuzione tra i lavoratori dei benefici legati alla produttività. E vede nel sopra richiamato “accordo quadro” proprio lo strumento fondamentale per la corretta applicazione di siffatta politica salariale, sottolineando il ruolo centrale della «dimensione aziendale dell’organizzazione produttiva» quale sede effettiva di contrattazione integrativa, collegata all’efficienza dell’impresa, e quale «luogo di radicamento di un’autentica rappresentanza associativa del sindacato» [28]. Si tratta, in sostanza, della proposta di adozione di una contrattazione collettiva integrativa e, più in generale, di politiche salariali ancorate al parametro della produttività aziendale [29], poi recepita dalle parti sociali a far data dal­l’accordo del 2012. Con riferimento al tema salariale, peraltro, spicca la sua attenzione per il tema dell’opportunità di una legislazione sui minimi [30]. In merito, egli abbraccia la tesi secondo la quale un intervento pubblicistico sul punto dovrebbe realizzarsi tramite la previsione di un salario minimo intercategoriale fissato dalla legge, e la rimessione alla contrattazione articolata della previsione di aumenti legati al differenziato andamento della produttività, nei diversi settori e nelle diverse imprese. Resta fermo, cioè, che siffatta legislazione sui minimi non dovrebbe in nessun modo pregiudicare l’azione migliorativa e integrativa da parte del sindacato, in relazione al differenziato andamento della produttività. Egli si interroga, al contempo, sugli spazi per un successivo, futuro rafforzamento delle strategie di coordinamento delle attività contrattuali al livello europeo, in particolare con riferimento a quelle attività di negoziazione collettiva dirette a far sì che gli aumenti retributivi siano contenuti nei limiti del­l’aumento dei prezzi e delle produttività (pur non avendo come noto l’Unione europea competenza in materia [continua ..]


2. Lo scenario attuale: rappresentanza, rappresentatività, e minimo salariale: un cantiere aperto

Alla luce di tali premesse, ci si propone di sottoporre a vaglio critico i recenti disegni di legge, in materia di rappresentanza, rappresentatività ed in materia di minimo salariale, pendenti alla Camera ed al Senato, tenendo conto de­gli insegnamenti e delle indicazioni che provengono dal pensiero di Mario Grandi circa il rapporto tra legge e libertà sindacale, circa il ruolo di “autogoverno” della contrattazione collettiva e circa la disciplina dei minimi salariali. Si tratta, come noto, di disegni di legge di varia provenienza, di varia “consistenza” (da taluno definiti, rispettivamente, per quanto riguarda il disegno C-707 di regolamentazione “hard” e, per quanto riguarda il disegno C-788 di regolamentazione “soft” [35]) e di diverso contenuto [36]. E tuttavia, proprio là ove il legislatore sembra voler recepire in modo più esteso i contenuti – non ultimo il principio di maggioranza – di cui al t.u. 2014 (che ben può essere riguardato, per vari aspetti come l’“accordo quadro” in materia di contrattazione), soccorre l’avvertimento di Mario Grandi, secondo il quale «l’intervento di una legislazione in materia di rappresentanza sindacale modifica sostanzialmente i termini della questione, rispetto alle soluzioni accolte dagli accordi sindacali stessi» [37], portando con sé nuove criticità (non ultima di compatibilità con l’art. 39 Cost.) che è necessario indagare. Colpisce, in primo luogo, la numerosità delle iniziative legislative attualmente pendenti alla Camera ed al Senato in materia di rappresentanza, rappresentatività, minimo salariale, le quali si intrecciano con il parallelo “progredire” di ulteriori “fronti” di intervento e di riflessione nelle suddette materie. In merito a tali “ulteriori fronti” si segnalano, in particolare, sul piano del­l’autonomia collettiva, la progressiva messa a punto, ad opera delle parti sociali nazionali, in collaborazione con Inps e Cnel, di un sistema di misurazione della propria rappresentanza e rappresentatività (t.u. 2014); sul fronte legislativo, l’attribuzione – introdotta dall’art. 16-quater del d.l. n. 76/2020, convertito in legge n. 120/2020 (c.d. decreto semplificazioni) – ai c.c.n.l. di un “codice unico” [continua ..]


3. I disegni di legge in tema di rappresentanza e rappresentatività. Il nodo dei perimetri

Anche sul versante legislativo molteplici sono le iniziative sul tappeto. In merito al tema della rappresentanza e rappresentatività, ai già citati disegni hard (disegno C-707, Polverini) [52] e “soft” (disegno C-788, Gribaudo) [53], si è affiancato, alla Camera, il disegno di legge C-2198 (De Lorenzo) [54] di “attuazione” dell’art. 39 Cost., commi 2, 3, 4. Tale ultimo disegno abbraccia la via – a dir poco impervia – di un’integrale attuazione dell’art. 39, comma 2 ss., Cost., accompagnata da un’improbabile riscrittura “a tavolino” [55] dell’intero sistema delle relazioni industriali, sedimentatosi all’ombra della “pietra” di un ultrasettantennale convitato [56]. Non sembra, qui, possibile, entrare nel merito di ciascuna delle iniziative di legge attualmente pendenti davanti ai due rami del Parlamento, nelle quali sono variamente affrontati (o invece elusi) i nodi, tra l’altro, della misurazione della rappresentatività, latere datoris; quello, strategico anche ai fini del raccordo tra livelli negoziali, di come ridisegnare le rappresentanze sui luoghi di lavoro; il nodo del criterio maggioritario, quale regola di soluzione del conflitto. Tale criterio, si è detto, per quanto estraneo alla nostra tradizione sindacale può, bensì, essere volontariamente accolto dalle parti sociali, ma non potrebbe essere “fatto proprio” dal legislatore, senza violare il principio costituzionale di libertà “di organizzazione” sindacale. Quest’ultimo impone, infatti, che i rapporti tra i sindacati stessi siano riservati alle loro libere ed autonome determinazioni [57]. Ed ancora, i disegni affrontano il nodo – ricorrente, ma oggetto di «generale indifferenza e diffidenza» [58] – della partecipazione (art. 46 Cost.). Centrale è, però, tra tutti, il nodo dei perimetri [59]: come ricordato dallo stesso Mario Grandi, «l’autonomia sindacale si manifesta … nella libertà di deter­minazione dell’area di rappresentanza e dei soggetti da rappresentare» [60], sicché non è possibile definire «una volta per tutte, in via preventiva… con norma di legge» l’ambito di applicazione dei contratti [continua ..]


4. I disegni di legge in materia di minimo salariale: l’alternativa tra salario minimo ex lege e salario minimo determinato tramite rinvio ai contratti collettivi

Scaduta la delega di cui alla legge n. 183/2014 [72] (che aveva adottato la prospettiva “minimale” di un intervento normativo limitato ai soli settori «privi di copertura contrattuale»), anche sul fronte del “salario minimo” si conta, allo stato, una pluralità di disegni di legge, la cui discussione appare variamente arenata nelle Commissioni parlamentari [73]. Come noto, due sono le possibili opzioni “di base” in materia di “salario minimo”: «un compenso orario minimo determinato per legge, oppure un salario minimo legale mediante rinvio ai contratti collettivi» [74]. Parte degli interpreti immagina un salario minimo legale, eventualmente differenziato in base a macro­aree geografiche, strutturato in modo tale da integrare, esso stesso, l’unitario canone costituzionale della proporzionalità e sufficienza e tenere conto delle compatibilità economiche e potenzialità dei singoli settori; e tale, dunque, da delegittimare la contrattazione collettiva quale “parametro” privilegiato di riferimento. Siffatta opzione (introduzione di un salario minimo legale «soglia» integralmente attuativo, esso stesso, dell’art. 36 Cost.) costituirebbe, sì, un antidoto all’attuale soggettivismo giudiziario nella determinazione nei minimi, un concreto aiuto alle imprese «in crisi» e «sottomarginali» e, al contempo, alle fasce più deboli e sottorappresentate di prestatori. Essa, tuttavia, pone, in primo luogo, delicati problemi circa l’esatta determinazione degli importi [75]: se fissato a livelli adeguati, detto salario minimo «assicura una vita dignitosa ai lavoratori, contribuisce a sostenere la domanda interna, rafforza gli incentivi al lavoro ... riduce la povertà e la disuguaglianza tra i lavoratori … sostiene anche la parità tra i sessi», posto che una percentuale più alta di donne, piuttosto che di uomini percepiscono una retribuzione che si aggira attorno ai minimi stessi; [76] al contrario, un “minimo” di importo troppo elevato rischierebbe di deprimere la domanda di lavoro (regolare), mentre un importo troppo basso non solo non rappresenterebbe un’adeguata garanzia di condizioni di vita dignitose [77], ma potrebbe innescare da parte imprenditoriale una «fuga» dal [continua ..]


4.1. Salario minimo legale ex lege e clausole sociali

L’introduzione di una legislazione sui «minimi tariffari» attuativa del precetto di cui all’art. 36 Cost. attestata ad un livello inferiore rispetto a quello attualmente previsto dalla contrattazione collettiva non potrebbe, peraltro, andare disgiunta da una revisione di quelle «clausole sociali» che, attualmente, condizionano la partecipazione ad un appalto pubblico all’appli­cazione da parte dell’appaltatore del contratto collettivo nei confronti dei dipendenti. Pena, altrimenti, la certa sottoposizione delle imprese italiane al rischio di dumping sociale da parte delle imprese stabilite in un diverso Stato membro. In sostanza, se venisse introdotto il salario minimo legale attuativo dell’art. 36 Cost. e non venisse rivisto anche il sistema delle clausole sociali, l’impresa stabilita in un diverso Stato membro potrebbe vantare per effetto del principio di libera prestazione di servizi (art. 56 TFUE) il diritto di partecipare ad un appalto pubblico in Italia applicando ai propri dipendenti unicamente le tariffe minime ex lege (a differenza dell’impresa italiana, tenuta all’integrale rispetto delle clausole sociali e cioè delle superiori tariffe «minime» parametrate ai contratti collettivi di lavoro. Si veda, in tal senso, la costante giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui subordinare l’esercizio della libera prestazione di servizi a tutte le condizioni, ancorché «indistintamente applicabili», previste per lo stabilimento, può costituire una violazione dell’art. 56 TFUE, salvo che, appunto, si tratti di «misure imperative di interesse generale», nel rispetto del test di necessità e proporzionalità (Corte giust., Webb, 17.12.1981, C­279/80): una volta che si ammetta che il minimo salariale ex lege assolva pienamente alla funzione di garantire ai dipendenti il corrispettivo «adeguato», non vi sarebbe, però, spazio per fondare su tale esimente l’applicazione alle imprese straniere (anche) degli (ex) minimi contrattuali [79].


4.2. La prospettiva di un salario minimo determinato tramite rinvio ai contratti collettivi: l’individuazione dei sindacati abilitati alla stipula del c.c.n.l. “parametro”

La prospettiva di un salario minimo legale è, ad oggi, quella accolta dal disegno di legge C-310 [80], poi “assorbito”, nella discussione parlamentare, dal testo base del diverso disegno di legge C-658. Più ricco è il fronte dei disegni di legge che propongono, invece, un salario minimo legale definito mediante rinvio ai contratti collettivi, variamente combinando intervento legislativo e contrattazione. In sostanza, in tale prospettiva, accolta anche da parte della dottrina [81], sarebbe determinato un salario minimo orario intercategoriale rispondente al canone di sufficienza e (in un rapporto di stretta complementarietà) un salario minimo contrattuale, differenziato nei diversi settori, cui spetterebbe di dare voce al, diverso, canone costituzionale della proporzionalità (in particolare) alla «qualità» del lavoro [82]. La strada è, qui, quella di «operare sui livelli salariali fissati dalla contrattazione di categoria, prendendoli a riferimento come garanzia salariale minima ex art. 36 Cost.» [83]. Naturalmente varie sono le possibili opzioni per realizzare siffatto “mix” [84]. Tra quelle attualmente “sul tappeto” merita particolare menzione il disegno di legge Catalfo (C-658) [85]. Tale disegno si affida, per la determinazione della retribuzione “proporzionata e sufficiente”, ad una combinazione tra fonte legale e fonte negoziale: esso da un lato, prevede «un minimo orario garantito da intendersi come barriera rispetto ai sottosalari della c.d. contrattazione pirata e al dumping sociale; dal­l’altro, assicura un livello retributivo proporzionato (oltre che sufficiente) ex art. 36, co. 1 Cost., secondo il parametro stabilito dal c.c.n.l. in vigore per il settore» [86]. Tale soluzione sarebbe diretta a disincentivare le tentazioni imprenditoriali di “fuga dal contratto collettivo” scongiurando il rischio che la giurisprudenza «possa identificare la giusta retribuzione ex art. 36 Cost. con l’importo direttamente fissato per legge» [87]. Cruciale è, in tale disegno, l’individuazione dei sindacati abilitati alla stipula del c.c.n.l. “parametro”: nodo che viene “sciolto”, in prima battuta, facendo riferimento ai sindacati più rappresentativi, rappresentati al Cnel e, in seconda [continua ..]


4.3. “Valore-soglia” della retribuzione minima sufficiente e contratti pirata

Ciò non toglie che – ragionando attorno al significato del disegno di legge c.d. Catalfo (e, ancor più, ragionando in linea generale, de jure condendo, in ordine alla disciplina di un salario minimo) – la tesi di gran lunga preferibile sia proprio quella che ammette che ciascuno dei contratti collettivi (in ipotesi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi) che si situi “sopra la soglia” del “salario minimo legale” sia idoneo ad integrare il “parametro” per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente. In tale prospettiva, la “soglia” legale (destinata comunque ad essere integrata dal “salario contrattuale” nella determinazione della retribuzione “proporzionata e sufficiente” ex art. 36 Cost.) dovrebbe situarsi ad un livello tale da escludere in sostanza solo i contratti collettivi “genuinamente pirata”. Tale opzione (rimessione della retribuzione minima e sufficiente non già ad un unico contratto c.d. leader bensì alle scelte operate da associazioni sindacali genuine, sia pure, in ipotesi, selezionate secondo il parametro della maggiore rappresentatività) sdrammatizzerebbe, naturalmente, gli ulteriori nodi relativi alla “selezione” dei contratti [93], alla comparazione degli ambiti, ai rapporti tra contratti collettivi di diverso livello ecc. Ed analoghe considerazioni (sull’opportunità di un intervento minimalista, che salvaguardi il pluralismo contrattuale) sembra possano essere tenute ferme, anche nella prospettiva, che pare oggi farsi strada, del parziale accantonamento del c.d. progetto di legge Catalfo e dell’adozione [94] di un nuovo disegno di legge, diretto a garantire «una maggiore adeguatezza dei livelli di reddito attraverso l’ancoraggio della detassazione dei rinnovi contrattuali dei c.c.n.l. all’introduzione di un salario minimo orario modulato dalla contrattazione collettiva, nonché mediante il sostegno della contrattazione di secondo livello quale strumento per accrescere la produttività a livello aziendale e riconoscere ai lavoratori benefici contrattuali ed economici come premio per i risultati raggiunti» [95]; disegno accompagnato – tra l’altro – dal (consueto) impegno programmatico ad un rafforzamento degli enti preposti alla vigilanza.


4.4. Le possibili ricadute positive di un intervento sui minimi

Quale che sia il contenuto del nuovo disegno di legge, si potrebbe, naturalmente, obiettare che qualsiasi intervento “minimalista” (che rimettesse la determinazione dei minimi non già ad un contratto c.d. leader bensì alle scelte operate da associazioni sindacali genuine, sia pure adottando una “soglia minima legale”) si tradurrebbe in una mera salvaguardia dello status quo e risulterebbe, pertanto, inidoneo a contrastare il sopra richiamato soggettivismo giu­diziale, nella determinazione dei minimi. E tuttavia (anche tenuto conto della ipotizzata approvazione, a breve, di una direttiva europea in tema di salari minimi) tale intervento parrebbe, invece, avere una apprezzabile utilità. Non solo esso potrebbe coniugarsi con un insieme di misure dirette – da un lato – a «promuovere la costruzione e il rafforzamento della capacità delle parti sociali di impegnarsi nella contrattazione collettiva» [96] anche quale sede privilegiata per la distribuzione degli incrementi di produttività [97] e – dall’altro – a rafforzare i controlli e le ispezioni in ordine all’effettiva applicazione dei contratti collettivi. Ma esso svolgerebbe un ruolo chiarificatore in ordine all’identificazione dell’“impresa illecita” – «che punta sul contenimento estremo dei prezzi» [98]. Esso sarebbe, cioè, idoneo a mettere direttamente fuori gioco gli accordi “sotto-soglia”. È ben vero che, anche al netto di un intervento legislativo, detti accordi (largamente distonici dai valori medi contrattuali) appaiono stipulati da soggetti che, «in carenza di una effettiva politica rivendicativa…non avreb­bero natura di sindacato» [99]. Cionondimeno, l’intervento del legislatore renderebbe meno impervia l’opera dei prestatori di lavoro, o degli ispettori chiamati a sconfessare, in giudizio, dette pattuizioni. Un siffatto intervento legislativo – diretto unicamente ad inverare l’art. 36 Cost., nel pieno rispetto del pluralismo sindacale – non postulando la “selezione” di un unico contratto collettivo leader ben potrebbe accantonare, momentaneamente, le ulteriori questioni sul tappeto (prima fra tutte, quella dei perimetri), invece ineludibili nella prospettiva di un intervento ad [continua ..]


5. Considerazioni conclusive

Dispiace, bensì, che sia venuta meno quella capacità di “autoregolamentazione informale” degli attori sindacali e siano entrati in crisi quei «valori di autoregolazione sociale alla base dell’ordinamento intersindacale» [100], che ave­vano rappresentato un’alternativa all’attuazione dell’art. 39, commi 2, 3, 4, Cost. [101]; e ci si può forse chiedere se ciò sia dovuto, in parte, al fatto che il sindacato non ha ascoltato il monito a non farsi sempre più «soggetto (di potere) politico o di classe» [102] e a non abdicare alla “rappresentanza” in favore della “rappresentatività”; al non aver (il sindacato) saputo (o forse voluto) «dare risposte articolate» [103] ai nuovi bisogni emergenti tra i lavoratori, sempre più differenziati e sempre meno rispondenti a logiche solidaristiche – o quantomeno rispondenti a «nuovi e inediti processi di aggregazione degli interessi» [104] – come attesta la recentissima vicenda del contratto collettivo dei “riders” [105], che ha visto CGIL, CISL e UIL incapaci di proporre una seria alternativa all’integrale riconduzione di tali prestatori all’alveo della “logistica”, e cioè di adattare «specifici contenitori di rappresentanza fuori dalle categorie merceologiche tradizionali» [106]. Nel mutato contesto occorre, però, prendere atto di come il tentativo delle parti sociali (in particolare, tramite il t.u. 2014) di continuare a “governare … con discipline autonome” (sia pure cedendo, sempre più, alla tentazione di invocare un “sostegno” eteronomo a tali regole) possa rappresentare – comunque – un’alternativa alla “pervasiva ‘giudiziarizzazione’ del nostro diritto del lavoro” [107], efficace nella misura in cui si addiverrà (quantomeno) ad una “condivisione” di tali regole, nel senso di una accettazione dei relativi meccanismi, e ad una loro leale applicazione. Da sostenere, eventualmente, tramite l’antica ricetta di un ritorno ad una politica di allargamento delle adesioni e di recupero della democraticità interna associativa. Quanto alla questione se il sopra richiamato “sovraccarico” di funzioni, ed in specie il [continua ..]


NOTE
Numero straordinario - 2020