L’articolo – che rielabora e amplia l’intervento svolto dall’autore nel convegno “Il pensiero del Prof. Mario Grandi e la sua attualità”, organizzato in data 27 novembre 2020 dall’Università degli Studi di Parma – esamina, da un punto di vista proprio del diritto del lavoro, due tra le principali tematiche emerse negli ultimi anni con riferimento all’evoluzione dell’Unione Europea. Da un lato la Brexit: il contributo analizza il possibile impatto dell’uscita dalla Ue in quell’ordinamento nonché dà conto delle principali norme lavoristiche contenute nell’Accordo di commercio e cooperazione tra Unione europea e Regno Unito del dicembre 2020; dall’altro il lento ma inevitabile processo di integrazione economica e politica dell’Ue verso i paesi dei Balcani, approfondendo lo stato dell’arte degli ordinamenti lavoristici di alcuni dei paesi coinvolti.
The paper – which amplifies the author’s speech in the conference “The thought of Prof. Mario Grandi and its current relevance”, organized on 27th November 2020 by the University of Parma – examines, by a labour law point of view, two of the main issues that have recently concerned the evolution of the European Union. On the one hand, Brexit; the paper analyzes the possible impact of this event in the UK legal system and considers the main labour standards contained in the EU-UK Trade and Cooperation Agreement of December 2020. On the other hand, the article looks at the slow but inevitable process of economic and political integration of the EU towards the Balkan countries; in this perspective, the author pays attention to the state of the art of labour law systems of some of the countries involved.
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1. Introduzione: l’attualità di una dicotomia - 2. Nazionalità del diritto del lavoro e irreversibilità del processo di integrazione - 3. La Brexit: tra politica e diritto (del lavoro) - 4. L’accordo di commercio e cooperazione tra Unione europea e Regno Unito del dicembre 2020: un primo approfondimento - 5. Il processo di allargamento ai Balcani occidentali - 5.1. L’Albania - 5.2. La Serbia - 5.3. Il Montenegro - 5.4. La Macedonia del Nord - 6. Una nuova Ue dopo la pandemia? - NOTE
All’interno della ricca opera scientifica del Prof. Mario Grandi, ho scelto di confrontarmi con un contributo apparentemente minore (o meglio che tale può essere considerato soltanto qualora si faccia proprio un giudizio basato sul dato “quantitativo”, concernente il numero di pagine e battute) ma che, in realtà, appare paradigmatico dell’attualità del Suo pensiero. Il saggio «Il diritto del lavoro europeo. Le sfide del XXI Secolo», apparso nel 2007 sul numero 4 della rivista Diritto delle Relazioni Industriali, ben introduce fin dal titolo l’approfondimento dell’A. in ordine alle sfide che attendevano – rectius, attendono – il diritto del lavoro nel secolo che stiamo vivendo. In sede introduttiva volevo condividere alcune sollecitazioni metodologiche che ritengo particolarmente utili nell’analisi giuridica di alcuni eventi epocali (aggettivo che va utilizzato con parsimonia ma non credo sia affatto esagerato, nel caso concreto) che hanno caratterizzato i recenti sviluppi della Ue, sui quali mi concentrerò nel corso del mio contributo. La dizione «diritto del lavoro europeo» non è così inusitata in dottrina ma il prof. Grandi ne valorizza la polisemia, vale a dire la duplice accezione, non sempre tenuta in debita considerazione, che la dizione reca con sé: «da un lato, il “diritto del lavoro europeo” designa il diritto degli ordinamenti del lavoro degli Stati membri dell’Unione Europea (il diritto del lavoro nell’Unione Europea); dall’altro, con questa formula, si intende il diritto del lavoro comunitario [uni-europeo più propriamente oggi, sebbene tale nome non susciti consensi unanimi n.d.a.] cioè il diritto del lavoro risultante dalle norme dei Trattati, dalle norme derivate e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (il diritto del lavoro dell’Unione Europea)» [1]. Partendo e valorizzando questa dicotomia l’obiettivo del presente contributo è quello di analizzare lo stato dell’arte di due ben distinti fenomeni, in un certo senso uguali e contrari, che evidentemente intrecciano questo duplice aspetto: da un lato la tanto discussa Brexit, dall’altro il lento ma inesorabile (per quanto spesso misconosciuto) processo di integrazione economica e politica il quale, sebbene a rilento, procede [continua ..]
Occorre preliminarmente contestualizzare il periodo nel quale il Prof. Grandi scriveva, caratterizzato da due rilevanti questioni che – in maniera differente – hanno influenzato notevolmente il successivo sviluppo del Diritto dell’Ue, che qui brevemente si richiamano, per fornire una cornice entro la quale si è collocato il contributo dell’A.: (i) era stato appena pubblicato il cd. Libro Verde della Commissione che aveva dato il la a un ampio dibattito, che aveva visto peculiarmente coinvolte quasi tutte le istituzioni europee, sulla cosiddetta flexicurity [2]: dibattito che se vogliamo non è ancora sopito e ha caratterizzato gran parte degli anni a venire, come ben noto, ma che da un punto di vista più strettamente giuridico, almeno in quella prima fase, non aveva condotto alla produzione di norme vincolanti bensì soltanto alla predisposizione di una pluralità di documenti ampiamente intesi (qui il termine documenti è volutamente ampio ed “atecnico”); (ii) il quadro politico-istituzionale dell’epoca era caratterizzato da una situazione di sostanziale impasse provocato dall’onda lunga della vittoria dei “no” nelle consultazioni referendarie svoltesi in Francia e Paesi Bassi (maggio/giugno 2005) alla ratifica, in quei paesi, della Costituzione europea (rectius, e non appaia solo una questione di forma, il titolo corretto, era formulato in maniera più ambigua: “Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa”, e del resto ibrida era anche l’essenza giuridica della Ue risultante da quel tentativo poi naufragato). Probabilmente non si sbaglia se, alla luce degli eventi successivi, tentando una quantomai provvisoria storicizzazione, si considera quell’(all’epoca) inatteso e brusco stop come la fine di una certa narrazione della Ue. Fino a quel momento infatti vi era un consenso molto alto, anche da parte dell’opinione pubblica, in quelle che parevano essere le «magnifiche sorti e progressive» delle istituzioni europee. Del resto – a voler semplificare oltremodo – l’Unione monetaria (da un punto di vista istituzionale) e, guardando alla legislazione sociale propriamente intesa, il successo del dialogo sociale alla fine degli Anni Novanta parevano comprovare tale giudizio. La dicotomia sopra riportata – diritto del lavoro [continua ..]
Da oltre dieci anni, la storia della Ue è caratterizzata da una sorta di crisi permanente, «in cui una nuova crisi ricomincia prima che la precedente possa dirsi effettivamente conclusa» [4]: si pensi alla cd. crisi del debito sovrano, onda lunga della crisi del 2008; alla celebre lettera della Bce all’esecutivo italiano dell’agosto 2011 che di fatto ha dettato alcuni punti programmatici che come ben noto interessavano direttamente il diritto del lavoro. Per tacere in questa sede della crisi greca, con il commissariamento di fatto da parte della cd. Troika, che ha visto il paese ad un passo dalla fuoriuscita dall’area Euro [5]. Molto è stato scritto sulla nuova governance economica della Ue [6] e tale nuovo assetto “costituzionale” è stato altresì oggetto di indagine da parte dei giuslavoristi [7]. Ma gli eventi degli ultimi anni hanno messo in discussione quello che sembrava un dogma, anche nel momento non troppo distante nel tempo nel quale scriveva il Prof. Grandi, id est la irreversibilità del processo di integrazione? Ci si riferisce, evidentemente, in primo luogo alla c.d. Brexit [8]. Sebbene un po’ sparita dai radar dell’opinione pubblica, stante le altre emergenze che hanno caratterizzato il 2020, a tre anni e mezzo di distanza dal referendum consultivo del giugno 2016 che ha visto il prevalere dei voti favorevoli all’uscita dalla Ue [9], è infine entrato in vigore, il 1º febbraio 2020, l’accordo [10] che definisce le modalità di recesso del Regno Unito dall’Unione europea. Un fenomeno spesso accomunato nelle analisi alla coeva vittoria di Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, nonché all’affermazione, nelle elezioni politiche di vari stati europei, di forze variamente intese quali populiste [11], il voto britannico è stato letto quale una sorta di riaffermazione dello Stato nazione [12] di fronte agli esiti della globalizzazione, intesa sia in senso economico che nell’ottica politica di una maggiore integrazione tra Stati (che di conseguenza determina una quantomeno parziale diminuzione della sovranità di ciascuno) come nel caso dell’Unione europea. Si tratta evidentemente di un tema di enorme portata, che ha caratterizzato il decennio appena concluso sotto il profilo [continua ..]
Quando questo contributo era in avanzata fase di redazione è intervenuto l’auspicato accordo tra Ue e Regno Unito, raggiunto soltanto il 24 dicembre 2020 [29]. Si tratta di un testo dal contenuto molto articolato, di oltre milleduecento pagine, e in questa sede se ne potrà evidentemente fornire soltanto una prima lettura [30]: ad aver impegnato a fondo i negoziatori sono stati «i diritti di pesca, le regole sugli aiuti di stato e la governance dell’accordo» [31]. Punto centrale del trattato è la decisione per cui gli scambi di merci tra le parti rimangono liberi e non soggetti a quote né a tariffe, prevedendosi altresì una serie di disposizioni tendenti a una semplificazione degli stessi, ad es. per il tramite di meccanismi di autocertificazione dell’origine delle merci nonché ulteriori facilitazioni, per alcuni specifici settori quali quello vinicolo, dei prodotti biologici, nonché per il settore automobilistico e quello chimico e farmaceutico. È opportuno sottolineare che alcune rilevanti conseguenze determinatesi a partire dal 1º gennaio 2021, ad esempio, in merito alla non più libera circolazione dei lavoratori, uno dei principi fondamentali sui quali si è innestato l’intero impianto già comunitario, a partire dal Trattato di Roma del 1958 ad oggi, non sono attribuibili all’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione qui in commento (di seguito anche TCA, con l’acronimo in lingua inglese) bensì rappresentano effetti voluti (e anzi, cercati) della stessa procedura di recesso azionata dal Regno Unito. Pertanto i cittadini della Ue – similarmente a qualunque altro cittadino di un paese terzo – che vogliano recarsi nel Regno Unito, per motivi di lavoro, dovranno presentare una richiesta di visto la quale verrà valutata «sulla base di un sistema a punti rigoroso: quasi il 40% dei punti dipende dall’avere un’offerta di lavoro da un datore britannico, e un altro 18% dal fatto che lo stipendio superi le 25.600 sterline l’anno. Il tutto peraltro a un costo piuttosto elevato: tra i 1.300 e i 2.300 euro per domanda» [32]. Con specifico riferimento alle regole lavoristiche le stesse entrano in gioco in una logica economicistica che è propria dei trattati di libero scambio, vale a dire nella misura in cui – [continua ..]
Con riferimento invece alla seconda parte del saggio, si tratta, come sopra accennato, di riportare sebbene in maniera estremamente sintetica, lo “stato dell’arte” dei Paesi ufficialmente candidati all’ingresso nell’Unione europea con precipuo riferimento a uno dei ben 35 “capitoli” attraverso i quali viene analizzato il paese candidato e che sono poi oggetto dei negoziati ufficiali di adesione, vale a dire il capitolo 19 riassunto con la dizione “Social policy and employment”. Sia per motivi di sintesi che di facilità nella comparazione tra ordinamenti differenti, si prenderà quale punto di partenza l’annuale Report “generale” posto in essere dalla Commissione nonché i singoli Report per ciascun paese candidato, aggiornati al 2020 [42]. I paesi che hanno ufficialmente lo status di candidati sono la Turchia, il Montenegro, la Serbia, la Repubblica di Macedonia del Nord e l’Albania. Negoziati e capitoli di adesione sono già stati avviati con i primi tre paesi. Il 24 marzo 2020 i ministri degli Affari europei hanno dato il loro accordo politico all’apertura dei negoziati di adesione con l’Albania e la Repubblica di Macedonia del Nord. Per quanto riguarda il Kosovo e la Bosnia-Erzegovina essi sono potenziali paesi candidati. In chiave geo-politica dunque l’area che guarda con maggiore interesse ad un futuro ingresso nella Ue è quella dei Balcani occidentali, anche in considerazione del fatto che in realtà il processo di adesione della Turchia è da anni congelato, anche per via della torsione autoritaria in corso in quel paese, almeno a partire dal tentativo di colpo di stato del 2016. Nel corso del saggio approfondiremo pertanto la situazione dei paesi appartenenti a quell’area geografica che hanno già lo status di candidati. Si tratta di ordinamenti che evidentemente hanno ciascuno la propria specificità ma accomunati dal fatto che – utilizzando una nozione che ormai possiamo considerare risalente ma che non ha perso del tutto la sua evocatività – si tratta di economie in transizione, dalla pianificazione [43] al libero mercato il quale, anzi, e la cosa non deve sorprendere più di tanto, in quei contesti si esplica in modalità che potremmo definire virulente [44].
Oggetto di particolare analisi del report della Commissione europea con riferimento all’Albania è la recente modifica del Codice del lavoro (Kodi I Punës) del 2016 che sconta un deficit di effettività tanto che si auspica che la sua concreta attuazione sia oggetto di un più incisivo monitoraggio, anche da parte degli apparati ispettivi di quel paese, che andrebbero potenziati. Senza che in questa sede sia possibile un approfondimento specifico nel merito del contenuto dello stesso, basti dire che vi sono dei significativi avvicinamenti alla legislazione uni-europea. Un esempio su tutti che va in questa direzione è l’introduzione, per la prima volta in quell’ordinamento, del lavoro temporaneo tramite agenzia di lavoro interinale, come previsto dalla direttiva 2008/104/CE. Ma persistono numerose criticità, che così possono essere riassunte. L’economia informale rappresenta una quota davvero significativa del mercato del lavoro albanese, con un tasso di occupazione pari al 30% (e il dato è ancora più significativo se consideriamo che è stato “depurato” dal settore agricolo). Secondo i dati dell’ispettorato del lavoro le percentuali più alte di occupazione informale si hanno nel settore del commercio (oltre il 42%), manufatturiero (circa il 17%) e quello dell’edilizia (16,6%). In materia di salute e sicurezza sul lavoro, l’Albania ha compiuto progressi sul quadro giuridico «with the adoption of most of the legislation transposing the EU Framework Directive on health and safety at work» (Report Albania 2020 p. 89) ma l’attuazione e l’applicazione della legislazione rimane problematica, soprattutto in due dei principali settori produttivi del paese vale a dire quello calzaturiero/tessile e quello minerario. Infine il tema del ruolo delle organizzazioni sindacali e, più nello specifico, del dialogo sociale [45] che resta estremamente debole per una pluralità di ragioni che il report così riassume: «due to insufficient experience of trade unions, lack of a culture of dialogue, as well as employers’scepticism towards the trade unions». Anche con riferimento all’effettività dell’azione collettiva questa [continua ..]
Con riferimento alla Repubblica di Serbia, il report evidenzia come quell’ordinamento giuslavoristico – da ultimo modificato da una riforma del 2014 – sia solo parzialmente allineato con l’acquis dell’Ue. Soltanto da ultimo, nel dicembre 2019, è stata adottata una normativa in tema di lavoro temporaneo tramite agenzia mentre si è ancora in attesa di una nuova legge sul diritto di sciopero [47]. Anche in quel paese l’impatto del lavoro informale è elevato (pari a circa il 18%) e le attività di contrasto degli organismi ispettivi non hanno avuto sul punto un impatto significativo, e sul punto le annotazioni del Report sono decisamente critiche: «The law on inspection oversight needs to be amended to comply with the relevant International Labour Organisation Conventions that were ratified by Serbia, notably to ensure that labour inspectors are empowered to enter workplaces freely and without giving notice» (Report Serbia 2020, p. 95). In tema di salute e sicurezza sul lavoro vi è un progetto di legge “generale” che ancora non è stato approvato (mentre il legislatore è intervenuto in un ambito più settoriale, id est una normativa ad hoc per il lavoro davanti a video terminali e per i lavori che prevedono esposizione al lavoro e alle vibrazioni); lo scorso anno ha segnato un record di infortuni mortali sul lavoro, specialmente nel settore dell’edilizia: «this was linked to a sharp increase in the number of construction sites, but also to the lack of enforcement of the health and safety legislation in place». Ultimo aspetto oggetto di analisi da parte del Report della Commissione è il dialogo sociale. In quel paese il quadro giuridico entro il quale esso dovrebbe esplicarsi è molto debole, così come debole risulta l’incisività dell’autonomia collettiva almeno nel settore privato, in amplissimi settori sfornito della copertura dei contratti collettivi.
Il report con riferimento alla Repubblica del Montenegro valorizza in special modo l’adozione della legge di riforma del lavoro, entrata in vigore nel gennaio 2020: si tratta di una riforma strutturale che, ad avviso della Commissione Ue, attua positive modifiche in tema di licenziamenti, contratti a tempo determinato (il termine massimo passa da 24 a 36 mesi), orario di lavoro (nel tempo pieno si introduce un meccanismo del tutto similare all’orario multiperiodale mentre il contratto part time non può prevedere meno di 10 ore alla settimana), nonché sanzioni in tema di lavoro informale. Si tratta di tematiche che – insieme alla legislazione antidiscriminatoria – rappresentano punti focali nell’allineamento di quell’ordinamento all’acquis comunitario e pertanto la sua concreta attuazione necessiterà di un rigoroso monitoraggio. In tema di salute e sicurezza il Montenegro ha istituito un centro nazionale che si occupa di riabilitazione dei lavoratori infortunati ma il Report lamenta una eccessiva suddivisione delle competenze in materia, tra più enti, che rende meno efficace la prevenzione e l’effettività della disciplina. Con riferimento al mercato del lavoro si evidenziano alcuni punti critici sui quali il governo deve concentrare gli sforzi: il tasso di disoccupazione, particolarmente elevato, nonché più in generale il tema della parità di trattamento tra uomo e donna.
Con riferimento alla Macedonia – meglio, alla Repubblica della Macedonia del Nord (e la questione del nome non è affatto neutra ai fini di un futuro ingresso nella Ue, stante la diatriba diplomatica risolta soltanto da ultimo con la Grecia) – il report evidenzia alcuni progressi di quell’ordinamento con riferimento alla riduzione del tasso di disoccupazione e all’allargamento dei beneficiari di alcuni istituti dell’assistenza sociale: in modo particolare è stato implementato con un certo successo il programma Youth Guarantee. In tema di legislazione lavoristica quell’ordinamento fornisce una adeguata protezione in caso di licenziamento ma con riferimento ad altri istituti lavoristici l’attuazione delle norme continua a essere in ritardo. È inoltre in corso in quel paese una consultazione sul nuovo diritto del lavoro e sono stati proposti emendamenti alla legge sul salario minimo, che prevedono un aumento costante dello stesso, con lo scopo di rilanciare l’economia attraverso i consumi privati. Anche con riferimento a questo ordinamento nazionale, in tema di salute e sicurezza sul lavoro si segnalano debolezze strutturali nell’effettività di quelle norme e l’autonomia collettiva, soprattutto nel settore privato, resta poco incisiva e al contempo decresce anche il tasso di sindacalizzazione.
Anche a una sintetica analisi dei paesi balcanici summenzionati, tutti ufficialmente candidati all’ingresso nella Ue, pur nella specificità di ciascuna legislazione nonché delle sottese peculiari situazioni sociali ed economiche degli stessi, possono cogliersi alcuni tratti comuni, tutti già evidenziati nei documenti della Commissione europea, che così possiamo riassumere: (i) criticità in ordine all’effettività della legislazione lavoristica, specialmente in tema di salute e sicurezza; (ii) elevata incidenza dell’economia sommersa o informale e scarsità di strumenti atti a contrastare il fenomeno; (iii) debolezza intrinseca dell’azione sindacale, la quale è insufficientemente sostenuta dal decisore politico nell’ambito del dialogo sociale, e che si concretizza anche in una scarsa copertura di amplissimi settori produttivi privati della disciplina dei contratti collettivi. È evidente che l’ammissione alla Ue passa da numerosi ordini di valutazioni – non tutte strettamente di natura giuridica – ma in conclusione non possiamo omettere un ulteriore dato. Vero è che il trattato sul funzionamento dell’Unione non conferisce alla stessa competenze in materia di salari e retribuzione, ma anche alla luce di come fu gestito il primo ampliamento ad Est non appare superfluo evidenziare come gli ordinamenti analizzati presentino un costo del lavoro decisamente inferiore rispetto alla media degli attuali membri [48], sebbene non così lontano da quello relativo agli altri Stati di recente ammissione. In conclusione, entrambi i fenomeni – uguali e contrari, di uscita e ambizione all’ammissione nella Ue – assumono un’altra prospettiva alla luce dell’emergenza epidemiologica e alle conseguenze di carattere economico e sociale [49]. In maniera diversificata fin dalle prime settimane di emergenza sanitaria sono state prese rilevanti decisioni di carattere economico e finanziario: su queste ovviamente il giudizio giuridico è “sospeso” visto che stiamo parlando di cronaca di queste settimane. In ogni caso, in estrema sintesi, si ricordi come già nei primi mesi del 2020 si è ricorsi alla clausola di salvaguardia: ciò costituisce un unicum, che congela ma non modifica, ovviamente, i parametri del patto di stabilità e crescita [continua ..]