Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Processo del lavoro: a che punto siamo (di Michele Miscione, Già Professore ordinario di Diritto del lavoro dell’Università di Trieste)


Forse, senza volerlo né saperlo, il legislatore dei primi anni ’70 ha lasciato un’eredità, sempre difficile e solo apparentemente semplice: per far applicare le leggi non c’è bisogno di altre leggi, basta volerlo. Il legislatore degli anni ’70, dello Statuto dei lavoratori e del Processo del lavoro, ha espresso volontà per un mondo che effettivamente cambierà ma con progetto ancora incompiuto. Un rendiconto del Processo del lavoro, dopo quasi cinquan­t’anni dalla sua nascita, mostra carenze ed inevitabili tensioni, ma senza necessità di interventi salvificatori della legge, perché basta applicare le leggi che ci sono già o tutt’al più porre o auto-porre “norme leggere”. Lo studio, ripercorrendo le origini con il divenire, evidenzia la rottura posta dalla “legge Fornero” n. 92/2012, che, seppur solo per i licenziamenti, ha indicato la via per rendere più veloce il processo senza rischio di eliminare o limitare i diritti, con spirito accolto ma da generalizzare per eliminare il vizio più grande, che è quello dei ritardi, che danneggia e rende ingiusto il processo.

Labour proceedings: the current situation

Perhaps, without wanting or knowing it, the legislator of the early 70s left a legacy, always difficult and only apparently simple: to enforce the laws there is no need for other laws, just wanting to. The legislator of the 1970s, of the Workers’Statute and of the Labor Process, expressed its will for a world that will actually change but with an unfinished project. A report of the Labor Process, almost fifty years after its birth, shows shortcomings and inevitable tensions, but without the need for saving interventions of the law, because it is enough to apply the laws that are already there or at most to lay or self-lay “soft laws”. The study, retracing its origins with the process of becoming, highlights the breakdown of the “Fornero law” 92/2012, which, albeit only for layoffs, has shown the way to speed up the process without risk of eliminating or limiting rights, with a spirit welcomed but to be generalized to eliminate the biggest vice, which is that of delays, which damages and makes the process unfair.

SOMMARIO:

1. Qualche ricordo per individuare subito i protagonisti - 2. I primordi - 3. Perché «processo del lavoro» - 4. Nell’entusiasmo dello Statuto dei lavoratori - 5. I “Pretori d’assalto” - 6. La tendenza espansiva del «rito del lavoro» dopo il «giudice unico» - 7. Il “nuovo” processo del lavoro: immediatezza ed oralità - 8. Il processo di primo grado ed il “formalismo” come valore di regolarità e non come ostacolo per stancare o far sbagliare - 9. Il secondo grado ed i tempi di legge - 10. Il “carico di lavoro”, altre giustificazioni delle lungaggini, inefficacia della “legge Pinto” - 11. Il carico di lavoro e l’«abuso» del processo del lavoro (avvocati e Patronati) - 12. Variazioni in verità per modificare il diritto sostanziale e neutralizzare i giudici del lavoro (il «Libro Bianco» del 2001 ed il «Collegato lavoro» del 2010) - 13. Ostacoli all’esercizio dei diritti per diminuire il numero dei processi - 14. La Commissione Foglia e lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, con il modello di “corsie preferenziali” - 15. Il “rito Fornero” già abrogato solo per il futuro ma con efficacia attraverso “norme leggere” - 16. La specializzazione, la neutralità della giurisdizione, la garanzia del “formalismo” - 17. La “verità”, ma rispettando le regole e senza favori: il primato della giurisdizione - 18. Alla ricerca delle ragioni per cui le regole sono inderogabili solo per le parti e non per i giudici, prevalenza di norme morali - NOTE


1. Qualche ricordo per individuare subito i protagonisti

Prima dell’attualità, per vedere «a che punto siamo» [1], piace qualche ricordo, sparso nel tempo e nello spazio. Con la fantasia e la storia si potranno individuare e quasi vedere i protagonisti. Il «processo», senza aggettivi, ha avuto quasi sempre un’idea controversa, per un doppio motivo personalizzato: per i giudici e per gli avvocati. Da entrambi ci sarebbe da diffidare. E c’è sempre un’aria di mistero, anche in positivo. Si cerca qualche ricordo. In «Le avventure di Pinocchio» di C. Collodi c’è la figura del giudice, in «I promessi sposi» di A. Manzoni quella dell’avvocato. In Pinocchio c’è anche il Carabiniere, visto in modo quasi benevolo, sempre ironico [2]: cattura Pinocchio fuggito dalla casa di Geppetto, ma, di fronte alle osservazioni dei passanti pre­occupati per una possibile dura punizione di Geppetto sul burattino, rilascia Pinocchio e conduce Geppetto in prigione. C’è l’ombra di una giustizia al contrario. In Pinocchio, il capitolo XIX è intitolato «Pinocchio è derubato delle sue monete d’oro e, per gastigo, si busca quattro mesi di prigione» [3]. Pinocchio aveva raccontato imprudentemente di avere quattro zecchini d’oro, regalati da Mangiafuoco, ed il Gatto e la Volpe, per rubarglieli, l’avevano convinto a sotterrarli nel Campo dei miracoli, facendogli credere che così sarebbero cresciuti alberi colmi di zecchini d’oro. Gli avevano detto poi di aspettare lontano dal campo venti minuti per far crescere l’albero e durante questo tempo rubarono le monete e fuggirono. Si cercherà di usare le parole di C. Collodi. Pinocchio, preso dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano derubato. Pinocchio raccontò al giudice per filo e per segno l’iniqua frode, per chiedere giustizia. Il giudice lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima arte al racconto: si intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello. Comparvero subito due gendarmi, cui disse, accennando Pinocchio: «Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in [continua ..]


2. I primordi

Si può dire che, fino agli inizi dell’altro secolo, in pratica per i lavoratori non c’era tutela dei diritti. Un’occasione fu l’istituzione di una commissione d’inchiesta per indagare le cause e i rimedi degli scioperi, nominata con un decreto del 3 febbraio 1878 e quindi più per reprimere che per tutelare. Fu comunque l’occasione per qualche iniziativa, che portò, dopo molti anni ed altrettante iniziative, all’istituzione dei «Collegi di probiviri» mediante la legge 15 gennaio 1893, n. 295 [9], per la conciliazione delle controversie solo nel­l’industria e solo per operai e apprendisti, o anche fra operai. Nacque così una giurisprudenza nell’alternativa tra giudizio d’equità e quello di diritto: i “probi viri”, dal latino, vuol dire uomini onesti, lasciando intendere che, più che altro, è importante cercare giudici onesti, che in tali casi non sarebbe necessario fissare in anticipo una procedura scritta. Naturalmente qui la storia è ridotta al minimo, ma basta ricordare che dall’istituzione con la legge del 1893 fino al 31 dicembre 1912 erano stati istituiti 242 Collegi di probiviri, ma non per tutte le regioni. La sensazione è quindi che, in quei tempi antichi, quasi mancasse una tutela dei diritti e mancasse del tutto in alcune regioni. Dopo la prima Guerra Mondiale, nel 1918 fu previsto un regime eccezionale, che sarebbe dovuto rimanere pochi mesi ma restò in vigore per anni [10]. Il giudizio avrebbe dovuto essere più rapido e funzionante. I Collegi dei probiviri [11], quando nel 1926 furono eliminati, erano 324 ma solo 109 in funzione. Si conclusero dicendo che l’opera dei probiviri, pur non riuscita, sarebbe stata in ogni modo proficua. I Collegi dei probiviri non erano previsti per l’agricoltura, nonostante qualche tentativo di estensione, e solo durante e dopo la Prima Guerra Mondiale si provvide con alcune disposizioni [12], cui seguirono varie norme che in qualche modo prevedevano procedure di conciliazione e arbitrato. Gli impiegati, considerati all’inizio del secolo più padroni che lavoratori e per questo senza tutela, poi furono i primi ad avere una disciplina organica del rapporto nel 1919 [13], a conferma forse del privilegio. Si previde allora la Com­missione per l’impiego privato con funzioni vagamente [continua ..]


3. Perché «processo del lavoro»

Il «processo» indica le attività e soprattutto le forme e modalità con cui gli organi prestabiliti dalla legge attuano nel concreto i comandi di legge. Indica dunque un complesso di regole scritte prima (pre-scritte) – un gioco con regole fissate in anticipo – attraverso cui un giudice già individuabile esercita la funzione giurisdizionale di affermare il diritto predisposto. C’è stato e c’è però un «processo del lavoro», con diversità rispetto a quello ordinario. Spesso si dice che è “specializzato”, per non dire “speciale” che ricorda i casi in cui si sono creati giudici appositamente per singoli casi solo per sfuggire alle regole. Storicamente, in Italia c’è stato il «Tribunale speciale per la difesa dello Stato» (1926-1943) [25], con cui il regime fascista, sotto le apparenze di un processo, diffidò, ammonì e condannò gli avversari politici ritenuti pericolosi, reintroducendo la pena di morte. La parola “speciale” rievoca brutti ricordi, ma lontani e da superare. Il processo del lavoro è speciale perché diverso rispetto a quello ordinario civile. Sulla specialità possono esserci varie alternative. Si può creare un processo speciale, applicabile però dai giudici ordinari oppure, a sua volta, da giudici speciali. Tendenzialmente, per uguaglianza, sarebbe bene che non ci fossero giudici speciali, perché se gli organi sono diversi è inevitabile che anche le decisioni siano diverse. Affinché la legge sia uguale per tutti, è necessario che a dirla sia un giudice solo, non come persona fisica ma quale funzione (la parola deriva dal latino iudex, composta da ius e dicere, dire il diritto). Per semplicità, si può ricordare la bella ma talvolta dimenticata metafora dei giudici inglesi, con toga e parrucca bianca per sembrare tutti uguali, come se a giudicare fosse solo uno, sempre lo stesso, e non tanti. «La legge è uguale per tutti», che quasi personalizza la legge in una persona sola, è meglio di «tutti sono uguali di fronte alla legge», che finisce per presupporre diversità. Per il lavoro, ci sono stati sia un processo che giudici speciali, diversi rispetto a quelli ordinari. Bisogna chiedersi perché. Una ragione potrebbe [continua ..]


4. Nell’entusiasmo dello Statuto dei lavoratori

Se all’origine, fra i motivi che indussero il legislatore ad introdurre il «processo del lavoro» ci furono le grandi diffidenze (di classe e non) nei confronti di giudici ed avvocati, oggi sembra quasi il contrario e che lavoratori e sindacati si fidino più del «giudice del lavoro» (fino al 1998 il «Pretore») e rifiutino qualsiasi forma di giustizia privata, come gli arbitrati. Forse influisce la storia, assolutamente falsa, che i giudici del lavoro darebbero sempre ragione ai lavoratori, ma è certo che non c’è più la diffidenza di una volta. Dalla diffidenza alla fiducia, è stato possibile quasi d’improvviso con lo Statuto dei lavoratori [29], ma con un attimo al contrario, dalla fiducia alla diffidenza. Di colpo il giudice non è stato visto più come un nemico, ma è diventato uno normale fra la gente. Il “Pretore” ha acquistato un’immagine positiva, contro i potenti ma senza favoritismi, uno di cui, entro certi limiti, ci si poteva fidare. Lo Statuto dei lavoratori, prevedendo il procedimento per condotta antisindacale (art. 28), ha causato due riflessi decisivi: innanzitutto il ricorso ex art. 28 lo può fare il sindacato, anche per le ingiustizie dei singoli lavoratori (condotta “plurioffensiva”) per cui il sindacato si espone in proprio, evitando che siano i singoli a farlo. Il lavoratore non deve avere più paura che l’avvocato gli porti via il suo, perché solo il sindacato può agire ex art. 28 St. lav. per condotta “plurioffensiva” e quindi l’avvocato è pagato dal sindacato. Come ul­teriore conseguenza, allo stesso tempo, i sindacati costituiscono gli “uffici vertenza”, che si occupano di controllare il rispetto del diritto, magari indicando ai lavoratori gli avvocati affidabili, anche per i costi.


5. I “Pretori d’assalto”

L’entusiasmo dello Statuto dei lavoratori portò anche alla preferenza degli stessi giudici ad essere assegnati al “lavoro”, con forte carica ideologica; ma l’ideologia non va confusa con favoritismo, come qualche volta si diceva malignamente, che anzi i giudici più severi nei confronti dei lavoratori scorretti sono spesso quelli ideologizzati. Tutti i giudici volevano “fare lavoro” [30], anche se c’era un notevole carico in particolare per le udienze basato sul principio di “oralità” e non più degli atti scritti. Il “Pretore” senza aggettivi sarà spesso considerato quello del lavoro, anche se la competenza funzionale sarà formalizzata solo nel 1973, dopo essere stata parzialmente anticipata nel 1966 e nel 1970 [31]. In quegli inizi ’70, tutta la magistratura fu coinvolta in grandi cambiamenti. Ci fu il fenomeno dei “Pretori d’assalto”, con decisioni che allora fecero scandalo ed andavano sui giornali. Ci furono Pretori, come quelli di Genova e Bassano del Grappa [32] che, contro licenziamenti per cessazione totale d’attività, ordinarono sostanzialmente di “riaprire”, beccandosi l’accusa di essere “imprenditori occulti”. Un influsso notevole derivò dalla rivista «Quale Giustizia», che pubblicò le pronunce dei Pretori ed in particolare quelle sulla “condotta antisindacale”, con la partecipazione di importanti autori [33]. La storia dei “Pretori d’assalto” è piena di ricordi deformati dal tempo ed anche da un po’ d’emozione. Chiamati così, a quanto sembra, da un fortunato articolo in «la Repubblica» [34], furono descritti come estremisti di sinistra, esibizionisti, inventori di norme contro la legge formale: insomma, esponenti di un “diritto proletario”. Non è così, anche se i fatti furono vari e sempre diversi e non ci fu accordo neppure implicito fra i “Pretori”; ma ci fu certamente qualche tendenza unitaria. Tutto nacque, fondamentalmente, per la modifica della carriera in magistratura. Fino al 1966 i giudici facevano carriera solo per concorso, con commissioni composte da giudici di Cassazione che valutavano le sentenze come titoli di merito: in questo modo i giudici, per far carriera, aderivano alla [continua ..]


6. La tendenza espansiva del «rito del lavoro» dopo il «giudice unico»

Prima di entrare nel vissuto, va dato atto che il processo del lavoro introdotto della legge 11 agosto 1973, n. 533 (diventato nel frattempo “rito”) ha man mano esteso il suo campo d’applicazione, nella prospettiva evidente di generalizzazione. La tendenza espansiva ha tratto origine, e non solo spunto, dalla riforma del 1998 con l’introduzione del «giudice unico» di primo grado e la soppressione delle Preture confluite nei Tribunali [40], per cui, mentre prima c’era una competenza funzionale, ora c’è solamente un «rito» del lavoro, con vizio superabile facilmente mediante mutamento dal rito speciale al rito ordinario e viceversa [41]: mentre prima del «giudice unico» a sbagliare poteva esserci incompetenza, ora la competenza è sempre del giudice unico del Tribunale con eventuale rinvio ad altro giudice solo per ripartizione del carico di lavoro [42]. Il Tribunale giudica in composizione monocratica e cioè con un solo magistrato che fa tutto, trattazione e decisione. Il «giudice unico» tratta con rito del lavoro non solo le controversie di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di una impresa [43], ma, dal 1998, anche quelle del lavoro pubblico [44]. Restano, abbastanza inspiegabili, alcune eccezioni, per cui restano competenti i giudici amministrativi (T.A.R. e Consiglio di Stato): rimangono a questi ultimi [45] le controversie sui concorsi «per l’assunzione» e quelle di alcune categorie di dipendenti pubblici elencati nel Testo unico del 2001 (come giudici, poliziotti ed altri) [46]. S’è imposto comunque il principio, per cui la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di lavoro costituisce l’eccezione [47]. Sono assoggettati al rito del lavoro i rapporti di lavoro in agricoltura [48] e le controversie agrarie (attribuite però alle sezioni specializzate di Tribunali e Corti d’Appello e non alle sezioni lavoro) [49]. Il rito del lavoro è previsto per le controversie degli agenti di commercio e degli «altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato» [50]: sono i famosi “co.co.co.” e “co.co.pro.”, ormai in via di [continua ..]


7. Il “nuovo” processo del lavoro: immediatezza ed oralità

Come più volte accennato, dopo lo Statuto dei lavoratori ed a suo logico completamento, il nuovo processo del lavoro fu creato con la legge 11 agosto 1973, n. 533 [65]. Dato che la tecnica, anche successiva, è stata quella di modificare il codice di procedura civile, sostituendo norme nuove alle vecchie (c.d. “novellazione”), ora vengono richiamati gli articoli del codice risultanti dalla legge n. 533/1973 e da altre successive. Qui si vuol tentare di guardare, con sequenza di istantanee significative e senza completezza, «a che punto siamo» con il processo del lavoro (ormai solo “rito”). Anche con la legge n. 533/1973 furono ripresi principi vecchi, ma inattuati, facendo credere che fossero stati ideati appositamente, che tutto fosse “nuovo”. Un vezzo ricorrente. Per il processo del lavoro sono stati ripresi i principi di «immediatezza, concentrazione, oralità» già elaborati da Chiovenda [66]. In sintesi, ma anche oltre le parole, le esigenze ed i fini che si volevano realizzare erano i seguenti: rapidità del processo, evitando perdite di tempo con giudici ed avvocati; oralità ed immediatezza, limitando al minimo di scrivere, per creare un rapporto diretto con il giudice senza filtri che potevano essere fuorvianti; principio inquisitorio, attenuato ma simile al penale, perché il giudice possa “dire il diritto” anche oltre le domande di parte; specializzazione, per avere giudici esperti in diritto del lavoro e che non si occupino d’altro. In base al principio d’«immediatezza», connesso a quello di oralità, il processo del lavoro avrebbe dovuto svolgersi, dopo gli atti introduttivi in forma scritta, tutto a voce in diretto contraddittorio trilaterale (attore – convenuto – giudice); il giudice avrebbe dovuto farsi dire o anche ripetere a voce il vero oggetto del contendere, senza fermarsi a quanto esposto negli scritti dagli avvocati, interrogando direttamente le parti e tentando una conciliazione. Con il tempo, però, gli obblighi d’interrogatorio e del tentativo di conciliazione talvolta si sono ridotti alle formulette «le parti confermano il contenuto dei loro atti» ed «è impossibile la conciliazione»; l’obbligo della presenza personale in udienza è dimenticato [67]. La [continua ..]


8. Il processo di primo grado ed il “formalismo” come valore di regolarità e non come ostacolo per stancare o far sbagliare

Innanzitutto il contenuto del ricorso, che è l’atto introduttivo. Normalmente ad iniziativa del lavoratore, ma può essere anche del datore di lavoro. Il codice di procedura civile [70] descrive con precisione i contenuti obbligatori, che se mancano rendono il procedimento «inammissibile» o «infondato», per cui rispettivamente le domande giudiziali sono respinte senza nemmeno guardare il contenuto o dopo aver controllato tutto e deciso chi ha ragione (nel «merito»). Nel ricorso bisogna indicare [71] il giudice competente, i dati anagrafici di chi agisce (attore) e di chi viene chiamato in giudizio (convenuto), la «determinazione dell’oggetto della domanda», «l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con le relative conclusioni», «l’indica­zione specifica dei mezzi di prova» di cui ci si vuol avvalere ed «in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione». Tutto dev’essere contenuto nell’atto iniziale, senza possibilità di correzioni o aggiunte in un secondo momento. È «svuotare il sacco subito», come si diceva nell’illusione della legge n. 533/1973. Se mancano tali e tanti elementi, da rendere impossibile il giudizio, il ricorso è «inammissibile», ma con possibilità in futuro di ricominciare da capo con gli elementi necessari, se non si forma «giudicato» nel merito; altrimenti la sentenza, comunque nel merito, se passa in giudicato impedisce di ripetere il processo («ne bis in idem»). Basta un esempio semplice: a iniziare un processo per chiedere una certa somma senza dire il perché, e cioè con la domanda ma senza la ragione della domanda (con «petitum» ma senza «causa petendi»), c’è inammissibilità e resta la possibilità di ricominciare da capo dicendo le ragioni che non erano state dette prima; se, al contrario, vengono indicate anche le ragioni, ma senza prove, il giudice è in grado di decidere e, nel rigettare, rende impossibile di ripresentare il ricorso con l’aggiunta di altri elementi. Bisogna che nel ricorso [72] o nella difesa del convenuto [73] ci sia già tutto, in particolare devono essere rispettati gli oneri d’«allegazione» e prova, [continua ..]


9. Il secondo grado ed i tempi di legge

Per impugnare si va davanti alla sezione lavoro della Corte d’Appello, con collegio composto da tre giudici. I tempi di legge sono altrettanto precisi. Entro cinque giorni dal deposito del ricorso, il presidente dovrebbe fissare l’udienza, nominando il relatore, ad una data di non oltre sessanta giorni; l’ap­pellante dovrebbe fare la notifica nei dieci giorni successivi al deposito del decreto del presidente; tra la data di notificazione e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venticinque giorni [82]. L’ap­pellato deve costituirsi almeno dieci giorni prima dell’udienza, depositando in cancelleria una memoria con esposizione dettagliata di tutte le difese [83]. La violazione del termine di venticinque giorni tra la notifica e l’udienza comporta una nullità ma... “sanabile” per spontanea costituzione dell’appellato o per rinnovazione disposta dal giudice [84]. Solamente la totale omissione di notificazione comporta la decadenza dall’impugnazione con improcedibilità dell’ap­pello [85]: gli altri termini e quelli riguardanti i giudici sono ritenuti irrilevanti [86], chissà perché. In appello, nulla si può cambiare (divieto di “nova”): non sono ammesse né domande né eccezioni nuove, nemmeno nuovi mezzi di prova, «salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa»; le prove nuove, se ammesse, dovrebbero essere assunte entro venti giorni [87]. All’udienza di discussione il giudice incaricato dovrebbe fare la relazione orale ed il collegio, sentiti i difensori, dovrebbe pronunciare sentenza dando immediata lettura del dispositivo [88]: ma, come per il primo grado, anche in appello la «lettura» del dispositivo talvolta avviene dopo che tutti sono andati via. I tempi delle udienze, previsti in modo così preciso dal codice di procedura civile, non sono rispettati: è solo irrisorio il pensiero che sia in primo che secondo grado tutto dovrebbe concludersi in sessanta giorni con un’udienza sola, salvo brevissimo rinvio per le eventuali prove non precostituibili. Di regola, va ripetuto, passano mesi se non anni. Secondo le statistiche ufficiali, prendendo quale campione più significativo il giudizio di Cassazione, nel 2018 i processi di [continua ..]


10. Il “carico di lavoro”, altre giustificazioni delle lungaggini, inefficacia della “legge Pinto”

Perché i tempi, che dovevano essere brevi, sono diventati lunghi. Da sempre e dovunque si dice che i difetti deriverebbero da un eccessivo carico di lavoro. L’eccesso di lavoro sarebbe causato dal numero troppo alto delle cause nuove ed inoltre – ma anche questa è storia antica – per l’accumulo del passato. Tuttavia sono stati fatti molti tentativi per abbreviare i tempi riducendo il contenzioso, con sensazione immediata di perdita dei diritti: comunque i tempi non si sono abbreviati. È certo poi che, se anche il carico di lavoro fosse eccessivo, comunque i ritardi sono non-scusabili. In qualunque modo, i tempi di legge debbono essere rispettati e non per paura di sanzioni. I giudici svolgono un’attività per cui non c’è bisogno – non deve esserci bisogno – dell’intimidazione di sanzioni: debbono farla e basta. Il medico non può rifiutarsi di curare un malato perché stanco. Vale anche ricordare che l’art. 111 della Costituzione impone la «ragionevole durata» del processo, rinviando per i tempi precisi alla legge ordinaria, che è la “legge Pinto”, così chiamata dal nome del proponente [91]. Per il processo civile, compreso quello di lavoro, la “legge Pinto” prevede che il termine ragionevole si considera rispettato «se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità», comunque «se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni»; ovviamente, non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la sua proposizione. Lascia veramente perplessi, allora, che nella «Sezione Lavoro» vengano fissate le udienze superando dichiaratamente i tempi della «ragionevole durata» del processo fissati dalla “legge Pinto”: come quando – ma è così frequente da essere ormai la regola – le udienze in Cassazione, per materia diverse rispetto ai licenziamenti o comunque cessazioni del rapporto, sono fissate dopo vari anni dai depositi dei ricorsi [92]. Con andamenti più brevi solo per la «Sezione VI-Lavoro». Sembra quasi un disprezzo per la legge (nel diritto [continua ..]


11. Il carico di lavoro e l’«abuso» del processo del lavoro (avvocati e Patronati)

Si dice che in Italia ci sarebbero troppi processi in generale ed in particolare sarebbero troppi i processi con il rito del lavoro. Tornano anche le accuse agli avvocati. Nella relazione 2015 [94] il Primo Presidente della Cassazione disse che sarebbero troppi gli avvocati, in modo addirittura «impressionante», con «ben 58.542» iscritti all’albo dei patrocinanti in Cassazione. Si lasciò intendere che i processi sarebbero troppo numerosi per colpa degli avvocati o anche degli avvocati, con la strana teoria “molti avvocati, molti processi”. I processi del lavoro, in fortissima diminuzione negli ultimi anni, costituiscono comunque, in Cassazione, circa un quarto rispetto a tutti i processi civili: sono compresi però non solo i processi sul rapporto, fra lavoratori e datori di lavoro, ma anche quelli previdenziali con l’Inps e (ma meno) con l’Inail per le pensioni ed altre prestazioni. Secondo gli ultimi dati ufficiali in Cassazione (ma l’indice vale in generale) nel 2017 il maggior numero di processi ha riguardato il tributario ed il lavoro (compresa la previdenza), ma, si diceva, in fortissima diminuzione rispetto al passato [95]. Fino a pochi anni fa, l’allora Presidente dell’Inps si lamentava, ma forse intimamente si vantava, di avere «un milione di cause pendenti» e che era enorme l’onere delle spese legali da rimborsare ai tanti che vincevano le cause [96]. È un paradosso perché l’Inps, se perde tante cause, vuol dire che fa processi che non dovrebbe fare. Certo, ciclicamente ci sono state anche cause “seriali”, come quelle contro Poste Italiane S.p.A., che continuano finché i lavoratori vincono e si estinguono alle prime sconfitte con la stessa velocità con cui sono nate (ad es. quelle ormai lontane sulle promozioni nelle Ferrovie dello Stato): ma la maggior parte del carico di lavoro deriva dall’Inps [97], con difficoltà per i Tribunali ed alibi per i ritardi. Lo ricordava anche la Commissione Foglia del 2001 [98]), creata, come si vedrà, per cercare di rendere più rapidi i processi, che citava, oltre l’«esorbitante» numero di controversie delle Ferrovie, quelle non meno numerose delle “integrazioni al trattamento minimo delle pensioni” e dell’indebito previdenziale e cioè sempre Inps. È [continua ..]


12. Variazioni in verità per modificare il diritto sostanziale e neutralizzare i giudici del lavoro (il «Libro Bianco» del 2001 ed il «Collegato lavoro» del 2010)

È difficile e quasi impossibile dar atto delle iniziative e proposte più o meno ufficiali per diminuire il carico di lavoro, che sarebbe la causa unica o almeno principale dei ritardi del processo. Tornare un po’ indietro può essere utile per schiarirsi le idee. Si può partire dal «Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia» dell’otto­bre 2001 [107], tristemente famoso perché legato all’assassinio assurdo di Marco Biagi, che insieme a Maurizio Sacconi (che poi diventerà Ministro del lavoro) aveva coordinato il gruppo di lavoro che l’aveva redatto. Nel «Libro Bianco» al punto I.3.7. si cominciò osservando che in un «quadro regolatorio moderno» anche la prevenzione e la composizione delle controversie «deve ispirarsi a criteri di equità ed efficienza» – è ovvio – che in quel momento sarebbero mancati «senza dubbio». Si concluse con questa frase: «la crisi della giustizia del lavoro è, infatti, tale, sia per i tempi con cui vengono celebrati i processi, sia per la qualità professionale con cui sono rese le pronunce, da risolversi in un diniego della medesima, con un danno complessivo per entrambe le parti titolari del rapporto di lavoro». Pertanto, la crisi della giustizia del lavoro sarebbe derivata non solo dai ritardi, ma anche dalla «qualità professionale con cui sono rese le pronunce». Una frase durissima quanto incomprensibile, che non piacque: se, come si diceva nel Libro Bianco, la crisi della giustizia fosse dipesa dalla «qualità professionale» dei giudici del lavoro, questo avrebbe voluto dire che i giudici, normali per materie ordinarie, sarebbero diventati incapaci a trattare la giustizia del lavoro. Incomprensibile, più ed oltre che illogico. Come spesso succede, lo scopo vero delle proposte si intravedeva soltanto fra le righe, ma alla fine era chiaro. Lo scopo dichiarato era di sostituire i giudici del lavoro con «collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi», per funzionare con maggiore equità ed efficienza, «con particolare riferimento al regime estintivo del rapporto di lavoro». In questo modo si tendeva ad un doppio risultato: «rafforzare la soluzione arbitrale in alternativa a quella giudiziale» e [continua ..]


13. Ostacoli all’esercizio dei diritti per diminuire il numero dei processi

In effetti proprio il tentativo fallito del «Collegato Lavoro 2010», di dare ai privati (gli arbitri) il processo del lavoro ma lasciando il resto formalmente intatto, è il miglior attestato che il processo del lavoro in sé andava e va bene, anzi benissimo, e se non funziona è perché si vuole che non funzioni. Per inciso, va ricordato che il «Collegato Lavoro 2010» prevedeva altri strumenti per intervenire direttamente o indirettamente sul processo del lavoro: l’obbligo per i giudici di fare proposte concrete e precise di conciliazione [113], una «certificazione» rilanciata [114], la possibilità di precisare le «norme in bianco» (chiamate clausole generali) [115], una doppia decadenza dal momento dell’impugnazione imposta per le controversie sulla cessazione o qualificazione del rapporto [116]. Gli effetti sono stati pochi o modesti (certificazione), anzi per la doppia impugnazione l’effetto è stato paradossalmente opposto, perché un termine breve induce a iniziare comunque il processo, mentre facendo passare il tempo magari si lascia perdere o si trovano altre soluzioni. Alcune norme sono rimaste in vigore per poco, a prova con questo del­l’inutilità o meglio del danno provocato. Il caso forse più famoso è stato quello del tentativo obbligatorio di conciliazione a pena d’improce­dibili­tà, durato dal 1998 al 2010 [117], dopo aver creato solamente inutili fastidi e generale sensazione di malessere, comunque allungando i tempi dei processi. S’è arrivati ad imporre [118] per i giudizi di Cassazione i «quesiti di diritto» per ogni motivo di ricorso, addirittura a pena d’«inammissibilità». Si trattava di riassuntini di quanto esposto (chiamati pudicamente «momenti di sintesi») [119]. La regola, durata dal 2006 al 2009, per fortuna è stata abrogata, chiaramente perché indirizzata a creare solo ostacoli alla tutela dei diritti, se non veri e propri trabocchetti. Negli anni sono stati creati e tuttora in vigore sempre più ostacoli, anche economici, che hanno limitato i diritti per scoraggiare i processi in generale e non solo quelli del lavoro. Se ne farà un rapido e non-esaustivo censimento. È stato introdotto l’onere di pagare un «contributo [continua ..]


14. La Commissione Foglia e lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, con il modello di “corsie preferenziali”

Il 24 luglio 2000 fu istituita dal Ministero della Giustizia e dal Ministero del lavoro, come visto, una Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro, presieduta dal giudice di Cassazione R. Foglia (anche noto studioso di Diritto del lavoro) [139]. La Commissione svolse i lavori fino al 15 maggio 2001, con pubblicazione di una relazione e varie proposte. Innanzitutto si lanciarono idee di conciliazioni ed arbitrati (parzialmente riprese, come visto, nel «Libro Bianco» del 2001 e nel «Collegato lavoro 2010»); si propose quindi di intervenire solo su trasferimenti, licenziamenti e procedimenti d’urgenza e sulle controversie previdenziali, per cui si riteneva necessaria una modifica legislativa, lasciando intatto il resto. Si aprì soprattutto la via di soluzioni in base alle leggi in vigore, senza necessità di formali cambiamenti [140]. La Commissione non portò risultati concreti e viene ancora citata o strumentalizzata a favore o contro. In certo senso, un intervento simile ma già operativo s’era avuto in attuazione della legge n. 146/1990 [141], per la regolamentazione degli scioperi nei servizi essenziali. Per i giudici [142] c’è divieto di sciopero [con il nome di «astensione»] per la materia del lavoro limitatamente ai processi di licenziamento, trasferimento e procedimenti sommari di natura cautelare, inclusi quelli previsti dalle leggi speciali in tema di repressione delle condotte antisindacali e discriminatorie. Normativa in parte simile è prevista anche per gli avvocati [143]. Si deduce che i processi per licenziamento e trasferimento sono sempre urgenti e meritano una procedura più rapida. È una conferma del modello delle “corsie preferenziali”, per cui, senza bisogno di modifiche di legge, le udienze per licenziamenti e trasferimenti possono essere fissate con ragionevole anticipo rispetto alle controversie con contenuto economico. Il modello ha avuto ed ha grande seguito, come si vedrà, per abbreviare i tempi del processo sui licenziamenti, a leggi invariate.


15. Il “rito Fornero” già abrogato solo per il futuro ma con efficacia attraverso “norme leggere”

Un importante tentativo di abbreviare i tempi del processo è stato fatto per i licenziamenti dalla “legge Fornero”, senza ostacolare ed anzi agevolando l’esercizio dei diritti [144]. È un cambiamento netto e non sempre valutato, rispetto ad un passato prossimo, in cui si ostacolava l’esercizio dei diritti per alleggerire il carico di lavoro: con la “legge Fornero” si è agito veramente per rendere più breve il processo, non per renderlo più difficile. Forse in cambio di una certa attenuazione delle regole sostanziali [145], è stata introdotta una nuova procedura (chiamata subito “rito Fornero”) per abbreviare i tempi. S’è creato così un effetto anche morale che ha portato veramente ad abbreviare il processo per i licenziamenti. Gli effetti positivi dovrebbero restare comunque a lungo, dato che il “rito Fornero” è stato abrogato solo per il futuro e cioè per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 [146]. Non s’è capito se il “rito Fornero” sia sommario, cautelare, d’urgenza o altro [147], ma non importa; ogni giudizio di somiglianza è inutile e fuorviante [148]. La vera novità è la riduzione dei tempi del processo sui licenziamenti, perché sono i tempi lunghi a causare i danni veri, con la frequente ineliminabilità degli effetti. Possono esserci però criticità, innanzitutto quella derivante dalla divisione del primo grado in due «fasi», che può far perdere tempo, perché nei fatti le «fasi» fanno duplicare il procedimento. Un’altra ipotetica criticità potrebbe derivare dal fatto che i tempi del processo sui licenziamenti sono stati abbreviati, ma lasciati come prima “ordinatori” e cioè con possibilità di non-rispettarli. Ad esempio, è stato portato da 60 a 30 giorni il termine massimo della prima udienza: ma pochi giorni in più o in meno non cambiano niente, se i termini restano “ordinatori” e cioè privi di sanzioni o decadenze. Se il termine di 60 giorni per il rito ordinario è non-rispettato, allo stesso modo si potrà non-rispettare il termine di 30 giorni del “rito Fornero” restato “ordinatorio”. L’unica vera soluzione, ma forse [continua ..]


16. La specializzazione, la neutralità della giurisdizione, la garanzia del “formalismo”

Il processo del lavoro, a non funzionare per i tempi, costituirebbe una generale sconfitta. Dei fini della legge n. 533/1973, quello della rapidità, che era e resta essenziale, era fallito almeno in parte, salvo ora le speranze almeno per i licenziamenti attraverso la forza morale della “legge Fornero” e più in generale attraverso la «Sezione VI-Lavoro». Va guardato «a che punto siamo» per gli altri fini riaffermati nel 1973. La caratteristica del processo del lavoro, quella della specializzazione, inizialmente fu importante ma ormai non entusiasma: c’è da chiedersi perché i giudici del lavoro dovrebbero conoscere solo il diritto del lavoro e non occuparsi d’altro. Inoltre, dopo l’istituzione del «giudice unico di Tribunale» [153], c’è sempre interscambiabilità di funzioni, che attenua il principio ed il valore della specializzazione. Si pone la solita alternativa fra specializzazione e polivalenza, che possono essere entrambe positive e negative, perché lo specialista dovrebbe saper bene la sua materia, ma corre il rischio d’isolarsi e di conoscere sempre meno (anche se bene), mentre il polivalente ha visione e capacità più ampie, con il rischio però di non imparare mai a fondo una specifica materia. C’è una norma incomprensibile, spesso dimenticata, per cui non si potrebbe essere giudice del lavoro per più di dieci anni, ma forse dovrebbe servire per evitare che la specializzazione diventi impoverimento. La soluzione migliore va trovata nel giusto dosaggio fra i due metodi, ma non si vede, dopo tanto tempo, la necessità di una divisione istituzionale, che poi nelle sedi piccole diventa solo formale e nella sostanza i giudici fanno un po’ di tutto. Come ricordato all’inizio, i “Pretori del lavoro” hanno avuto un ruolo decisivo nella società, ben oltre il diritto ed il processo del lavoro, ma ora sembrano fuori tempo. Forse, con la specializzazione, il giudice del lavoro potrebbe acquistare una particolare sensibilità sociale, necessaria oltre la tecnica per risolvere controversie che coinvolgono le vite personali e familiari. Una particolare sensibilità sociale evoca però un’inaccettabile giustizia di parte, anche se “a fin di bene”. La teoria della parte debole vale per il diritto [continua ..]


17. La “verità”, ma rispettando le regole e senza favori: il primato della giurisdizione

Con la legge n. 533/1973 sul processo del lavoro si volevano anche attenuare i limiti del processo civile, introducendo almeno in parte il principio inquisitorio del processo penale. Come ricordato all’inizio, qualcosa del genere era stato affermato anche nel periodo corporativo. La Costituzione prevede all’art. 102 che «la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordina­mento giudiziario»; all’art. 108 che «le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge». Anche l’art. 113 conferma il primato della «tutela giurisdizionale». Va ricordato e riaffermato che tutto parte dalla giurisdizione, vincolata in base alla Costituzione ed alla legge. La giurisdizione è costituita dalle regole, le “regole del gioco” (il gioco è una cosa seria). Alla giurisdizione non c’è alternativa. Eppure si sente dire che, ancor prima della giurisdizione, verrebbe la “verità”, che dovrebbe prevalere su tutto. L’affermazione serve talvolta per tentare di superare le regole della giurisdizione, al fine in realtà falso di raggiungere la “verità”. Oltretutto ha una forte carica moralistica, perché – in negativo – chi si oppone alla violazione della giurisdizione sembra un furbo che cerca di nascondersi dietro pretesti e cavilli. È facile ricordare l’esempio scolastico, ma sempre con sospetti di realtà, che non si possono ottenere le prove mediante la tortura e le prove così ottenute (“illecite”) debbono essere non-utilizzabili. I poteri ufficiosi previsti [155] sono stati giustificati proprio per la ricerca della «verità materiale», ma – meglio precisarlo ancora – solo dopo che siano state regolarmente acquisite le allegazioni e prove. È facile replicare che una «verità materiale» o tantomeno assoluta non esiste [156], che tutto è relativo e ci sono non una ma molte verità, in buona fede e nella realtà [157]. Inutile continuare: è certo che tutti debbono cercare la verità – non solo il giudice ma anche gli avvocati nei limiti delle difese – ma prima viene la giurisdizione, come valore assoluto ed insuperabile. La verità va [continua ..]


18. Alla ricerca delle ragioni per cui le regole sono inderogabili solo per le parti e non per i giudici, prevalenza di norme morali

Resta la sensazione di uno squilibrio fra i protagonisti del processo: le regole di procedura, mentre sono quasi sempre inderogabili per le parti in causa (attore e convenuto), altrettanto spesso sono derogabili (“ordinatorie”) per i giudici e gli uffici giudiziari. Si riprenda l’esempio di prima: la sentenza di lavoro va depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia ed il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti [160]. Chiaro e semplice. Per maggiore celerità, s’è previsto un termine più breve rispetto a quelli del rito ordinario, che varia da trenta a sessanta giorni a seconda che la sentenza venga pronunciata dal giudice monocratico o dal collegio. Poi però si afferma che il termine sarebbe «ordinatorio» e cioè potrebbe essere violato senza alcun effetto [161]. In tal modo, quindici o trenta o sessanta giorni è indifferente, perché la violazione della regola è senza effetti. Comunque c’è la regola morale, ugualmente importante, per cui dall’udienza per il deposito non si può far passare un tempo troppo lungo [162]. Lo squilibrio potrebbe essere superato affermando la perentorietà di tutti i termini, come fu tentato con un referendum un po’ provocatorio del 2000, dichiarato inammissibile [163], per chiedere di rendere perentori tutti i termini processuali. Era un tentativo impossibile, ma metteva in evidenza problemi veri e primari. Alla fine, sembra che prevalga l’idea che alle opere dell’intelletto non potrebbero essere imposti tempi precisi. C’è chi ha riflessi immediati e chi ha bisogno di ripensarci, e per riflettere non bisogna mettere fretta e nemmeno tempi precisi. Tutto alla fine può sembrare o esser fatto passare per ovvio, per eliminare quel che è sgradito. L’ovvietà cancella tutto. Il teorico dubbio è se possano essere imposti ai giudici termini perentori, il cui superamento causi effetti sostanziali sul processo, ad es. con accoglimento o rigetto, salvo responsabilità del giudice. Per le parti si può, anzi si possono porre termini che condizionino l’instaurazione stessa del processo, come nel già visto sistema di impugnazioni rispetto ai licenziamenti, per cui passato il tempo di legge c’è decadenza non-scusabile [164]. Alle parti, per far [continua ..]


NOTE