L’articolo offre un’analisi di sistema tra apprendistato scolastico e tutela del lavoro minorile. L’analisi mette in luce la funzione che il metodo dell’alternanza in apprendistato, se correttamente inquadrato come dispositivo pedagogico governato dal sistema educativo di istruzione e formazione, potrebbe svolgere nel contrastare la dispersione scolastica e l’esclusione sociale dei minori. L’articolo evidenzia i limiti esistenti, di carattere normativo, per rendere questa prospettiva attuale.
This article offers a systemic analysis of apprenticeship for minors and child work. The analysis intends to shed light on the purpose that alternance training in apprenticeship may serve against early school leaving and minors’ social exclusion, if understood as a pedagogical tool framed in the education and training system. The article highlights existing normative limitations to make this perspective actual.
Keywords: apprenticeship – education – alternance training – child work.
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1. Introduzione - 2. Tutela del lavoro minorile e diritto all’istruzione - 3. Segue: L’età minima nel contratto di apprendistato di primo livello - 4. Apprendistato scolastico e legislazione speciale sul lavoro dei minori - 4.1. Norme speciali in materia di orario di lavoro - 4.2. Norme speciali in materia di salute e sicurezza - 5. Segue: Implicazioni sull’organizzazione dell’alternanza - 6. Conclusioni - NOTE
Può apparire singolare o comunque inattuale, a chi è incline a studiare i macro-trend di trasformazione del (diritto del) lavoro, l’idea di dedicare un approfondimento al tema delle connessioni di sistema tra apprendistato di primo livello e tutela del lavoro minorile [1]. Meno stupore desta la scelta se si guarda alle radici profonde di un fenomeno – quello dello sfruttamento dei minori al lavoro – che nel testimoniare l’esistenza di una moderna questione sociale [2], denuncia il contestuale fallimento delle politiche di promozione del diritto al lavoro dignitoso e del diritto all’istruzione. Come e in che misura questo duplice fallimento si connetta alla mancata realizzazione di una convergenza tra scuola e lavoro, sugellata in termini programmatici nella Convenzione ILO sulle forme peggiori di lavoro minorile [3], è una questione che fuoriesce dalla portata di questo scritto. È indubbio però che l’apprendistato di primo livello quale canale di integrazione tra diritto al lavoro e diritto all’istruzione avrebbe potuto contribuire anche a contrastare la dispersione di quei giovani più vulnerabili e a rischio di esclusione sociale [4] che, fuoriusciti dai «darwiniani percorsi scolastici» [5], sono destinati presto o tardi ad alimentare la spirale di concorrenza al ribasso, nel migliore dei casi, attraverso i canali tipici del «nucleo più sommerso del lavoro sommerso» [6]. In questo articolo si cercherà, più semplicemente, di evidenziare uno dei molteplici aspetti che potrebbe ostacolare l’applicazione e la diffusione dell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore (c.d. apprendistato di primo livello) [7]: quello legato al disallineamento tra funzione economico-sociale dell’istituto e normativa applicabile agli apprendisti di minore età. Come noto, infatti, l’apprendistato di primo livello è l’unica tipologia contrattuale che, nel nostro ordinamento, permette ai minori di lavorare e al contempo acquisire un titolo di studio. Nel consentire l’assunzione di giovani di età compresa tra i quindici e i venticinque anni, il dispositivo porta a sintesi nel rapporto di apprendistato le direttive costituzionali riguardanti [continua ..]
Diritto al lavoro e diritto all’istruzione sono maturati, negli ordinamenti giuridici moderni, lungo percorsi evolutivi che hanno trovato nella legislazione sociale sui minori un comune punto di partenza [24]. L’età, in particolare, è da sempre stata declinata sul piano del diritto positivo in funzione di segnare, a diversi fini, il confine (mobile) tra lavoro, istruzione e formazione professionale [25]. Il caso del Regno Unito e dell’Italia sono esemplificativi in questo senso. Ripercorrendo la storia della legislazione sociale nel Regno Unito, Stanley Jevons annotava che, di fianco alle disposizioni atte a garantire livelli minimi di salubrità dell’ambiente e la limitazione della durata della giornata lavorativa nell’industria tessile, nel 1833 fu resa obbligatoria la frequenza dei fanciulli a scuola: essi non dovevano lavorare più di nove ore al giorno e dovevano trascorrere ogni giorno altre due ore a scuola [26]. Nel 1844 le ore di lavoro dei fanciulli dagli otto (invece che dai nove) anni d’età in su furono ridotte a sei e mezzo, con l’imposizione inoltre di tre ore di scuola per cinque giorni alla settimana. In alcuni casi, si permetteva di alternare giorni di dieci ore di lavoro con altri di cinque ore di scuola. A dispetto delle narrazioni politiche che accompagnarono il fiorire di questi provvedimenti, il principio dell’alternanza tra lavoro e istruzione fu introdotto per consentire alle autorità pubbliche di accertarsi che i fanciulli non lavorassero in certe ore, sicché la presenza a scuola in quelle ore avrebbe potuto fornirne la «miglior prova possibile» [27]. Così avvenne che «tutti i fanciulli impiegati nelle fabbriche negli ultimi cinquant’anni usufruissero di qualcosa che si può chiamare educazione» [28]. Questa soluzione decretò sul piano legislativo la fine di una lunga stagione di controverse politiche sociali che, dalla metà del quindicesimo secolo alla Poor Law reform del 1934, avevano visto la promozione del contratto di apprendistato, al di fuori dei settori in cui era stato storicamente impiegato in forma genuina, quale canale di contrasto al pauperismo giovanile [29]. Un sistema – quello del c.d. pauper apprenticeship – che ben prima dello sviluppo industriale portò al sostanziale snaturamento dell’istituto, giustificando [continua ..]
Pur confermando il rapporto osmotico tra diritto al lavoro e diritto all’istruzione, con la direttiva 94/33/CE in materia protezione dei giovani sul lavoro le istituzioni comunitarie riaffermeranno l’esistenza di una cesura netta tra apparato normativo giuslavoristico applicabile ai minori e norme a tutela del diritto all’istruzione. Due “microsistemi normativi” destinati a intersecarsi nelle politiche europee e nelle legislazioni nazionali di promozione dei percorsi di alternanza e integrazione tra scuola e lavoro [42] che, a partire dalla fine degli anni Novanta [43], riconosceranno nell’apprendistato la forma di realizzazione più alta [44]. In assenza di un disegno legislativo unitario, capace di ricondurre a sistema l’area di intersezione tra diritto del lavoro (dei minori) e diritto all’istruzione [45], sulla identificazione dell’età minima di accesso al lavoro tramite apprendistato ha finito per scaricarsi la tensione politica, sindacale e dottrinale che, dai primi anni Duemila, ha accompagnato i tentativi di modernizzazione del mercato del lavoro italiano in parallelo alla riforma del sistema scolastico e universitario [46]. La querelle sulla deregolazione del mercato del lavoro, in particolare, non risparmiò le novità legislative in materia di contratto di apprendistato nel momento in cui, in sintonia con la delega di cui all’art. 2 della legge 14 febbraio 2003, n. 30 [47], il d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 dispose l’abbassamento dell’età minima di accesso al lavoro da sedici a quindici anni, per consentire ai giovani di adempiere all’obbligo di istruzione primaria nell’ambito di un percorso integrativo tra canali tradizionali e formazione in azienda. Accolta dalla dottrina in termini di “aziendalizzazione” dei percorsi istituzionali di istruzione e formazione [48], la misura promossa dall’art. 48 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 era in realtà finalizzata ad allineare la disciplina dell’apprendistato di primo livello ai contenuti della c.d. riforma Moratti, che aveva già legittimato quest’ultimo canale quale tassello fondamentale del sistema educativo e formativo là dove, la lett. 4, comma 1, legge 28 marzo 2003, n. 53, disponeva che «dal compimento del quindicesimo anno di età i diplomi e le [continua ..]
Il punto di caduta dell’itinerario storico-normativo ora delineato investe l’identificazione del contratto di apprendistato di primo livello quale canale di confluenza tra politiche in favore dell’occupazione giovanile e diritto all’istruzione, di cui la fissazione a quindici anni dell’età di accesso al lavoro diverrà caratteristica coessenziale anche al fine di contrastare alla radice la dispersione scolastica e l’esclusione sociale dei giovani. Chiariti i presupposti culturali e gli obiettivi di questa opzione di politica del diritto, si tratta ora di valutare quali implicazioni essa ha comportato in relazione alle specifiche normative applicabili all’apprendistato di primo livello, posto che il giovane assunto con questa tipologia contrattuale seguita ad essere destinatario, in quanto minorenne, di una serie di norme speciali in materia di orario di lavoro (infra, § 4.1) e salute e sicurezza (infra, § 4.2) che, come si vedrà, incidono in modo significativo sugli aspetti organizzativi del percorso di alternanza, fino al punto di limitarne la piena operatività (infra, § 5).
Le implicazioni reciproche tra età e contratto di lavoro risalgono fino alle primissime disposizioni del codice civile [69]. Disponendo che la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa si acquista con il compimento del diciottesimo anno, l’art. 2 c.c. fa salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore ai fini lavorativi. In tal caso, il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro. L’art. 2, comma 4, d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, recante disposizioni relative a taluni aspetti dell’orario di lavoro, prevede che «la disciplina contenuta nel presente decreto si applica anche agli apprendisti maggiorenni». La disposizione comporta automaticamente l’esclusione del rapporto di lavoro degli apprendisti minorenni dal campo di applicazione del d.lgs. n. 66/2003. Essa rende altresì inequivocabile che gli istituti del predetto decreto legislativo non regolati dalle normative speciali in materia di lavoro minorile (infra), non possano comunque ritenersi applicabili in via residuale. Ne consegue che, per quanto concerne la disciplina dell’orario di lavoro [70], al rapporto degli apprendisti di età inferiore a diciotto anni si applica solo ed esclusivamente la legge 17 ottobre 1967, n. 977, così come modificata dal d.lgs. 4 agosto 1999, n. 345, a sua volta integrato e corretto dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 262 in esecuzione della sopraccitata direttiva 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro [71]. In favore di questa posizione si è espresso il Ministero del Lavoro con la circolare 3 marzo 2005, n. 8, dove si precisa che «per gli apprendisti minorenni si applica la disciplina speciale di cui alla legge n. 977 del 1967 e successive modificazioni» [72]. Questa normativa speciale prevede trattamenti differenziati a seconda che nel rapporto di lavoro sia implicato il bambino, cioè il minore che non ha ancora compiuto quindici anni di età o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico; oppure il lavoratore adolescente, cioè il minore di età compresa tra i quindici e i diciotto anni e che non è più soggetto all’obbligo scolastico [73]. Ai fini della nostra indagine, le disposizioni sul lavoro minorile rilevano, senza dubbio, nella [continua ..]
Di fianco alle restrizioni vigenti in materia di orario di lavoro, trovano applicazione una serie di divieti che impediscono l’impiego degli adolescenti in talune lavorazioni, processi e lavori individuati dall’Allegato I della legge 17 ottobre 1967, n. 977, soggetto ad adeguamento «al progresso tecnico e all’evoluzione della normativa comunitaria con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro della sanità» [78]. In deroga ai predetti divieti, l’art. 6 comma 2 della medesima legge prevede che le lavorazioni, i processi e i lavori indicati nell’Allegato I possano essere svolti dagli adolescenti per indispensabili motivi didattici o di formazione professionale e soltanto per il tempo strettamente necessario alla formazione stessa svolta in aula o in laboratorio adibiti ad attività formativa, oppure svolte in ambienti di lavoro di diretta pertinenza del datore di lavoro dell’apprendista purché siano eseguiti sotto la sorveglianza di formatori competenti anche in materia di prevenzione e di protezione e nel rispetto di tutte le condizioni di sicurezza e di salute previste dalla vigente legislazione. Tale deroga opera, evidentemente, anche in favore dei lavoratori adolescenti assunti con contratto di apprendistato di primo livello, ma non pure in relazione agli apprendisti bambini. E in ogni caso, vale la condizione posta dal successivo comma 2 per la quale le predette attività devono essere autorizzate preventivamente dalla direzione provinciale del lavoro, previo parere dell’unità sanitaria locale competente per territorio, in ordine al rispetto da parte del datore di lavoro richiedente della normativa in materia di igiene e di sicurezza sul lavoro. Stringenti sono altresì gli obblighi inerenti all’obbligo di sicurezza, per quanto concerne il documento di valutazione dei rischi. L’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 81/2008, fa rientrare nel gruppo dei c.d. «rischi particolari», quelli connessi all’età del lavoratore, senza tuttavia richiamare alcuna legislazione, dovendosi ritenere implicito il rimando alla legge n. 977/1967. In particolare, l’art. 7 della predetta legge stabilisce che il datore di lavoro, prima di adibire un minore (e dunque un apprendista minorenne) al lavoro e sottoporlo ad ogni modifica rilevante delle relative condizioni lavorative, deve [continua ..]
Districato il fitto reticolo normativo che, nel prisma della legislazione speciale, identifica l’area di intersezione tra norme applicabili in materia di lavoro dei minori, salute e sicurezza, orario di lavoro e apprendistato di primo livello, conviene ora analizzare le implicazioni dell’attuale quadro legislativo sui profili organizzativi del percorso di alternanza che vede coinvolto l’apprendista di minore età. Tra queste, la prima e più immediata è che il limite di orario massimo dettato dall’art. 18, comma 2, legge 17 ottobre 1967, n. 977 deve considerarsi comprensivo del programma giornaliero di alternanza complessivamente inteso. La Corte di Cassazione si è espressa sul punto in modo inequivocabile, chiarendo che «l’orario di istruzione non può aggiungersi a quello di lavoro, senza comportare il superamento dei particolari limiti prescritti “ratione aetatis”, che invece devono ritenersi riferiti al tempo complessivamente impiegato, sia per l’esecuzione delle prestazioni lavorative vere e proprie, sia per l’apprendimento teorico del lavoro» [81]. A ciò si aggiunga che sull’organizzazione del rapporto di apprendistato di primo livello insiste anche l’apparato normativo statale e regionale riguardante gli aspetti legati agli obblighi in materia di integrazione tra formazione scolastica e formazione in azienda, che imporrebbe un costante raccordo con le norme speciali preposte a tutela del lavoro dei minori. Raccordo che, come si vedrà tra breve, non solo manca o comunque può essere facilmente disatteso, ma andrebbe articolato nella prassi dell’alternanza in maniera diversificata in ragione delle diverse fasce di età contemplate dai molteplici apparati normativi che delimitano lo strettissimo campo di operatività dell’apprendistato del primo tipo: 15-16 anni, 16-18 anni, e 18-25 anni. Se da un lato, ad esempio, il divieto di lavoro notturno impedisce tout court di realizzare questa tipologia di apprendistato in taluni settori produttivi, dall’altro le eccezionalità applicabili ai lavoratori sedicenni dovrebbero sempre garantire, a rigore, l’apprendimento del minore attraverso l’affiancamento del tutor e l’alternanza tra attività lavorative e momenti di formazione in azienda. Cosa improbabile da realizzare posto che l’eccezione al divieto [continua ..]
Le evidenze emerse in questo articolo hanno messo in luce il dato di un disallineamento tra funzione economico-sociale che l’ordinamento attribuisce all’apprendistato di primo livello e disciplina applicabile ai rapporti che vedono coinvolti giovani di minore età. Se è vero che la tutela del lavoro minorile è stata programmaticamente finalizzata a garantire un buon livello di istruzione, è altrettanto vero che – per come attualmente declinata nella legge 17 ottobre 1967, n. 977 – essa presuppone e di fatto alimenta una separazione tra percorsi di formazione in azienda (art. 35 Cost.) e sistema educativo tradizionale (art. 34 Cost.) [83]. Le ragioni di questa conclusione sono da ricercare nei fattori economico-sociali che sottendono al dato giuridico appena esposto. Al netto degli interventi di adeguamento alla legislazione europea, la normativa sul lavoro minorile si presenta, nel complesso, culturalmente ferma al 1967, stagione in cui «era convinzione diffusa che fosse ormai finita l’epoca dell’addestramento industriale e della formazione manuale, sostituita da poderosi processi di liceizzazione e intellettualizzazione dell’istruzione» [84]. Coerentemente, nel consolidare i frammenti normativi che erano andati stratificandosi fin dalle primordiali forme di legislazione sociale, la legge 17 ottobre 1967, n. 977 ha finito per introiettare nel suo DNA il prototipo dell’esperienza lavorativa tipica del capitalismo industriale [85], caratterizzata dalla semplificazione e dalla divisione del lavoro, in omaggio alla quale l’indifferenza dell’industrialismo verso i profili legati alla formazione e allo sviluppo professionale ha corrotto, progressivamente, «la struttura idealmente tipica» dell’apprendistato, «sino a snaturarla» e a rendere l’istituto «praticamente infruttuoso» [86]. Spiazzati dai primissimi sviluppi dell’economia capitalistica-industriale, gli stessi maestri – ci ricorda Romagnoli – «s’immiseriscono e ruzzolano lungo una china senza ritorno» e l’apprendistato finisce per essere impiegato come «forma di reclutamento di manodopera minorile a tenuissimo prezzo» [87]. È precisamente in questo contesto che si è manifestata tutta l’ambiguità dei contratti c.d. a causa mista e a [continua ..]