Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Dal'assistenza sociale a un nuovo modello di politiche sociali. Mutamenti e sfide del sistema italiano (di Madia D’Onghia. Professore ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Foggia)


Il contributo ricostruisce l’evoluzione dell’assistenza sociale, a partire dal XIX secolo fino agli sviluppi più recenti, in parallelo con il mutare della domanda di protezione sociale e l’e­mergere di nuovi bisogni, evidenziandone punti di forza e criticità. Sul primo versante, l’A. sottolinea il superamento di un approccio sostanzialmente passivo, a vantaggio di un sistema integrato, tra prestazioni monetarie e servizi, che vede la partecipazione attiva dei beneficiari, oltre al carattere universale degli interventi legislativi più recenti, come il reddito di cittadinanza. Sul secondo versante, evidenzia, oltre alla oramai strutturale carenza di risorse economiche, diverse inefficienze, fra cui la persistente debolezza del sistema istituzionale, servizi sociali obsoleti e la mancanza di un riordino complessivo delle prestazioni assistenziali. L’A. auspica una più efficace integrazione tra le politiche e gli interventi, una sinergia fra servizi, anche fra professionalità diverse, fra attori pubblici e privati, profit e no profit, affinché si diano risposte adeguate ai bisogni della società, rifiutando un modello di mero assistenzialismo.

 

From social assistance to a new model of social policies. Changes and challenges of the italian system

The essay traces the evolution of social security, from its 19th century inception to the most recent developments, along with the evolving demand for social protection and the rise of new needs, highlighting its strengths and weaknesses. On one hand, the Author points out the overcoming of a substantially passive approach in favour of an integrated system between subsidies and services, with the active participation of the beneficiaries, in addition to the universal character of the most recent legislative interventions (the so-called Reddito di Cittadinanza). On the other hand, the A. stresses, in addition to the lack of economic resources, several inefficiencies, such as the persistent institutional weakness, an obsolete system of social services and the lack of an overall rearrangement of welfare benefits. A more effective integration between policies and interventions, a synergy between services, even between different professionals, between public and private actors, between profit and non-profit ones is strongly called for, so that appropriate responses can be given to the needs of society, rejecting a mere welfarist model.

SOMMARIO:

1. Premessa. Una nota metodologica e l’ipotesi di indagine - 2. I primi interventi normativi in materia di assistenza sociale - 3. L'assistenza sociale nella Costituzione e i suoi sviluppi negli anni '50 - 4. La (breve) stagione delle politiche espansive: gli anni '60 e '70 - 5. Le trasformazioni socio-economiche degli anni '80 e '90 e l'emer­sio­ne di nuovi bisogni - 6. La legge quadro del 2000 e la sua difficile implementazione - 7. La forte domanda di protezione sociale avviatasi con la crisi del 2008 e le prime deboli risposte del legislatore - 8. Gli sviluppi più recenti: l'attenzione (solo) alla misura di contrasto della povertà e per linclusione sociale - 8. Gli sviluppi più recenti: l'attenzione (solo) alla misura di contrasto della povertà e per l'inclusione sociale - 9. Una chiosa finale per un approccio costruttivo - NOTE


1. Premessa. Una nota metodologica e l’ipotesi di indagine

Nel presente contributo, in sintonia con il tema di questo volume, si tenterà di ripercorrere i momenti salienti che hanno contrassegnato l’evoluzione dell’assistenza sociale. Non ci si occuperà dell’assistenza tout court, come espressione di una categoria comprensiva, sotto un’unica etichetta, dell’intero complesso di pretese riconosciute e garantite alla persona per il suo benessere, ma di quelle forme di protezione sociali residuali, al netto di quelle previdenziali e sanitarie. Lo scopo della riflessione è cercare di comprendere come si sia arrivati all’attuale assetto delle politiche socioassistenziali, facendone e­mergere i tratti più rilevanti, anche al fine di sollecitare un dibattitto per la “messa a punto” di più efficaci policy. Sul piano del metodo, occorre una precisazione preliminare. La pragmaticità e l’asistematictà della materia, se non addirittura la «sua essenziale ambiguità» [1], impone di abbandonare ogni pretesa di esaustiva ricostruzione sistematica che richiederebbe ben altri tempi e modi di quelli possibili in questa sede. Non solo. Ogni ricerca in tema di sicurezza sociale impone al giurista, per poter correttamente interpretare quel sistema, una lettura del dato socio-economico, anche perché le politiche sociali hanno assunto sempre più esplicitamente funzioni ulteriori e diverse da quelle tradizionali, di redistribuzione dei redditi. È sempre molto stringente il nesso tra i compiti di natura assistenziale e quelli di natura sociale o di politica economica. E, dunque, qualunque riflessione necessita – come avvertito da tempo – di un approccio globale, senza del quale «diventa culturalmente impossibile impadronirsi del senso profondo di un sistema di sicurezza sociale» [2], il che comporta, sul piano metodologico, di avvalersi di un adeguato apporto multidisciplinare, investendo valutazioni di pertinenza (anche) delle scienze sociali. Quanto all’ambito di indagine territoriale, si resterà nei confini nazionali, pur consapevoli che i mutamenti che interessano le nostre politiche socioassistenziali sono da inquadrare comunque in un contesto sovranazionale, an­ch’esso, in rapido mutamento, che, specie quello eurounitario, condiziona le scelte interne, soprattutto allorquando impone politiche di austerity [3] ma anche, [continua ..]


2. I primi interventi normativi in materia di assistenza sociale

I primi interventi in materia assistenziale in Italia risalgono al XIX secolo [10], all’indomani dell’unità d’Italia e ben più tardi della nascita dell’assi­stenza pubblica in altri paesi europei [11]. Il giovane Stato italiano si trovava ad affrontare numerosi problemi (la miseria, l’analfabetismo, l’incremento demografico, l’immaturità sociale, l’impreparazione all’autogoverno, la mancan­za di senso civico, la questione meridionale), ma mancava una cultura assistenziale e previdenziale comune, che non era decollata anche per il ritardo con cui era iniziato il processo di industrializzazione, oltre che per la netta supremazia della Chiesa all’interno del settore [12]. Il primo provvedimento risale al 1862, quando con la legge n. 753 (legge Rattazzi) si stabilì la presenza in ogni Comune delle congregazioni di carità. Questi enti costituirono i primi organi di assistenza pubblica generica nei confronti dei bisognosi ma non ebbero un forte impatto sulla struttura e sul funzionamento del sistema assistenziale. Il loro ruolo risultò del tutto residuale rispetto alle attività caritativo-assistenziali di una fitta rete di organizzazioni private – un universo eterogeneo di istituzioni di beneficenza, opere pie, ricoveri e orfanotrofi – che rappresentarono per lungo tempo il perno centrale del settore. Qualche anno dopo, la legge Crispi del 1890 (n. 6972) tentò di provvedere al riordino dell’intricato sistema delle opere pie, attribuendole personalità giuridica pubblica [13]. Si tratta dell’intervento normativo più rilevante di questo periodo e ha rappresentato l’impalcatura giuridica su cui si è retta, in sostanza, pur con alcuni mutamenti giuridici e istituzionali, l’assistenza pubblica per quasi un secolo. Riconoscendo come «pubblici» i loro fini, le opere pie furono denominate istituti pubblici di beneficenza (IPAB), regolandone la costituzione, il funzionamento e l’estinzione. La legge, tuttavia, era ancora improntata al paternalismo e al controllo sociale degli assistiti e non contribuì a modificare in misura significativa la configurazione dell’intervento socioassistenziale. Di fatto, l’intervento dello Stato appariva interessato principalmente a una funzione di salvaguardia dell’ordine pubblico (una mera [continua ..]


3. L'assistenza sociale nella Costituzione e i suoi sviluppi negli anni '50

Il complesso apparato assistenziale della politica fascista costituirà una pesante eredità per il periodo repubblicano, malgrado il formale riconoscimento, attraverso la Costituzione, di principi nuovi e sostanzialmente di rottura rispetto all’ordinamento vigente a quel tempo. Certo, all’indomani della caduta del regime fascista, la Carta costituzionale divenne il nuovo punto di riferimento per le politiche di assistenza sociale nell’Italia repubblicana. La materia viene, infatti, profondamente innovata, sia pubblicizzando e decentrando ampiamente l’assistenza, sia stabilendo come principio ispiratore per l’intervento dell’autorità pubblica, quello della rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Si riconosce, cioè, l’esistenza, alla base della situazione di bisogno, di cause oggettive, determinate dal funzionamento dello stesso sistema economico e sociale, fatto che, giuridicamente, si traduce, nel­l’attribuzione al cittadino, di una posizione riconosciuta e tutelata che, per molti aspetti, comporta il nascere di un vero e proprio diritto soggettivo. Il diritto è insito nel riconoscimento della dignità della persona e della sua realizzazione e non è più legato all’appartenenza a una categoria specifica. Questa nuova concezione è espressa innanzitutto negli artt. 2 e 3 Cost., con i quali viene esaltato il ruolo del cittadino nella collettività organizzata e viene sancito il fondamentale principio di uguaglianza. Sono, poi, gli artt. 38 e 117 a individuare le disposizioni fondamentali: il primo con riferimento agli aspetti sostantivi, il secondo rispetto all’attribu­zio­ne di competenze fra i vari livelli di governo. L’art. 38 sancisce la responsabilità dello Stato verso il benessere dei cittadini e la parola «assistenza» assume un significato del tutto diverso da quello di «beneficienza», dietro la preoccupazione che questo concetto celasse l’idea che l’assistito debba manifestare gratitudine nei confronti di chi lo assiste. Nei primi due commi dell’art. 38, frutto di un lungo negoziato in Assemblea costituente [23], si distinguono in modo netto assistenza sociale e previdenza, dove quest’ultima offre una tutela più intensa contro i principali rischi sociali (infortunio, [continua ..]


4. La (breve) stagione delle politiche espansive: gli anni '60 e '70

Negli anni sessanta si iniziano a porre le basi per un rinnovamento dell’a­zione pubblica, attraverso la formulazione di alcuni principi fondamentali, quali il superamento del criterio della povertà per l’accesso ai servizi di assistenza, l’adozione del criterio di scelta tra più servizi per i bisogni più estesi e l’accentuazione del carattere preventivo dell’assistenza sociale. In questa fase, anche il movimento sindacale comincia ad assumere un ruolo importante nella definizione degli obiettivi di politica sociale: grazie a una cresciuta capacità contrattuale, allarga il proprio campo di intervento, uscendo dai confini ristretti della fabbrica per entrare “nel sociale”. Gli anni sessanta costituiscono, infatti, anche il periodo in cui avviene l’inevitabile presa di coscienza, da parte del movimento dei lavoratori e di vasti strati dell’opinione pubblica, dei guasti che i rapidi e massici processi di inurbamento e di industrializzazione verificatisi nel Paese, avevano causato all’interno del tessuto sociale. Sono anni, questi, in cui si gettano le basi culturali di quella che è stata definita la «formula pacificatrice» dello Stato assistenziale, consistente, da un lato, nell’attribuzione all’apparato statale dell’obbligo di «fornire assistenza e sostegno (in denaro o in natura) a quei cittadini che soffrono di specifici bisogni e rischi, caratteristici delle società di mercato», e, dall’altro, nel «riconoscimento del ruolo formale dei sindacati di lavoratori sia nella contrattazione collettiva che nella formazione della politica pubblica» [30]. Tuttavia, per quanto riguarda la politica assistenziale si registra ancora una volta una netta divaricazione tra quelli che risultano essere, in fase di programmazione, gli indirizzi più avanzati e l’effettiva attuazione degli interventi che non rivela sostanziali modifiche rispetto al decennio precedente, lasciando inalterati i centri del “potere assistenziale” [31]. L’aumento delle risorse destinate alla protezione sociale si diresse principalmente agli schemi di natura previdenziale, anche se non mancarono alcuni importanti provvedimenti per il settore dell’assistenza sociale riguardanti sia la sfera del sostegno al reddito, sia quella dei servizi sociali territoriali. Con riferimento agli schemi [continua ..]


5. Le trasformazioni socio-economiche degli anni '80 e '90 e l'emer­sio­ne di nuovi bisogni

Dalla fine degli anni ’70, alcune grandi trasformazioni sociodemografiche e occupazionali iniziano a alterare profondamente la struttura di rischi e bisogni che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra. Bisogna ora fare i conti con il passaggio a un’economia postindustriale, con l’invecchiamento della popolazione, l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e il primo significativo aumento dell’immi­gra­zione extracomunitaria [39]. La maggiore flessibilità del lavoro e la diffusione di forme di lavoro atipiche e meno garantite mettono in discussione la prospettiva del lavoro a tempo pieno per tutta la vita, implicando una maggiore diversificazione e frammentazione delle esperienze occupazionali, specialmente per i lavoratori meno qualificati, e una maggiore probabilità che un lavoratore sperimenti più volte nel corso della propria vita lavorativa periodi di disoccupazione anche di lungo periodo. Diventa dunque di particolare rilevanza l’esistenza sia di politiche a sostegno del reddito (previdenziali e assistenziali) sia di politiche attive del lavoro volte a facilitare il reinserimento lavorativo e l’inclusione sociale dei beneficiari [40]. L’accresciuta instabilità lavorativa, combinandosi con l’assenza di un sistema di ammortizzatori sociali organico e inclusivo, contribuisce a rendere i nuclei familiari con un solo percettore di reddito sensibilmente più esposti al rischio di povertà, specialmente in presenza di figli [41]. L’allungamento della speranza di vita e il più generale invecchiamento della popolazione determinano un aumento della domanda non solo di prestazioni sociosanitarie ma anche di servizi sociali di nuova generazione, come i servizi domiciliari, i centri semiresidenziali e/o di sollievo: il fenomeno della non-autosufficienza nell’età anziana diventa più marcato e le risposte informali (non istituzionali) sempre meno adeguate. Parallelamente, la crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro condiziona la disponibilità di tempo delle famiglie da dedicare alle tradizionali attività di cura di bambini, anziani e/o disabili, accrescendo di conseguenza l’esigenza di servizi sociali territoriali. Una esigenza accentuata anche dalla maggior fragilità delle unioni matrimoniali e dal declino delle dimensioni medie dei nuclei [continua ..]


6. La legge quadro del 2000 e la sua difficile implementazione

È proprio questo obiettivo ad essere posto a fondamento del primo vero intervento organico in materia di assistenza sociale, ovvero la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali del 2000 (1egge n. 328) che ha senza dubbio rappresentato un grosso passo in avanti del settore assistenziale italiano rispetto al passato [55]. La legge del 2000 può essere considerata “la” riforma dell’assistenza: trovano qui la massima realizzazione, almeno sul piano dei principi, la prevenzione del rischio sociale, l’inclusione e la partecipazione dei cittadini alla vita attiva del paese con l’obiettivo di ridisegnare un sistema coordinato di tutte le politiche sociali a vari livelli. Per la prima volta, la legge definisce i diritti dei cittadini all’assistenza sociale come diritti universali. L’assistenza viene interpretata come un intervento globale e integrato, per la prevenzione e per il sollievo dallo stato di bisogno, segnando il passaggio dalla concezione di utente quale portatore di un bisogno specialistico a quella di persona nella sua totalità costituita anche dalle risorse disponibili e dal contesto familiare e territoriale in cui vive. E così l’accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi del disagio, viene sostituita con quella di “protezione sociale attiva”, destinata non solo a rimuovere le cause di disagio ma anche perseguire obiettivi di prevenzione e promozione dell’inserimento della persona nella società attraverso la valorizzazione delle sue capacità [56]. Nelle intenzioni del legislatore, il tutto si sarebbe dovuto realizzare, su due piani, secondo il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale [57]. Per un verso, un’integrazione verticale tra i livelli della pubblica amministrazione: lo Stato – livelli essenziali, indirizzo generale –, le Regioni – programmazione, coordinamento e indirizzo, criteri di compartecipazione, uffici di tutela –, le Province – compartecipazione alla programmazione (monitoraggio e formazione) – e i Comuni – programmazione locale, progettazione e realizzazione, erogazione, autorizzazione, accreditamento. Per altro verso, un’integrazione o­rizzontale tra le diverse politiche con l’apertura a soggetti diversi da quello pubblico, [continua ..]


7. La forte domanda di protezione sociale avviatasi con la crisi del 2008 e le prime deboli risposte del legislatore

Invero, una nuova fase, sia pure caratterizzata dalla sperimentalità degli interventi, si è avviata a partire dal 2007 in risposta alla profonda ed estesa crisi economica che travolge il nostro Paese e che produce, non diversamente da (ma più che in) altri paesi, una massiccia domanda di protezione sociale [68]. Naturalmente la crisi ha posto al centro la questione della scarsità delle risorse economiche e del risanamento delle finanze pubbliche, e la riforma del­l’assistenza sociale è stata presentata inizialmente come un processo tendenzialmente a costo zero, da realizzarsi all’interno del perimetro della spesa per il welfare. Sempre più scarse sono divenute le risorse finanziarie messe a sua disposizione, differentemente dagli sforzi fatti per la salvaguardia (e talvolta il ripristino) di diritti-spettanze in campo pensionistico. La spesa per il settore socioassistenziale è stata l’unica componente della spesa sociale che ha registrato (invero già dagli anni novanta) una contrazione della sua incidenza sul PIL [69]: è l’unica voce di spesa a essersi contratta fra il 1995 e il 2010, in controtendenza rispetto all’aumento dei bisogni sociali. I fondi sociali nazionali introdotti dalla legge 328 da destinare a Regioni e Comuni, dal 2007 al 2012, vengono falcidiati [70]. Né è stato possibile trovare risorse per l’assistenza ripartendole in maniera diversa tra i settori del welfare, anche perché l’invecchia­mento della popolazione ha comportato un’inevitabile espansione della spesa sanitaria e di quella per le pensioni [71]. Al contempo, hanno «pesato» sulla percorribilità di una riconfigurazione della spesa sociale a vantaggio dell’assistenza anche le forti resistenze al cambiamento legate all’operare di meccanismi di policy feedback, particolarmente forti in campo pensionistico, e il basso potere di negoziazione dei potenziali fruitori delle riforme espansive nel settore socioassistenziale, dovuto alla debolezza politica e alla frammentazione interna dei gruppi sociali più svantaggiati [72]. La residualità dei servizi socio-assistenziali non solo non soddisfa la domanda di protezione sociale ma finisce anche per accentuare le disuguaglianze [73], penalizzando significativamente le politiche di pari opportunità a favore delle donne e [continua ..]


8. Gli sviluppi più recenti: l'attenzione (solo) alla misura di contrasto della povertà e per linclusione sociale

Il 2017 può essere considerato l’anno di svolta, in un contesto dai dati sem­pre più allarmanti: il rischio di povertà o esclusione sociale riguarda il 30% della popolazione italiana [86]. Ma ciò che desta particolare preoccupazione è il netto aumento della percentuale di persone in povertà assoluta (soprattutto dopo il 2011), più per i minorenni e i giovani adulti di età compresa tra i 18 e i 34 anni rispetto alle altre classi di età [87]. Si assiste quindi a una ridefinizione della figura tipica del soggetto in condizione di povertà: in passato prerogativa degli anziani, oggi più legata alla giovane età. E la ragione di questo risiede nel più volte citato sbilanciamento della spesa per la sicurezza sociale a favore degli individui più anziani, a cui si aggiunge la crescente difficoltà da parte dei giovani residenti in Italia ad accedere a occupazioni che garantiscano allo stesso tempo condizioni economiche dignitose e uno status lavorativo stabile. In tale scenario, l’adozione di una misura di contrasto alla povertà non era più rinviabile. Con il d.lgs. n. 147/2017 [88] viene istituito il reddito di inclusione (ReI), un intervento universale, di carattere generale, non dedicato ai lavoratori ma alle famiglie con figli in condizione di fragilità [89] che chiude definitivamente il ciclo di misure sperimentali. L’avvento del ReI, nella lunga e faticosa storia per introdurre politiche di contrasto alla povertà, segna una tappa molto importante, realizzando un solido avanzamento nelle politiche per l’assistenza del nostro Paese. Invero, l’introduzione del ReI non è l’ultima novità in fatto di politiche per l’assistenza, visto che il 2018 segna un’altra tappa importante nel dibattito pubblico in materia di lotta alla povertà, essendo presente nella nuova compagine di governo una forza politica, il Movimento 5 stelle, da tempo promotrice di una misura, il reddito di cittadinanza (RdC), molto più ambiziosa, a suo dire, dello schema nazionale di reddito minimo. Il RdC, approvato col d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (convertito in legge 29 marzo 2019, n. 26), presenta, invero, una natura ibrida, al contempo, «a garanzia del diritto al lavoro», come le tradizionali politiche per l’occupazione, e «di contrasto alla [continua ..]


8. Gli sviluppi più recenti: l'attenzione (solo) alla misura di contrasto della povertà e per l'inclusione sociale

9. Una chiosa finale per un approccio costruttivo

A conclusione del rapido viaggio nella storia dell’assistenza sociale, dal XIX secolo ai giorni nostri, un dato di cui certo non può dubitarsi è il riconoscimento di un’intensa attività del legislatore italiano, impegnato costantemente a trovare soluzioni a problemi gravi, immanenti e in continua mutazione. Tuttavia, si ha sempre l’impressione di uno scarto tra il dato normativo e l’ef­fettiva realizzazioni degli obiettivi a esso sottesi. In altri termini, le politiche socioassistenziali, anche le migliori possibili, perdono di solidità quanto più ci si allontana dal piano strettamente normativo e si passa a quello dell’attua­zio­ne e della prassi applicativa. In considerazione di ciò, pare utile, come chiosa finale, aggiungere due ulteriori brevi riflessioni in termini propositivi, anche alla luce delle varie criticità – non di rado, sempre le stesse – emerse nelle diverse fasi storiche. La prima osservazione attiene al dato istituzionale. È noto che l’efficienza delle politiche sociali è sempre strettamente legata all’efficacia degli apparati amministrativi preposti a gestirle; essa dipende, in ultima analisi, dalle «capacità istituzionali» [106] del Paese. Le disparità territoriali, a cui spesso si è fatto riferimento nel presente contributo, sono la conseguenza, per buona parte, proprio dei forti deficit di capacità istituzionali, specie nelle Regioni del Sud, caratterizzate, fra l’altro, da una scarsa domanda di lavoro e un eccesso del­l’offerta. Pertanto, il rafforzamento di queste capacità – a livello centrale, a livello decentrato, nei rapporti fra i due livelli – è il punto cruciale, verosimilmente il prerequisito più importante per passare “dalle parole ai fatti”. La sensazione è che questa difficoltà, a passare dalla fase di definizione degli interventi a quella della loro attuazione, pur largamente nota, non sia mai stata presa in seria considerazione dai decisori politici [107]. Come ampiamente dimostrato dagli studiosi dell’attuazione delle politiche pubbliche [108], gli interventi possono naturalmente essere più o meno ponderati ed elaborati, sorretti da una profonda conoscenza dei fenomeni su cui si intende agire o invece relativamente improvvisati. Ma in ogni caso [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019